Storia di Trieste: l’incubo del maggio 1945
Testimonianza della Guardia di Finanza Angiolino Unali
Unico superstite della strage di Campo Marzio

«Sono testimone oculare dei fatti avvenuti a Trieste nella primavera del 1945 in concomitanza con la resa delle ultime forze tedesche e l’arrivo in città delle forze partigiane di Tito, al mattino del 1° maggio, poche ore prima degli Alleati.

Avevo 19 anni e appartenevo al reparto della Guardia di Finanza acquartierato nella Caserma Postiglioni. Avevamo nuove speranze perché la guerra era appena finita, ma sono salvo per miracolo: si era deciso che dovevamo riunirci ai nostri commilitoni nella Caserma di Campo Marzio, ma proprio all’ultimo momento mi fu detto di non andare. Quei finanzieri furono immediatamente sequestrati dalle bande di Tito: io stesso li vidi, inquadrati, disarmati, guardati a vista e avviati a piedi chissà dove.

Poi si venne a sapere che erano stati tutti uccisi, quasi certamente il 3 maggio, e infoibati sul Carso: verosimilmente a Basovizza, dove sono andato a rendere omaggio alla loro memoria nello scorso giugno, quando con grande emozione sono tornato per la prima volta a Trieste con un gruppo organizzato dalla nostra Associazione (ANFI) per recitare una preghiera nel Sacrario nazionale, davanti al nostro monumento.

Erano momenti terribili: si sapeva che i seguaci di Tito non avrebbero fatto sconti! Non a caso, gli stessi Tedeschi avevano cercato di arrendersi al Comitato di Liberazione Nazionale di Trieste ispirato da Don Edoardo Marzari – e indirettamente dallo stesso Vescovo Monsignor Antonio Santin – nelle cui file eravamo entrati anche noi durante quelle convulse ore di fine aprile. Poi tutto precipitò rapidamente e lo stesso Comitato di Liberazione Nazionale dovette rientrare subito in clandestinità per sottrarsi a un destino incredibile: quello di finire nella mattanza operata dai cosiddetti liberatori.

Per fortuna arrivarono anche gli Alleati con cui gli Slavi dovettero stabilire una pur precaria convivenza, protrattasi fino al 9 giugno quando furono costretti a lasciare Trieste [a seguito degli accordi di Belgrado fra Tito e Harold Alexander – Nota del Redattore]. Io ebbi la ventura di potermi affidare a loro, e successivamente di essere destinato a Venezia tramite la Croce Rossa: fu la salvezza.

Sono contento di essere stato a Trieste e di avere portato i fiori dell’Associazione alla nostra lapide di Basovizza anche se sono amareggiato perché, dopo l’invito per un’intervista, la cosa non ha avuto seguito senza alcuna motivazione: mi è stato detto che non era più possibile, ma nel mio cuore è rimasto il dubbio che la storia dei finanzieri infoibati senza colpe sia stata oggetto di una nuova cortina di silenzio. A ogni modo, il ricordo e il rimpianto restano incancellabili per sempre».

(Angiolino Unali – Cagliari, novembre 2012)


La storia di Venezia Giulia e Dalmazia abbonda di testimonianze dirette, con particolare riguardo a quelle dell’ultimo conflitto mondiale e degli anni successivi, quando la zona fu teatro di una vera e propria tragedia epocale, sintetizzata nei 20.000 infoibati o diversamente massacrati dai partigiani di Tito e nei 350.000 esuli che non esitarono a lasciare affetti, ricordi, beni personali e i sepolcri degli Avi, suggellando una scelta plebiscitaria di civiltà e scrivendo una pagina eterna di storia e di dolore. D’altro canto, non poteva esserci risposta diversa di fronte all’ateismo di Stato, al collettivismo forzato e al terrore della morte in foiba.

Fra le tante toccanti testimonianze rimaste inedite, c’è quella della Guardia di Finanza Angiolino Unali, unico superstite della Caserma Triestina di Campo Marzio, dove i partigiani di Tito appena entrati in città (1° maggio 1945) catturarono tutti i presenti, compresi quelli giunti da altri distaccamenti, per infoibarli nel giro di poche ore: avevano la grave colpa di essere Italiani e di indossare una Divisa Italiana. Il loro dramma è diventato un simbolo della tragedia di un intero popolo, al pari di quello di Norma Cossetto, violentata e infoibata nell’ottobre 1943 a Villa Surani, o di Riccardo Gigante, massacrato a Castua nell’immediato dopoguerra e le cui Spoglie sono state recentemente inumate (2020) nell’Arca del Vittoriale che Gabriele d’Annunzio gli aveva riservato in memoria dell’epopea di Fiume (1919-1920).

Angiolino Unali è «andato avanti» or non è molto, trascorsi cinque anni dalla visita che nel 2012 aveva reso al Sacrario di Basovizza, a seguito della quale si fece premura di esprimere la sua commozione nelle parole ora proposte alla comune riflessione, quale esempio di una memoria sintetica ma sempre lucida, e soprattutto estremamente oggettiva: senza alcun inutile livore, ma nello stesso tempo senza incertezze circa i torti di chi si era macchiato di veri e propri delitti contro l’umanità, e circa le ragioni di chi fu Vittima del dovere e della fedeltà alla Patria.

Ciò, con sentimenti tanto più apprezzabili vista l’età di Angiolino, e tenuto conto del lungo viaggio dalla nativa Sardegna che avrebbe ripetuto in occasione di un successivo 10 Febbraio (Giorno del Ricordo) quando gli venne conferito un riconoscimento speciale da parte della sua Associazione e del mondo esule.

Unali ringraziava sempre il Signore Iddio per avergli consentito di salvarsi dalla truce mattanza delle foibe, ma la consapevolezza di essersi sottratto a un destino infame mentre altri 97 finanzieri non ebbero scampo, tutti i loro Nomi scritti a futura memoria sulla stele marmorea dell’ANFI, gli avevano lasciato un dolore incancellabile per quelle giovani vite barbaramente stroncate nel fiore degli anni.

Nel suo linguaggio scabro di Sardo abituato a guardare all’essenziale, Angiolino non nasconde che senza un «avvertimento» dell’ultimo istante il suo destino sarebbe stato uguale a quello degli altri; né ignora che senza il provvidenziale aiuto degli Alleati Neozelandesi, giunti a Trieste poco dopo i partigiani di Tito, la sua sorte avrebbe avuto moltissime probabilità di essere analoga. Di qui, la sua fedeltà alla bandiera, il suo costante ricordo di quella stagione senza «pietas» e la sua volontà di lasciare un messaggio di prima mano affinché quel dramma non venga rimosso dalla coscienza comune, nemmeno per la dura legge del tempo. Per l’appunto, era stato opportunamente rilevato sin dall’Ottocento, nella pertinente intuizione di Alessandro Manzoni, che la storia è prima di tutto una «guerra contro il tempo».

Altri finanzieri italiani, al pari di tanti civili e militari di diverse Armi, ebbero sorte diversa, con angosciose deportazioni in Jugoslavia in cui molti avrebbero finito per soccombere di stenti e vessazioni, se non anche di uccisioni senza motivo, mentre pochi sarebbero riusciti a rientrare in Italia dopo agghiaccianti vicissitudini. In effetti, la sopravvivenza era spesso affidata al caso, ma il numero delle Vittime e la storia delle loro sofferenze restano un atto d’accusa destinato a trascendere ogni pervicace tentativo di nascondere la verità effettuale attraverso un giustificazionismo degno di miglior causa.

Nella testimonianza di Unali non manca uno spunto di amarezza per un’intervista che gli sarebbe stata promessa e poi negata, forse proprio da qualcuno che non sapeva rinunciare alle antistoriche pregiudiziali del riduzionismo e del giustificazionismo. Ebbene, questo contributo postumo, oltre che un omaggio alla memoria di un autentico patriota, intende essere arra di verità oggettiva e corroborata dalla storia, ma nello stesso tempo, apporto a una vera giustizia.

(luglio 2020)

Tag: Carlo Cesare Montani, Angiolino Unali, maggio 1945, riduzionismo, giustificazionismo, esodo, foibe, Trieste, foiba di Basovizza, Don Edoardo Marzari, Monsignor Antonio Santin, Maresciallo Tito, Harold Alexander, Norma Cossetto, Riccardo Gigante, Gabriele d’Annunzio, Alessandro Manzoni.