Trattato di Osimo: de profundis
Pietra tombale sulle speranze italiane dopo un quarantennio di delusioni: aspetti storici, politici e giuridici

Il quarantesimo anniversario del trattato di Osimo, compiuto il 10 novembre 2015, diede luogo a diverse iniziative di studio e di approfondimento critico, tra cui il convegno organizzato dalla SIOI nel gennaio successivo: ora, è uscito il volume degli atti[1] con l’arricchimento di ulteriori contributi e di alcuni saggi rivenienti dai lavori della Commissione mista composta da esponenti governativi e da quelli del mondo esule, istituita nel 2001 a cura del Ministero degli Affari Esteri.

L’opera contiene 12 apporti, in prevalenza di carattere storico-politico e giuridico, non esclusi quelli a carattere documentale, che aggiungono importanti informazioni integrative sia sulla stipula del trattato, sia sull’informazione storiografica: il tutto, con frequenti digressioni oltre il tema specifico del trattato, per inquadrarsi nella complessa e spesso tragica vicenda del confine orientale.

Questa componente informativa, ma non per questo meno interessante, si apre con la testimonianza di Francesco Leopardi Dittaiuti, attuale comproprietario della Villa di Monte San Pietro dove il Ministro degli Esteri Mariano Rumor ed il suo omologo jugoslavo Milos Minic firmarono il trattato: all’epoca, Francesco aveva 15 anni, ma ricorda perfettamente che, il 9 novembre 1975, il padre Giulio e la madre Bianca Maria vennero contattati urgentemente dal Ministero nella loro abitazione romana, e nella notte partirono in tutta fretta per Osimo. Soltanto a cose fatte, Francesco fu informato di quanto accadde l’indomani, a seguito della scelta di Villa Leopardi Dittaiuti ad opera del Capo del Cerimoniale Diplomatico, Ambasciatore Corrado Orlandi Contucci, amico di famiglia e buon conoscitore del contesto: ora, ha aggiunto che in caso di disaccordo la villa avrebbe potuto essere requisita d’ufficio! Giulio Leopardi ritenne che l’evento si inserisse in un «disegno di pacificazione internazionale e di distensione» ma avvertì «forte disagio» quando, a cose fatte, comprese quali fossero i contenuti del trattato, e le ragioni di una segretezza che si era spinta fino a non informare nemmeno il Sindaco della cittadina marchigiana. Tutto si concluse rapidamente: dopo la firma, venne servita una colazione per 12 persone nella sala attigua a quella delle Armi dove si era svolta la breve cerimonia della stipula. Ecco un’informazione di prima mano che si aggiunge utilmente a quelle già disponibili circa il clima di assoluta riservatezza quasi «carbonara» in cui la vicenda si era consumata.

I contributi di carattere storico e di esegesi storiografica si debbono, nell’ordine, a Davide Rossi e Giorgio Federico Siboni, Giuseppe Parlato, Lorenzo Salimbeni, Maria Ballarin Salvatori: spesso, spaziando ben oltre i limiti cronologici di Osimo, e cogliendone diversi nessi significativi, sia con matrici anche lontane, sia con gli eventi successivi, ma non senza omettere il riferimento a taluni collegamenti che talvolta sarebbe stato utile approfondire anche nell’ottica di lungo periodo.

A quest’ultimo riguardo, basti sottolineare come nel saggio del Siboni (che segue quello di Davide Rossi sulla storia precedente muovendo dall’antica Roma per giungere sino al Risorgimento ed all’Irredentismo) non si faccia alcun accenno al Natale di Sangue che concluse l’esperienza dannunziana di Fiume, od al colpo di Stato del 1941 con cui la Jugoslavia avrebbe cambiato campo schierandosi contro l’Asse e determinando l’intervento congiunto di Germania, Italia, Ungheria e Bulgaria. Ciò, senza dire che sembra riduttivo aver affermato che negli anni Trenta i rapporti italo-jugoslavi andarono «sensibilmente incrinandosi» visto che nel 1937 venne firmato il patto di amicizia Ciano-Stojadinovic. Del pari, avere circoscritto a meno di 5.000 il numero delle vittime italiane infoibate o diversamente massacrate dagli Slavi nel plumbeo quinquennio 1943-1947 appartiene in modo apodittico alla logica riduzionista, in palese contrasto con la tesi di altri storici, tra cui Luigi Papo, secondo cui la cifra in parola fu superiore di tre o quattro volte alla cifra stimata dal Siboni[2]; lo stesso dicasi per il giudizio sui lavori della Commissione italo-slovena e sul suo atto finale del 25 luglio 2000, che avrebbe «contribuito in modo determinante al superamento di molte incomprensioni» ed a «sgombrare il campo da interpretazioni antistoriche» mentre tutti sanno che nella realtà dei fatti quel documento, assai opinabile anche nella naturale logica compromissoria, non venne accolto da parte del Governo Italiano come paradigma di oggettivo riferimento. Quanto ad Osimo, Siboni si è limitato a sintetizzare il suo pensiero circa il trattato affermando che costituì un atto formale ad avallo e ratifica della situazione di fatto che era venuta a crearsi a seguito della guerra, mentre fu molto di più e di peggio, come è stato evidenziato in altre sedi, tra cui il parallelo convegno del quarantennale tenutosi a Milano nel novembre 2015 ad iniziativa del Movimento Nazionale Istria Fiume Dalmazia, con interventi – fra gli altri – dell’Onorevole Renzo de’ Vidovich, dell’Ambasciatore Gianfranco Giorgolo e dello scrivente[3].

Dal canto suo, il contributo di Lorenzo Salimbeni, dedicato più specificamente alla vicenda di Osimo, con particolare riguardo alle conseguenze che il trattato ebbe nell’ambiente locale con la costituzione della celebre «Lista per Trieste» e la sua parabola compresa tra la forte protesta sorta all’indomani del «tradimento» – quando ebbe modo di conquistare la maggioranza relativa nelle elezioni comunali del giugno 1978 – e la triste scomparsa in quelle del 2006 quando raccolse un «poco lusinghiero 0,87%». Giustamente, Salimbeni rileva che il solo grande successo della «Lista» fu l’accantonamento della Zona Franca Industriale sul Carso (ZFIC) da cui avrebbero potuto derivare gravi danni di carattere ambientale, oltre a quelli relativi all’ulteriore infiltrazione jugoslava nell’immediato retroterra della città di San Giusto, e sottolinea il carattere prevalentemente autonomistico di quella irripetibile esperienza politica, difficilmente assimilabile ad una mera protesta come quelle di Guglielmo Giannini o di Pierre Poujade, ma non coglie fino in fondo che un motivo prioritario del fallimento registrato dalla «Lista» fu la sua trasversalità, ben dimostrata dalla presenza nelle proprie file di liberali, socialisti ed esponenti di democrazia laica, con l’aggiunta di qualche dissidente democristiano; e conseguentemente, la sua posizione poco incisiva circa l’effetto fondamentale del trattato, vale a dire la perdita definitiva della Zona «B». In questa ottica, sarebbe stato congruo approfondire l’apporto di alcune figure patriottiche di prima grandezza come quella di Italo Gabrielli, che guidò la protesta dell’Unione degli Istriani e di Trieste nel quinquennio successivo ad Osimo, e che Salimbeni si è limitato a citare solo per la sua candidatura alle elezioni politiche del giugno 1976 nelle file del Movimento Sociale Italiano dopo avere lasciato la Democrazia Cristiana.

Il saggio di Luigi Parlato esamina più diffusamente il trattato, dalla genesi maturata in un clima da consorteria ed a seguito di trattative che erano state condotte al di fuori dell’ambiente diplomatico, tanto da indurre le dimissioni dell’Ambasciatore Camillo Giuriati in segno di protesta, e non manca di evidenziare le discrasie che caratterizzarono le varie correnti di pensiero nell’ambito del partito di maggioranza relativa, con particolare riguardo a quelle tra Aldo Moro ed Amintore Fanfani, ben dimostrate dallo squagliamento di un forte contingente di parlamentari democristiani all’atto delle votazioni per la ratifica. Nella stessa ottica, Parlato rileva che quattro giorni dopo la votazione finale alla Camera dei Deputati (17 dicembre 1976) si costituì il Gruppo di Democrazia Nazionale a seguito della scissione dal Movimento Sociale Italiano, ma non senza ricordare che nel proprio intervento Ernesto De Marzio non mancò di mettere in luce la decisione unanime della Destra di combattere la battaglia contro Osimo «con fierezza, con passione, con impegno unitario». In effetti, specularmente alla Sinistra comunista e socialista che fu compatta nel proprio schieramento favorevole al trattato, la sola voce unitaria in senso opposto fu quella del Movimento Sociale Italiano nonostante il «travaglio» interno culminato nella scissione, peraltro prontamente punita dagli elettori.

Di grande interesse innovativo è lo studio di Maria Ballarin Salvatori circa i libri di testo per le scuole, e le opere storiche di consultazione generale, che permette di analizzare compiutamente l’opera preclusiva della verità, in specie per quanto riguarda Esodo e Foibe, da cui è stata caratterizzata la stragrande maggioranza di quei testi e di quelle opere. L’analisi si riferisce ad una cinquantina di lavori, anche di storici importanti e qualificati, ma il denominatore comune resta quello di un’approssimazione sintetica e generalmente riduttiva, per non dire di alcuni falsi sesquipedali, come quello ormai celebre di Gabriele De Rosa secondo cui l’Italia, col trattato di pace del 1947, avrebbe «restituito» alla Jugoslavia le sue terre istriane, giuliane e dalmate: cosa ovviamente impossibile, visto che Belgrado non le aveva mai possedute. Non meno sorprendente è la citazione dello storico triestino Fabio Cusin, prodottosi in una vera e propria invettiva nei confronti della sua città e dei suoi concittadini: un caso davvero limite. Omissioni e carenze, comunque, riguardano tanti grandi nomi della storiografia, come quelli di Rosario Romeo, che aveva parlato dell’Esodo come cosa appartenente a «qualche decina di migliaia» di persone, di Ernesto Ragionieri, fedele ad una rigida ricostruzione di stampo marxista, o di Luigi Salvatorelli, responsabile di una vera e propria «rimozione voluta». Dopo la legge istitutiva del Ricordo, argomenta la Ballarin, qualcosa ha cominciato a muoversi, ma sempre in senso molto relativo: per dirne una, Augusto Camera ha affermato nel 2014 che «la pretesa dell’oggettività assoluta è semplicemente un non senso» perché lo storico «parte sempre da un punto di vista», ragion per cui le interpretazioni di Esodo e Foibe in chiave riduzionista o negazionista finiscono per assumere un «fumus» potenzialmente condivisibile, con ovvie conseguenze informative e formative.

Gli altri saggi, firmati da Umberto Leanza, Ida Caracciolo, Giuseppe de Vergottini, Tiziano Sosic, Davide Lo Presti, Mattia Magrassi, riguardano gli aspetti giuridici del trattato, con particolare riferimento agli effetti in tema di sovranità, ed all’annosa questione dei beni cosiddetti «abbandonati» (non soltanto nella Zona «B» – legati direttamente ad Osimo – ma anche nel resto dei territori perduti a seguito del trattato di pace). Ovviamente, la priorità delle valutazioni giuridiche di questi apporti non prescinde dagli opportuni riferimenti storici che ne costituiscono parte integrante.

In questa ottica, la comunicazione di Leanza muove dal presupposto secondo cui le inadempienze della Jugoslavia ebbero origine sin dall’indomani del trattato di pace, ed in particolare dal 1949, quando i beni appartenenti agli esuli, il cui diritto di proprietà era stato specificamente salvaguardato nel trattato medesimo, vennero avocati alla cosiddetta «proprietà sociale» con un atto chiaramente illegittimo dal punto di vista del diritto internazionale: ciò costrinse l’Italia, vista la sua posizione tuttora subordinata sul piano politico, ad una trattativa difficile, mentre la Jugoslavia poteva ignorare impunemente i suoi obblighi. Accadde di peggio parecchi anni più tardi, quando le leggi di denazionalizzazione promulgate dai nuovi Stati indipendenti di Slovenia e Croazia statuirono il diritto alla restituzione soltanto per i loro cittadini ma non per gli stranieri, determinando un ulteriore «vulnus» a cui l’Italia, pur avendo recuperato un ruolo almeno formalmente sovrano, non volle o non seppe reagire trascurando il fatto che quella discriminazione era lesiva della Convenzione europea dei diritti umani. Tutto ciò significa che la soluzione più realisticamente possibile è stata sempre quella dell’indennizzo, tanto più che l’ipotesi della restituzione ha finito per essere fagocitata dallo scorrere del tempo e dalle conseguenze della diaspora, della dispersione e della scomparsa di molti aventi causa.

Sulla stessa linea si è orientato il pensiero di Giuseppe de Vergottini, laddove rileva che furono diversi i fattori di politica interna e quelli di natura internazionale, a suffragare l’opportunità di chiudere il contenzioso con la Jugoslavia firmando il trattato di Osimo, ma che le sue disposizioni vennero certamente influenzate dalla fermezza di Belgrado e dal duttile possibilismo di Roma, che non tenne conto delle attese di parte esule, decisamente «ininfluenti». Del resto, tale atteggiamento avrebbe continuato a manifestarsi anche in tempi successivi: ad esempio, quando l’Italia si rese responsabile di una «supina accettazione» delle dichiarazioni slovene di subentro nei trattati con la Jugoslavia, formulate nel novembre 1992, e di analogo atteggiamento, quattro anni dopo, per quanto concerne i rapporti con la Croazia. Circa la questione del trasferimento di sovranità sulla Zona «B» del Territorio Libero di Trieste, Giuseppe de Vergottini ritiene che il passaggio conclusivo sia avvenuto proprio con Osimo, diversamente dalla tesi di Ida Caracciolo, secondo cui la sovranità italiana sarebbe venuta meno il 15 settembre 1947 (data di entrata in vigore del trattato di pace) anche sulla Zona «A» comprensiva della città di Trieste, salvo esservi ripristinata sette anni dopo con il Memorandum di Londra. Un ultimo punto importante dell’intervento svolto dallo stesso de Vergottini è quello che riguarda gli indennizzi dovuti in solido da Slovenia e Croazia, in quanto eredi della Jugoslavia, a fronte del trattato di Osimo: questione ancora aperta, sia perché versati a suo tempo soltanto in parte minoritaria, sia perché non accettati dall’Italia e rimasti in deposito a Lussemburgo, in attesa di decisioni circa la loro destinazione finale su cui resta un punto di domanda, ma – aggiungiamo noi – con una risposta eticamente e giuridicamente inderogabile, in quanto conforme al pieno ed esclusivo diritto degli esuli.

A proposito del saggio di Ida Caracciolo, in chiave più specificamente giuridica, si deve aggiungere che nella sua interpretazione il trattato di Osimo costituisce la conferma formale del Memorandum d’Intesa del 1954, e che sono infondate le obiezioni di quanti hanno adombrato una possibile illegittimità del trattato stesso in quanto bilaterale, mentre quello di pace del 1947 era stato firmato da 21 contraenti, peraltro non interessati dalle clausole innovatrici italo-jugoslave, come confermato «ad abundantiam» dal loro silenzio-assenso. Si deve aggiungere che anche nell’intervento della Professoressa Caracciolo non mancano, pur nel contesto squisitamente giuridico di cui si diceva, accenni di significativa rilevanza politica: ad esempio, quando si afferma, a proposito della regolamentazione di Osimo in materia di acque territoriali, che sarebbe stato preferibile adottare la linea del «thalweg» onde prevenire le pur prevedibili difficoltà per il traffico commerciale; ovvero, a proposito delle proprietà italiane rimaste nella ex Zona «B» del Territorio Libero, che sono rimaste inadempienze di controparte ad obblighi liberamente assunti, in specie a causa di una sostanziale «acquiescenza» italiana, manifestatasi anche circa la questione degli interessi sulle somme non ancora versate dagli Stati eredi della Jugoslavia, su cui Roma ha «operato poco e blandamente».

Gli ultimi contributi, di Davide Lo Presti, Tiziano Sosic e Mattia Magrassi, sono dedicati quasi esclusivamente alla questione dei beni, che solo in parte minoritaria si riferiscono a quelli interessati dal trattato di Osimo, ma che costituiscono tuttora un problema aperto, molto significativo per tutti gli esuli che hanno perduto le loro vecchie proprietà in Istria, in Dalmazia ed a Fiume. Il primo muove dalla sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite del 25 marzo 2014 numero 8055, che non a caso è stata definita una «pietra tombale» sulle attese dei profughi e dei loro eredi, avendo statuito, a conclusione del lungo iter giudiziario intrapreso da alcuni aventi causa nei confronti dello Stato Italiano, che gli indennizzi pervenuti dal Governo Italiano, per quanto irrisori, non costituiscono un risarcimento ma un semplice contributo, in quanto relativi a danni patiti a causa di uno Stato estero: pronunzia obiettivamente opinabile se non altro perché l’Italia, diversamente dalle statuizioni del trattato di pace, si avvalse dei beni degli esuli per il pagamento dei danni di guerra alla Jugoslavia. Considerazioni analoghe possono essere formulate per la giustizia europea, che ha dichiarato irricevibile il ricorso senza fornirne la motivazione, del resto non dovuta a termini di procedura specifica.

Maggiori dettagli sul medesimo argomento sono reperibili nel saggio di Magrassi, con riguardo alle ragioni formali e sostanziali per cui le istanze di parte esule sono state respinte sia da parte delle Corti Italiane, sia da parte della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo. È una conclusione amara, ma consolida l’assunto secondo cui l’Italia non avrebbe responsabilità propria nella perdita del diritto di proprietà da parte dei profughi: anzi, le somme versate a titolo di indennizzi per i beni cosiddetti «abbandonati» dovrebbero essere riferite ad un atto di sostanziale liberalità a quantificazione discrezionale voluto dal legislatore, ed in quanto tale non risarcitorio, senza dire che, secondo le sentenze in questione, i danni non sarebbero stati oggetto di attestazioni documentali probanti circa il valore effettivo delle perdite.

In tutta sintesi, ad oltre un quarantennio da Osimo, non è azzardato concludere nel senso che su tutte le «complesse vicende del confine orientale» – per dirla con la Legge 30 marzo 2004 numero 92 istitutiva del Giorno del Ricordo – sembra calare un autentico «de profundis» la cui responsabilità morale deve essere attribuita, per quanto di competenza, a tutte le parti in causa, ma in primo luogo, ad una volontà politica che definire manchevole è certamente eufemistico. Le celebri parole di Monsignor Antonio Santin, l’eroico Vescovo di Trieste e Capodistria, secondo cui «le vie dell’iniquità non possono essere eterne» restano scolpite nella storia a caratteri di fuoco, ma sembrano prolungarsi nei tempi, ben oltre la vita degli esuli.

Si può dire tutto ed il contrario di tutto, come ci insegnano le interpretazioni del dopo Osimo: certamente non si può dire che sia stata fatta giustizia.


Note

1 Autori Vari, Quarant’anni da Osimo, a cura di Davide Lo Presti e Davide Rossi, Collana del Centro Italiano per lo Sviluppo della Ricerca, Edizioni Cedam, Padova 2018, 250 pagine.

2 In particolare, si vedano Luigi Papo, L’Istria e le sue foibe, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 1999; nonché, del medesimo Autore, Gli ultimi tremila anni dell’Istria, terza edizione, Arti Grafiche Riva, Trieste 2003. Al medesimo Luigi Papo si debbono parecchie altre opere circa il martirio giuliano, istriano e dalmata, ed in modo specifico il ponderoso e dettagliato Albo d’Oro, Unione degli Istriani, Trieste 1989, contenente gli elenchi nominativi delle Vittime, suddivise per cronologia e per singole appartenenze al mondo delle professioni e condizioni civili od a quello dei ruoli militari e paramilitari.

3 Carlo Cesare Montani, Il trattato italo-jugoslavo di Osimo (10 novembre 1975): alto tradimento e reato imprescrittibile, in www.storico.org., Milano/Roma, novembre 2015.

(agosto 2018)

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