Una strage proditoria perpetrata dai partigiani comunisti titini
Grobnico, giugno 1945

La storia del Novecento è costellata di stragi e di eccidi, la cui ricorrenza è stata particolarmente intensa durante il Secondo Conflitto Mondiale, senza escludere i delitti contro l’umanità compiuti a guerra finita senza nemmeno la pur labile copertura del fatto bellico. In tale contesto si inserisce la strage di Grobnico (Fiume) del giugno 1945, in cui persero la vita oltre cento Italiani appartenenti alla Polizia di Stato del capoluogo liburnico, con l’aggiunta di alcuni carabinieri, militari e civili.

Il 2 maggio, all’indomani dell’occupazione di Trieste, che aveva avuto priorità assoluta per evidenti ragioni strategiche, i partigiani di Tito si impadronirono di Fiume, con ampio vantaggio sulle successive «liberazioni» delle stesse Lubiana e Zagabria, e provvidero immediatamente all’arresto di tutti coloro che erano finiti nelle loro liste di proscrizione, predisposte con il solerte appoggio dei comunisti italiani.

Iniziarono subito le uccisioni indiscriminate, fra cui quelle degli autonomisti più autorevoli, quali Mario Blasich, strangolato nel suo letto di invalido, o Giuseppe Sincich e Nevio Skull, sequestrati a casa ed assassinati subito dopo sulla pubblica via, in maniera a dir poco primordiale. Contemporaneamente, a poche ore dall’invasione (era il 3 maggio), i partigiani andarono in Questura e prelevarono dirigenti, funzionari ed impiegati, senza alcuna eccezione, riservando la stessa sorte anche a coloro che operavano in ferrovia, al porto e nelle sezioni periferiche, quali quelle di Abbazia, Mattuglie e Ponte Eneo; chi non venne trovato, fu sequestrato a casa ed aggregato agli altri.

Non è dato sapere quale sia stata la prassi adottata nel «trattamento» dei prigionieri, che rimasero nelle carceri di Fiume per qualche giorno, come emerge dalle testimonianze rese da alcuni congiunti. Poi, furono trasferiti per ignota destinazione verso l’interno della Jugoslavia: è facile immaginare con quale contorno di angherie e di sevizie, che costituivano una tragica ritualità ripetitiva, ormai nota da tempo. Sta di fatto che fra il 14 ed il 16 giugno successivi quasi tutti vennero fucilati a Grobnico, nell’entroterra di Fiume, e sepolti in qualche fossa comune, se non anche in una foiba.

Secondo una ricostruzione personalizzata, predisposta in tempi recenti[1], soltanto una decina sarebbero sopravvissuti momentaneamente alla strage, ma non per questo la loro sorte fu migliore. Anzi, ebbero il supplemento di ulteriori torture fisiche e morali nei campi jugoslavi, dove scomparvero nei mesi successivi.

La Questura di Fiume, preposta istituzionalmente alla tutela dell’ordine pubblico, non si era macchiata di alcuna colpa nei confronti degli Slavi, anche durante il complesso periodo della Repubblica Sociale Italiana e della subordinazione agli occupanti tedeschi. Anzi, si era distinta per l’alta opera umanitaria del Commissario Giovanni Palatucci, Questore Reggente di Fiume fino al momento in cui venne arrestato dalla Gestapo e tradotto a Dachau, dove sarebbe stato ucciso dal tifo il 10 febbraio 1945.

Infatti Palatucci, con l’ausilio di alcuni collaboratori, si era prodigato per la salvezza di parecchi concittadini e di un alto numero di Ebrei, tanto che in seguito gli sarebbe stata riconosciuta la massima onorificenza israeliana, quella di «Giusto fra le Nazioni».

In questa ottica, la strage di Grobnico, programmata a danno precipuo della Polizia di Stato, resta inspiegabile, se non alla luce del piano di «pulizia» politica ed etnica orchestrato dai partigiani con la regia di Belgrado. Oltre tutto, la guerra era già finita, ed i prigionieri avrebbero avuto diritto, a più forte ragione, al trattamento umanitario statuito dalle leggi internazionali, che peraltro gli uomini di Tito avevano già dimostrato di considerare alla stregua di carta straccia. Del resto, non risulta che nei 40 giorni intercorsi fra la cattura e l’esecuzione siano intervenuti processi sia pure sommari a carico degli sventurati: non è da escludere, invece, che si sia voluto attendere l’esito degli incontri fra Tito ed il Generale Alexander avvenuti proprio in giugno, ed a seguito dei quali l’Armata Popolare Jugoslava fu costretta a sgomberare Trieste e Pola, ma non Fiume e le altre città istriane occupate sin dai primi di maggio.

Caddero tutti, senza distinzioni di grado e di funzioni, dal Commissario Capo Giuseppe Amato al brigadiere Barnaba Manno, alla guardia amministrativa Tullio Nicoletti, alle guardie scelte Raffaele Avallone e Peppino Frongia, che già dal 30 novembre 1943 aveva avuto lo straziante dolore di perdere la consorte ed i tre figli in tenera età in un attentato partigiano. Ciò, senza dire del fotografo Mario Sposta e dei semplici uscieri, quali Valerio De Vescovi e Gerlando Vasile, che pagarono con la vita, al pari di tutti gli altri, la sola grave colpa riveniente dal «delitto di italianità».

Il fatto che la strage di Grobnico sia stata programmata in modo chiaramente organizzato lascia presumere che qualche traccia debba essere rimasta negli archivi ex-jugoslavi, anche per quanto riguarda la sorte riservata alle spoglie delle vittime. Nondimeno, anche a questo riguardo non c’è stata alcuna apprezzabile collaborazione da parte jugoslava prima, né croata poi, nonostante le dichiarazioni di amicizia formulate più volte anche ai massimi livelli istituzionali: motivo di più per rinnovare le accorate richieste dei congiunti, in specie ora, visto che a Zagabria opera un Governo sensibile, per sua stessa dichiarazione, a comuni valori umani e patriottici. In fondo, quei congiunti chiedono soltanto di sapere dove poter portare un omaggio simbolico ai propri familiari caduti senza colpe in quella stagione plumbea e, soprattutto, dove poter recitare una preghiera di suffragio.

In alcuni casi la «giustizia» jugoslava si rese protagonista di un’ulteriore beffa surreale: quella dei processi postumi con cui, anche a distanza di anni, vennero pronunciate condanne a morte, ed alla confisca dei beni, a danno di chi era stato ucciso proditoriamente nel 1944-1945. Nel caso di Grobnico ciò non è accaduto, forse perché gli uomini della Polizia di Stato non avevano avuto beni appetibili bensì la sola, alta dignità di un’onorata divisa; ma questa non è una buona ragione per cancellarne la tragica sorte e per silenziare colpevolmente la memoria di un drammatico sacrificio epocale.


Nota

1 Giorgio Rustia, Il dramma della Questura Italiana della Città di Fiume (maggio-giugno 1945), Associazione Nazionale tra i Congiunti dei Deportati uccisi o scomparsi in Jugoslavia (ANCDJ), Trieste 2010.

(maggio 2016)

Tag: Laura Brussi, Italia, 1945, partigiani titini, Grobnico, occupazione di Trieste, partigiani comunisti, Mario Blasich, Giuseppe Sincich, Nevio Skull, carceri di Fiume, foibe, Giovanni Palatucci, strage di Grobnico, Armata Popolare Jugoslava, Giuseppe Amato, Barnaba Manno, Tullio Nicoletti, Raffaele Avallone, Peppino Frongia, Mario Sposta, Valerio De Vescovi, Gerlando Vasile, delitto di italianità, processi postumi jugoslavi, Giorgio Rustia, Fiume.