Togliatti e Trieste
L’ambiguità del Partito Comunista Italiano nella questione riguardante la città contesa tra Italia e Jugoslavia

Al termine della Seconda Guerra Mondiale si assistette in Europa alla divisone in due campi contrapposti formati dal blocco occidentale diretto dagli Stati Uniti, e dal blocco orientale capeggiato dall’Unione Sovietica. Mentre nei Paesi sotto il dominio dell’Armata Rossa i partiti comunisti iniziarono una feroce repressione contro i loro oppositori politici, in Italia invece finirono per lavorare all’interno di un contesto democratico. Ciò ha portato alcuni storici a ipotizzare una sorta di «diversità» del Partito Comunista Italiano considerato come sostanzialmente «diverso» dai suoi omologhi dell’Est.

Altri storici hanno invece mostrato non solo che Palmiro Togliatti rimase fino all’ultimo un «Uomo di Mosca»[1], ma anche che la partecipazione del Partito Comunista Italiano all’interno di un contesto democratico non era in contraddizione con il lealismo mostrato verso l’Unione Sovietica in quanto lo stesso Stalin conforterà Togliatti nello seguire la via parlamentare e vieterà ai comunisti italiani di tirare fuori le armi dai nascondigli per prendere il potere.[2] La ragione di questo approccio si spiega con la logica dei «rapporti di forza», secondo cui – come disse una volta il leader georgiano – «chi occupa un territorio, vi impone il proprio sistema sociale»; e l’Italia rientrava, secondo queste logiche, nella sfera di competenza degli Americani.[3] Questa situazione pose il Partito Comunista Italiano di fronte a una vera e propria antinomia: mentre da un lato cercò infatti di darsi l’immagine di un «Partito nazionale», dall’altro non nascondeva la sua vicinanza con i Paesi Socialisti.

Questa particolarità pose il partito in grosse difficoltà quando queste tendenze giunsero a cozzare, e ciò lo si vide soprattutto durante le tensioni riguardanti i territori di confine contesi tra l’Italia e la Jugoslavia: i legami internazionali del Partito Comunista Italiano imponevano a Togliatti di solidarizzare con la Jugoslavia verso la quale il Migliore aveva manifestato profonda stima al punto da indicarla come modello da seguire,[4] ma il leader del Partito Comunista Italiano era anche cosciente che un pronunciamento a favore della cessione di Trieste e dell’Istria gli avrebbe fatto perdere consensi e avrebbe compromesso la sua credibilità agli occhi dell’opinione pubblica italiana. Di fronte a questa situazione non sorprende quindi che Togliatti assumesse posizioni contraddittorie riguardo alla questione della futura collocazione di Trieste.

Nell’ottobre del ’44 il capo dei comunisti italiani incontrò a Bari due rappresentati di Tito – Edvard Kardej e Milovan Gilas – e in quella riunione, stando al verbale redatto da Kardej, il Migliore accolse le rivendicazioni dei due inviati al punto da affermare che Trieste sarebbe dovuta spettare alla Jugoslavia. Pochi giorni dopo Togliatti avrebbe inoltre inviato una direttiva al dirigente del Partito Comunista Italiano Vincenzo Bianco in cui, parlando dell’occupazione jugoslava, affermava che «è un fatto positivo, di cui dobbiamo rallegrarci e dobbiamo in tutti i modi favorire… In questa regione non vi sarà né un’occupazione, né una restaurazione dell’amministrazione reazionaria italiana, cioè si creerà una situazione profondamente diversa da quella che esiste nella parte libera dell’Italia». Sebbene nella direttiva Togliatti cercasse di operare una distinzione tra l’«occupazione» che bisognava favorire in tutti in modi, e l’«annessione» che si sarebbe invece dovuta trattare in una futura conferenza di pace, era tuttavia chiaro che il controllo politico e militare dei territori contestati forniva alla Jugoslava una solida carta per assicurarsi il loro mantenimento nel dopoguerra.[5]

Eppure Togliatti avrebbe assunto una posizione – all’apparenza – radicalmente diversa quando le truppe del Maresciallo Tito entrarono a Trieste l’anno successivo: il 5 maggio del ’45 il Migliore votò infatti a favore di un ordine del giorno emanato dal Consiglio dei Ministri in cui la città veniva definita «indiscutibilmente italiana», e pochi giorni dopo avrebbe inoltre approvato un’altra risoluzione che conteneva l’esplicita richiesta di ritiro delle forze jugoslave. Come disse il capo del Partito Comunista Italiano alla sede di direzione del Partito, questo cambio di svolta era dovuto a ragioni politiche: evitare il rischio di rimanere «isolati all’interno del Paese».[6]

È importante però non dimenticare che questa «inversione» non contemplava alcuna forma di rottura tra il Partito Comunista Italiano e la Jugoslavia come dimostra l’atteggiamento negazionista che assunsero molti comunisti italiani nei confronti della questione delle Foibe e dell’Esodo dei profughi istriani. Lo stesso Togliatti aveva infatti attribuito le uccisioni avvenute a Trieste nei primi giorni di maggio a «una giustizia sommaria fatta dagli stessi Italiani contro i fascisti», e la stampa comunista cercò inoltre di negare che la fuga degli Italiani fosse causata dalla persecuzione subita dal regime di Tito, ma sostenne invece la tesi che le partenze fossero provocate dalla propaganda dei settori anticomunisti che incitavano la popolazione indigena a lasciare le loro terre[7] (oltre ad avanzare l’insinuazione che buona parte dei profughi fossero in realtà dei fascisti in fuga).[8]

L’obiettivo che Togliatti si prefiggeva era infatti quello di trovare una soluzione che potesse venire incontro alle richieste jugoslave salvaguardando allo stesso tempo la sua immagine politica in Italia. A tal fine il leader del Partito Comunista Italiano propose quindi di concedere, per alcuni anni, «piena autonomia politica e doganale» alla Venezia Giulia in vista dell’istituzione di un plebiscito in cui la popolazione residente avrebbe dovuto decidere se aderire all’Italia o alla Jugoslavia (risultato che, stando alle dichiarazioni sincere od opportunistiche dei dirigenti del Partito Comunista Italiano, si sarebbe sicuramente concluso con la vittoria del nuovo Stato Comunista). Tuttavia, dopo il rifiuto jugoslavo a questo progetto, il Migliore tenterà un negoziato diretto con Tito verso la fine del ’46, giungendo a proporgli la cessione di Gorizia in cambio di Trieste. Proposta che suscitò però lo sdegno di molti politici italiani poiché presupponeva la perdita di una città che era stata assegnata all’Italia (Gorizia) per un’altra che non era invece stata assegnata alla Jugoslavia e che i dirigenti italiani speravano di poter riprendere in futuro (Trieste).[9]

A ogni modo, l’influenza del Partito Comunista Italiano (e degli altri partiti italiani) nella contesa riguardante i territori contestati era assai limitata in quanto le decisioni finali spettavano agli Alleati che nel Trattato di Parigi sancirono infine la cessione alla Jugoslavia di alcune province italiane e la nascita del Territorio Libero di Trieste (la città sarebbe infine tornata all’Italia nel 1954). Nel ’48 il Partito Comunista Italiano avrebbe tra l’altro rotto con la Jugoslava, non per via dei contrasti nazionali ma perché, in seguito all’espulsione di Tito dal Cominforn, Togliatti si schierò dalla parte di Stalin denunciando il «regime poliziesco e di dispotismo turco» presente all’interno del Partito Comunista Jugoslavo.


Note

1 Si vedano le riflessioni di Giovanni Belardelli, Il comunismo inventato, in Autori Vari, Miti e storia dell’Italia Unita, Il Mulino, Milano 1999, pagine 223-229.

2 Confronta Raoul Pupo, Trieste ’45, Editore Laterza, Bari 2010, pagina 302.

3 Questo non significa che il dittatore sovietico avesse accettato la logica dei due blocchi in quanto Stalin era convinto che fosse inevitabile, nel prossimo futuro, un conflitto armato tra il mondo imperialista e il blocco socialista. Secondo Molotov, infatti, «Stalin la vedeva in questo modo: la Prima Guerra Mondiale ha liberato un Paese dalla schiavitù capitalista, la Seconda ha dato vita a un sistema socialista, la Terza metterà fine per sempre all’imperialismo». In quest’ottica, nell’Europa Occidentale, il Partito Comunista Italiano, e anche il Partito Comunista Francese, dovevano quindi rinunciare all’immediata conquista del potere, ma dovevano prepararsi alla lotta, anche costituendo unità di combattimento e di deposito armi, in vista dell’inevitabile guerra tra Mosca e Washington. Conflitto che non bisognava però provocare fino a quando l’America avesse avuto il vantaggio nucleare. Confronta Andrea Graziosi, L’URSS dal trionfo al degrado, Il Mulino, Milano 2008, pagina 78.

4 In una lettera inviata nel luglio del ’45 al delegato del Partito Comunista Italiano a Trieste, Giacomo Pellegrini, Togliatti scrisse che: «Avvenuta la liberazione ad opera, prevalentemente, delle forze jugoslave, queste ultime orientano tutta la vita della regione [Venezia Giulia] secondo lo schema di vita e organizzazione democratica che vige in Jugoslavia. A ciò, non solo non potevamo fare obiezioni, ma non potevamo che essere contenti della cosa. Si trattava infatti […] di una forma di organizzazione più avanzata, a cui saremmo contenti se potessimo portare il movimento democratico del nostro Paese»; e ancora nel novembre del ’46 il leader del Partito Comunista Italiano dichiarò sulle pagine dell’«Unità» che «i lavoratori della Jugoslavia sono riusciti, dopo la guerra di liberazione, a fare ciò che noi in Italia non siamo ancora riusciti a fare». Citazioni prese da Patrick Karlsen, Il Partito Comunista Italiano di Togliatti tra via nazionale e modello jugoslavo (1941-1948) in Porzus. Violenza e resistenza sul confine orientale, a cura di Tommaso Piffer, Il Mulino, Milano 2012, pagine 84-85.

5 Confronta Gianni Oliva, Foibe. Le stragi negate degli Italiani della Venezia Giulia e dell’Istria, Mondadori, Milano 2002, pagine 128-131.

6 Confronta Raoul Pupo, Trieste ’45, Edizione Laterza, Bari 2010, pagine 188-189.

7 Esemplare, a questo proposito, un articolo del dirigente Luigi Longo, pubblicato sull’«Unità» il 14 febbraio 1947 e intitolato: Chi ha ingannato i nostri fratelli di Pola?, dove si affermava: «Per la prima volta è la popolazione la quale rivendica il proprio diritto alla nazionalità sulle terre abitate da secoli, che abbandona volontariamente quelle terre agli originari di altre nazionalità. Si è detto: è il terrore “titino” che caccia i nostri connazionali dall’Istria, è il regime sociale della Repubblica Jugoslava che spinge alla fuga. Rispondiamo: è la campagna di menzogne antislava, sono le sollecitazioni e le promesse fatte dagli inviati (della Commissione pontificia? Del Governo?) italiani che hanno avviato ed ingrossato il movimento di esodo. Si è promesso lavoro, alloggio, assistenza, ogni felicitazione a chiunque partiva».

8 «Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città, non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà, né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già scarsi» scrisse Piero Montagnani in un articolo pubblicato sull’«Unità» il 30 novembre del 1946. Vi è chi ha parlato di una decontestualizzazione del pezzo in quanto Montagnani ammetteva che tra le persone in fuga vi erano anche «migliaia e migliaia di Italiani onesti». In realtà, l’articolo non faceva che ribadire le tesi negazioniste: i profughi «onesti» fuggivano non a causa del terrore jugoslavo ma perché l’Esodo era stato «artificiosamente sollecitato con spauracchi inconsistenti e promesse inattuabili» dagli anticomunisti.

9 Confronta Raoul Pupo, Trieste ’45, Edizione Laterza, Bari 2010, pagine 291-293.

(luglio 2020)

Tag: Mattia Ferrari, Togliatti e Trieste, Foibe, Esodo istriano, Trieste, Gorizia, Togliatti, Maresciallo Tito, Stalin, Italia, Jugoslavia, Milovan Gilas, Edvard Kardej, Luigi Longo, Piero Montagnani, Patrick Karlsen, Gianni Oliva, Raoul Pupo, Andrea Graziosi, Giovanni Belardelli, questione triestina.