Sviluppo e progresso nel pensiero di Pier Paolo Pasolini
Una pagina poco conosciuta di Pasolini, in cui l’intellettuale si chiede che cosa siano realmente lo sviluppo e il progresso, e – spingendosi più oltre – mostra la contraddizione politica della Sinistra Italiana che, ieri come oggi, era inevitabilmente lanciata verso una sua trasformazione antropologica

Nel 1973, due anni prima di essere ucciso, il poeta, regista e intellettuale Pier Paolo Pasolini scriveva Sviluppo e Progresso, una pagina in cui non si limita ad attaccare il consumismo, le banche e la finanza invocando uno sviluppo che non contrasti con il diritto all’ambiente (come ha fatto Papa Francesco con la Lettera Enciclica Laudato si’), ma lancia delle accuse alla Sinistra, quella degli anni Settanta ovviamente, ma i cui influssi sono oggi evidenti, tanto da renderla una forza di conservazione e sostanzialmente residuale nella nostra società del terzo millennio, una copia dei partiti «reazionari» che avrebbe voluto combattere. L’articolo non fu pubblicato dal «Corriere della Sera», ma fu racconto negli Scritti Corsari. Leggiamolo integralmente, prima di fare alcune osservazioni:

«Ci sono due parole che ritornano frequentemente nei nostri discorsi: anzi sono le parole chiave dei nostri discorsi. Queste due parole sono “sviluppo” e “progresso”. Sono due sinonimi? O, se non sono due sinonimi, indicano due momenti diversi di uno stesso fenomeno? Oppure indicano due fenomeni diversi che però si integrano necessariamente fra di loro? Oppure, ancora, indicano due fenomeni solo parzialmente analoghi e sincronici? Infine; indicano due fenomeni “opposti” fra di loro, che solo apparentemente coincidono e si integrano? Bisogna assolutamente chiarire il senso di queste due parole e il loro rapporto, se vogliamo capirci in una discussione che riguarda molto da vicino la nostra vita anche quotidiana e fisica.

Vediamo: la parola “sviluppo” ha oggi una rete di riferimenti che riguardano un contesto indubbiamente di “destra”. Chi vuole infatti lo “sviluppo”? Cioè chi lo vuole non in astratto e idealmente, ma in concreto e per ragioni di immediato interesse economico? È evidente: a volere lo “sviluppo” in tal senso è chi produce; sono cioè gli industriali. E, poiché lo “sviluppo”, in Italia, è questo sviluppo, sono per l’esattezza, nella fattispecie, gli industriali che producono beni superflui.

La tecnologia (l’applicazione della scienza) ha creato la possibilità di una industrializzazione praticamente illimitata, e i cui caratteri sono ormai in concreto transnazionali. I consumatori di beni superflui sono da parte loro irrazionalmente e inconsapevolmente d’accordo nel volere lo “sviluppo” (questo “sviluppo”). Per essi significa promozione sociale e liberazione, con conseguente abiura dei valori culturali che avevano loro fornito i modelli di “poveri”, di “lavoratori”, di “risparmiatori”, di “soldati”, di “credenti”.

La “massa” è dunque per lo “sviluppo”: ma vive questa sua ideologia soltanto esistenzialmente, ed esistenzialmente è portatrice dei nuovi valori del consumo. Ciò non toglie che la sua scelta sia decisiva, trionfalistica e accanita.

Chi vuole, invece, il “progresso”? Lo vogliono coloro che non hanno interessi immediatamente da soddisfare, appunto attraverso il “progresso”: lo vogliono gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi lavora e dunque è sfruttato.

Quando dico “lo vuole” lo dico in senso autentico e totale (ci può essere anche qualche “produttore” che vuole, oltre tutto, e magari sinceramente, il progresso: ma il suo caso non fa testo). Il “progresso” è dunque una nozione ideale (sociale e politica): là dove lo “sviluppo” è un fatto pragmatico ed economico. Ora è questa dissociazione che richiede una “sincronia” tra “sviluppo” e “progresso”, visto che non è concepibile (a quanto pare) un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo.

Qual è stata la parola d’ordine di Lenin appena vinta la rivoluzione? È stata una parola d’ordine invitante all’immediato e grandioso “sviluppo” di un Paese sottosviluppato. Soviet e industria elettrica… Vinta la grande lotta di classe per il “progresso” adesso bisogna vincere una lotta, forse più grigia ma certo non meno grandiosa per lo “sviluppo”. Vorrei aggiungere però – non senza esitazione – che questa non è una condizione obbligatoria per applicare il marxismo rivoluzionario e attuare una società comunista. L’industria e l’industrializzazione totale non l’hanno inventata né Marx né Lenin: l’ha inventata la borghesia. Industrializzare un Paese comunista contadino significa entrare in competitività coi Paesi borghesi già industrializzati. È cio che, nella fattispecie, ha fatto Stalin. E del resto non aveva altra scelta.

Dunque la Destra vuole lo “sviluppo” (per la semplice ragione che lo fa); la Sinistra vuole il “progresso”. Ma nel caso la sinistra vinca la lotta per il potere, ecco che anch’essa vuole – per poter realmente progredire socialmente e politicamente – lo “sviluppo”. Uno “sviluppo”, però, la cui figura si è ormai formata e fissata nel contesto dell’industrializzazione borghese. Tuttavia, qui in Italia, il caso è storicamente diverso. Non è stata vinta nessuna rivoluzione.

Qui la sinistra che vuole il “progresso”, nel caso che accetti lo “sviluppo”, deve accettare proprio questo “sviluppo”: lo sviluppo dell’espansione economica e tecnologica borghese. È questa una contraddizione? È una scelta che pone un caso di coscienza? Probabilmente sì. Ma si tratta come minimo di un problema da porsi chiaramente: cioè senza confondere mai, neanche per un solo istante, l’idea di “progresso” con la realtà di questo “sviluppo”.

Per quel che riguarda la base delle Sinistre (diciamo pure la base elettorale, per parlare nell’ordine dei milioni di cittadini), la situazione è questa: un lavoratore vive nella coscienza l’ideologia marxista, e di conseguenza, tra gli altri suoi valori, vive nella coscienza l’idea di “progresso”; mentre, contemporaneamente, egli vive, nell’esistenza, l’ideologia consumistica, e di conseguenza, “a fortiori”, i valori dello sviluppo. Il lavoratore è dunque dissociato. Ma non è il solo a esserlo.

Anche il potere borghese classico è in questo momento completamente dissociato: per noi Italiani tale potere borghese classico (cioè praticamente fascista) è la Democrazia Cristiana. A questo punto voglio però abbandonare la terminologia che io (artista!) uso un po’ a braccio e scendere a un’esemplificazione vivace.

La dissociazione che spacca ormai in due il vecchio potere clerico-fascista può essere rappresentata da due simboli opposti e, appunto, inconciliabili: “Jesus” (nella fattispecie il Gesù del Vaticano) da una parte, e i “blue-jeans Jesus” dall’altra. Due forme di potere l’una di fronte all’altra: di qua il grande stuolo dei preti, dei soldati, dei benpensanti e dei sicari; di là gli “industriali” produttori di beni superflui e le grandi masse del consumo, laiche e, magari idiotamente, irreligiose.

Tra l’Jesus del Vaticano e l’Jesus dei blue-jeans, c’è stata una lotta. Nel Vaticano – all’apparire di questo prodotto e dei suoi manifesti – si sono levati alti lamenti. Alti lamenti a cui per il solito seguiva l’azione della mano secolare che provvedeva a eliminare i nemici che la Chiesa magari non nominava limitandosi appunto ai lamenti. Ma stavolta ai lamenti non è seguito niente. La “longa manus” è rimasta inesplicabilmente inerte. L’Italia è tappezzata di manifesti rappresentanti sederi con la scritta “chi mi ama mi segua” e rivestiti per l’appunto dei blue-jeans Jesus. Il Gesù del Vaticano ha perso.

Ora il potere democristiano clerico-fascista si trova dilaniato tra questi due “Jesus”: la vecchia forma di potere e la nuova realtà del potere» (Pier Paolo Pasolini, «Sviluppo e Progresso», in Scritti Corsari, Garzanti, pagine 175-178). Il testo è reperibile anche online (c’è persino un filmato audio-video con la lettura dell’articolo da parte dello stesso Pasolini).

Vediamo di dare qualche necessaria spiegazione, prendendo spunto anche da altri interventi di Pasolini negli Scritti Corsari e nelle Lettere Luterane (con alcune considerazioni mie personali).

Innanzitutto Pasolini, parlando di un’Italia dello sviluppo ma senza il progresso, sottolinea l’importanza che hanno assunto queste due parole nella discussione pubblica. La parola sviluppo si riferisce al processo economico e sociale che avviene in un territorio o anche nel sistema mondiale e, soprattutto con l’avvento dell’epoca moderna, a quel cambiamento che si è verificato con il passaggio da una società agricola basata sulle risorse naturali e il loro sistematico sfruttamento, a quella incentrata sull’industria e sul settore terziario dei servizi a essa collegato; lo sviluppo è teso alla produzione di beni che offrono il benessere materiale a chi li possiede. Il termine progresso, invece, sta a indicare l’elevazione umana e morale, legata a una concezione della storia concepita come miglioramento lineare dell’esistenza a cui approdano gli esseri umani e le comunità grazie al rafforzamento delle basi materiali e, quindi, delle espressioni sociali e persino spirituali.

Parlando della società italiana, Pasolini riflette sulla volontà degli attori sociali che sono a favore dello sviluppo: gli industriali che producono beni superflui, ma anche i consumatori di quei prodotti, per i quali lo «sviluppo» significa, nell’immediato cambiamento quantitativo della loro vita quotidiana, una visibile promozione sociale. Questa si esprime nell’abbandono di quei valori culturali legati a un’esistenza di miseria e al risparmio ricavato dall’attività lavorativa: la «massa» è per lo «sviluppo» per motivi esistenziali e diventa portatrice dei nuovi valori della società consumista.

Il progresso, invece, è voluto da quelli che non hanno interessi immediati da soddisfare (ma davvero?), e si battono per la qualità della vita e delle relazioni umane, vale a dire da operai, contadini e intellettuali di sinistra. Qui ci sarebbe da fare un distinguo, dato che raramente gli operai, i contadini e persino gli intellettuali di sinistra hanno avuto troppo interesse a occuparsi di un miglioramento delle relazioni umane, anzi, la seconda categoria – quella contadina – si è sempre distinta per la sua refrattarietà a ogni cambiamento: le società più «immobiliste» sono sempre quelle agricole. Quanto agli intellettuali di sinistra... non mi sembra che i Paesi comunisti siano diventati un modello di relazioni umane eccellenti, tutt’altro. Piuttosto, si potrebbero applicare queste parole a quei giovani – per fortuna ce ne sono, in Italia – che, dopo aver vissuto nelle città, hanno deciso di «tornare» alla terra: sono questi «agricoltori per scelta», che sanno coniugare le nuove tecnologie e la modernità con i ritmi antichi del mondo della natura, a essere l’emblema di quello che in queste righe si intenderebbe per «progressista». Ma questo tipo di scelta, per molti versi coraggiosa e certo controcorrente, nel 1973 non esisteva e, probabilmente, non era neppure ipotizzabile. Il «progresso», continua Pasolini, è una nozione ideale, là dove lo «sviluppo» è un fatto pragmatico ed economico.

In termini di azione politica, in riferimento soprattutto alla società italiana, è la destra – che spesso lo scrittore definisce clerico-fascista, termine ancor oggi caro agli ideologi di sinistra ma del tutto privo di significato e assolutamente ridicolo – a volere e a fare concretamente lo sviluppo, mentre è il progresso a cui mira la sinistra. Per raggiungere il potere, tuttavia, quest’ultima finisce per volere quello sviluppo, realizzato dall’industrializzazione e rappresentato dall’espansione economica e tecnologica (borghese). Nel sistema capitalista, insomma, è possibile il progresso soltanto se si pongono le basi strutturali costituite dallo sviluppo, così come viene realizzato nel tempo storico in cui si vive e dai detentori del potere economico, sociale e politico che governano la cosa pubblica.

In Italia, più che in altri Paesi, vi è stato quello sviluppo senza progresso, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, nel quale gli Italiani furono gettati nel vortice dei processi di individualizzazione e di modernizzazione tipici dell’età contemporanea con il passaggio dalla società tradizionale di braccianti e contadini a quella dominata dall’industria e dall’urbanizzazione. Nella vita frenetica delle città, gli esseri umani agiscono secondo le logiche del mercato, in una società conformista definita dall’intellettuale come penitenziario del consumismo, dove regna l’omologazione dei valori, spesso spacciata per emancipazione sociale. Un’illusione provocata anche grazie alla falsa rappresentazione della realtà promossa dalla televisione, che era stata ingenuamente definita, al suo apparire, come quella finestra sul mondo che avrebbe mostrato agli spettatori le meraviglie dello sviluppo e del progresso.

L’industrializzazione degli anni ’70 aveva sì unificato l’Italia, ma uniformandola con violenza sui valori del consumismo e della civiltà industriale, distruggendo le diverse culture particolaristiche della civiltà contadina e paleoindustriale, contribuendo a una mutazione antropologica radicale del popolo italiano, dei suoi costumi, della sua coscienza, corrotta e degradata dal potere dei consumi.

Dure sono le parole di Pasolini, nel parlare di tutta la classe politica, ma in particolar modo della Democrazia Cristiana, con il suo ambiguo e, in alcuni casi, pseudo-democratico uso del potere, tanto da definirla senza mezzi termini «fascista». Arriva persino a scrivere che della Chiesa (che non è la Democrazia Cristiana e neppure un’organizzazione politica, come invece appare nel suo scritto) fanno parte «i sicari», che la Chiesa ha sempre eliminato i propri nemici ma che con i blue-jeans Jesus – nome di pessimo gusto, se non addirittura blasfemo – «è rimasta inesplicabilmente inerte». Qui si passa decisamente al ridicolo: a che cosa si riferisce, ai Crociati, all’Inquisizione? Agli agenti dei servizi segreti vaticani che esistono solo nella fantasia dei romanzieri? Che cosa dire, allora, del Partito Comunista Italiano e delle Brigate Rosse, della sua lotta per assumere il potere con la violenza? Quando si entra dentro le pastoie dell’ideologia politica, anche un intellettuale di qualità come Pasolini non riesce a rendersi contro delle insensatezze che scrive.

Qualche anno fa, le Nike hanno messo in commercio una linea di scarpe in cui i rilievi delle suole formavano la parola «Allah»: era un modo per «sfondare» nei Paesi islamici con un atto che pensavano venisse considerato come un omaggio. Ma i musulmani si offesero al pensiero di calpestare il nome di Dio, e così a essere sfondate furono le vetrine di molti negozi che esponevano quelle scarpe, che furono ritirate dalla circolazione nel giro di pochi mesi. Nel mondo cattolico non assistiamo a nulla di simile, neppure quando vengono messi in circolazione libri o film o allestite mostre di carattere decisamente blasfemo; il massimo che si fa, è il boicottaggio. Pasolini si stupisce, insomma, che i Cristiani (o la Chiesa) siano rispettosi delle leggi e della convivenza civile. Perché?

Ma torniamo a ridargli la parola. La sua indignazione lo porta a scrivere che l’Italia è un Paese ridicolo e sinistro: i suoi potenti sono delle maschere comiche, vagamente imbrattate di sangue, mentre i cittadini sono l’immagine della frenesia più insolente ed è difficile non considerarli spregevoli o comunque colpevolmente incoscienti. Lo sviluppo diventato fine a se stesso e non mezzo per il benessere sociale, insomma, ha portato addirittura al regresso rappresentato dal degrado morale, sociale e dell’ambiente naturale. E l’errore si è trasformato in orrore.

Dagli anni Settanta della «profetica» analisi pasoliniana ai nostri giorni, nel tempo dominato dall’informazione televisiva e da quella che scorre sulle pagine digitali dei social network, osserviamo la fine del mito dell’industrialismo e dello sviluppo a esso collegato, e le macerie che ci ha lasciato: povertà, fine delle grandi narrazioni del lavoro salariato, disoccupazione, precarietà, città invivibili, inquinamento, cementificazione e distruzione del territorio, spopolamento dei paesi e delle zone interne. Non sono rimaste tracce e impronte visibili di quello che si sognava potesse e dovesse essere il vero progresso, se non in alcune aree e in alcune comunità di piccole dimensioni. In un’Italia sempre più in crisi, assistiamo increduli all’accaparramento delle «poltrone» da parte di politici vecchi e nuovi, alla loro autoglorificazione quando riescono a far cadere un Governo di cui facevano addirittura parte (pensiamo a Renzi, tanto per citare il caso più recente), mentre dalle regioni artiche all’Australia in fiamme arrivano le immagini dell’inferno sulla Terra, causato dall’irresponsabile e non sostenibile sviluppo infinito su di un pianeta dalle risorse grandi ma finite.

(aprile 2021)

Tag: Simone Valtorta, sviluppo e progresso nel pensiero di Pier Paolo Pasolini, contraddizione politica della Sinistra Italiana, Pier Paolo Pasolini, Sviluppo e Progresso, Papa Francesco, Laudato si’, Scritti Corsari, Lettere Luterane, industrializzazione, espansione economica e tecnologica, sistema capitalista, consumismo, industrializzazione degli anni ’70, Democrazia Cristiana, social network, fine del mito dell’industrialismo.