Il ritorno di Trieste all’Italia
Dall’occupazione jugoslava al ricongiungimento con la madrepatria

La mattina del 26 ottobre del 1954 i soldati italiani entravano a Trieste per la prima volta dopo dieci anni. Quel giorno la città cessava di essere un territorio amministrato dalla comunità internazionale e tornava a fare parte dell’Italia. Era la fine di un complicato contenzioso diplomatico cominciato alla fine della Seconda Guerra Mondiale e oggi quasi dimenticato, che aveva diviso l’Italia e la Jugoslavia di Tito e che alla fine avrebbe portato quasi 200.000 Italiani a vivere in territorio jugoslavo.


La questione orientale

Nella primavera del 1945 la Seconda Guerra Mondiale stava per arrivare alla sua conclusione militare, ma restavano ancora aperte una serie di questioni. Una di queste, naturalmente, era quale sistemazione dare ai confini europei terminata la guerra. L’Italia, considerata uno dei Paesi aggressori, avrebbe dovuto compiere una serie di rinunce territoriali. Le più ovvie – e quelle su cui c’era poco da discutere – erano le colonie: Eritrea, Somalia, Etiopia, Libia e le isole del Dodecaneso. C’erano speranze di poter mantenere una qualche forma di mandato sulla Libia, dove abitavano circa 150.000 Italiani.

Meno realisticamente, in quei mesi si parlava anche del desiderio francese di annettere la Valle d’Aosta e di quello austriaco di annettere l’Alto Adige. Ma la questione più complicata era quella dei territori al confine orientale tra l’Italia e quelle che oggi sono Slovenia e Croazia: qui c’erano città a chiara maggioranza italiana, come Trieste, mentre nei vicini territori dell’Istria e della Dalmazia c’erano borghi e città con comunità italiane sin dai tempi della Repubblica di Venezia. L’Istria era divenuta parte dell’Italia dopo la Prima Guerra Mondiale e nel 1924 lo era diventata anche Fiume.

Tutti questi territori, nell’intervallo tra le due guerre, furono amministrati duramente e le popolazioni slave locali furono represse e osteggiate in ogni modo dal Governo fascista e dalle squadracce locali. Le lingue diverse dall’italiano erano di fatto vietate in molti posti e gli attivisti e politici slavi subivano spesso veri e propri raid punitivi. La politica di italianizzazione forzata divenne ancora più crudele durante la guerra, quando ai pestaggi si sostituirono le deportazioni in Germania e le fucilazioni. La repressione non riuscì però a cambiare la realtà di quella regione, dove la popolazione di lingua slava (croato e sloveno) rimase mischiata con quella di lingua italiana. In molte città costiere, come Fiume, Pola e Zara, c’era una chiara maggioranza italiana, mentre nei sobborghi e nell’entroterra la maggioranza era di lingua slava.


Le trattative

Con la resa di Italia e Germania, al confine orientale si svolse una specie di gara. Le truppe alleate anglo-americane, che risalendo l’Italia erano sfociate nella Pianura Padana, cercarono di raggiungere il più rapidamente possibile la frontiera con la Jugoslavia. Dall’altro lato, le truppe del leader comunista Tito cercarono di avanzare altrettanto velocemente. Anche se nessuno all’epoca lo ammetteva apertamente, in molti pensavano che il punto dove i due eserciti si sarebbero incontrati avrebbe segnato la nuova frontiera tra i due Paesi. La gara fu vinta, in sostanza, dagli Jugoslavi. Le truppe di Tito riuscirono a occupare Fiume, Pola e gran parte dell’Istria. In quei mesi circa 11.000 Italiani vennero uccisi in una serie di ritorsioni e processi di «defascistizzazione»: molte delle persone uccise vennero sepolte nelle fosse carsiche chiamate «foibe». Le truppe di Tito riuscirono ad arrivare anche a Trieste, dove però scoprirono che erano appena arrivati i soldati neozelandesi del Generale Bernard Freyberg. Il 9 giugno le truppe jugoslave lasciarono Trieste e la situazione si stabilizzò. In sostanza: le truppe alleate erano riuscite a occupare una zona poco più larga dell’attuale confine tra Italia e Jugoslavia. Correndo molto più rapidamente, l’esercito di Tito era riuscito a occupare gran parte di quella che fino al 1924 era considerata «Italia». La questione, a questo punto, diventava di competenza dei diplomatici.

Il 3 settembre del 1943 l’Italia aveva firmato un armistizio, cioè un documento «preliminare» di resa, annunciato pubblicamente l’8 settembre. Per considerare del tutto conclusa la guerra era necessario firmare un trattato di pace complessivo che riguardasse tutti i Paesi coinvolti. I Ministri degli Esteri e i Capi di Governo dei vari Stati si incontrarono in una serie di conferenze tra il 1945 e il 1946. I Ministri degli Esteri (o più spesso, i funzionari dei loro ministeri) delle potenze vincitrici principali – Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Unione Sovietica – preparavano dei documenti su ogni questione aperta. Le varie parti in causa peroravano la loro causa, si raggiungeva un accordo e solo a quel punto la questione veniva chiusa. Quello italo-jugoslavo era uno dei temi più complessi. Non c’era soltanto il problema delle complicate divisioni etniche e linguistiche da rispettare, ma anche il fatto che Italia e Jugoslavia erano ai due lati della divisione tra mondo occidentale e blocco comunista.

In sostanza bisognava determinare dove sarebbe passato il confine tra Italia e Jugoslavia. I più favorevoli all’Italia erano gli Americani, che proposero una linea che lasciava al nostro Paese gran parte dell’Istria. L’Unione Sovietica, molto più vicina alla Jugoslavia, propose un confine che lasciava Trieste e parte di Gorizia alla Jugoslavia. La Francia propose una via di mezzo, molto vicina all’attuale confine, che sembrava anche l’opzione più realistica. Non perché rispettava le divisioni linguistiche, ma perché seguiva il confine effettivamente occupato dagli eserciti nei mesi precedenti. Furono momenti drammatici per l’Italia che si trovava anche a dover gestire la transizione da Monarchia a Repubblica e un’economia in gravissima difficoltà. Nel frattempo furono inviate commissioni per studiare la situazione sul confine orientale; e furono organizzate manifestazioni più o meno propagandistiche per dimostrare che la popolazione del posto era da una parte piuttosto che dall’altra.

Alla fine del 1946 la questione italo-jugoslava era divenuta per molti un peso che intralciava la soluzione di altre e ancora più importanti questioni, come la sistemazione di Vienna, quella di Berlino e della Germania divisa. Venne deciso che il confine avrebbe seguito la linea francese, che consegnava alla Jugoslavia numerose città e borghi a maggioranza italiana – in sostanza tutta l’Istria. Circa 100.000 Italiani finivano così in Jugoslavia e alcune decine di migliaia di Slavi finivano in Italia. Non solo: Russia e Jugoslavia si erano opposte con tale forza al fatto che Trieste divenisse italiana che per ottenere il loro assenso al piano di pace fu necessaria un’invenzione spericolata. Trieste e il suo circondario sarebbero divenute un Territorio Libero, amministrato dalla comunità internazionale. Gli stessi Alleati avevano stabilito che la maggioranza assoluta degli abitanti di questa zona era di lingua italiana e così in molti ritennero che l’escamotage del Territorio Libero fosse solo un modo per ritardare di qualche tempo il ritorno del territorio all’Italia.

La teoria si dimostrò però molto presto in conflitto con la situazione sul campo. Più di metà dell’area del futuro Territorio Libero faceva parte di quelle zone che l’esercito jugoslavo aveva occupato nel 1945 e Tito aveva fatto capire che i soldati jugoslavi non se ne sarebbero andati a meno che costretti con le armi. Così venne deciso di dividere il Territorio Libero in due aree. La Zona A, con Trieste e circa 300.000 abitanti (gran parte Italiani), amministrata dagli Alleati. E la Zona B, con circa 60.000 abitanti, la maggioranza sempre italiana, amministrata dagli Jugoslavi. Con il trattato di Parigi del 10 febbraio 1947 questa situazione venne legalmente sanzionata e per i sette anni successivi cominciò un lungo stallo.

Di fatto gli Alleati avevano intenzione di abbandonare la Zona A quanto prima. Non solo era costoso mantenere un contingente militare per controllare il Territorio Libero, ma l’occupazione aveva anche esasperato gli animi e ci furono numerosi incidenti, anche con morti e feriti, con gruppi di nazionalisti italiani. Di fatto però, fino a che al Governo ci fu De Gasperi, l’Italia non affrettò mai il passaggio di consegne tra amministrazione internazionale e Governo Italiano. Il timore era che non appena gli Alleati avessero ceduto la Zona A, gli Jugoslavi si sarebbero annessi, anche formalmente, la Zona B che già controllavano di fatto, insieme ai 50.000 Italiani che la abitavano. Per anni il Governo Italiano cercò di trovare la soluzione per far sì che anche la Zona B venisse tolta alla Jugoslavia. Non ci riuscì e il 5 ottobre 1954, con al Governo Mario Scelba, venne firmato il Memorandum di Londra con cui veniva accettata la situazione di fatto. Il 26 ottobre Trieste ritornò italiana.

Fonte: «Il Post»
(aprile 2015)

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