La realtà contadina nel Veneto dagli anni Trenta agli anni Cinquanta
La storia è chi siamo e perché siamo come siamo (David McCullough)

Interrogarsi sul presente e sul futuro della nostra società moderna equivale a interrogarsi su come siamo stati, il percorso che finora abbiamo fatto, come siamo cambiati, quello che siamo diventati.

Per sapere chi siamo, iniziamo a domandarci da dove veniamo. La Storia non è fatta solo di grandi biografie e fatti importanti, ma prende forma anche dalle piccole cose quotidiane e dalle persone comuni.

Quando ero bambina mia nonna mi raccontava spesso alcuni episodi della sua vita, che inevitabilmente erano intrecciati alla «Storia» più grande, quella d’un intero popolo. Mia nonna è nata nel 1929 in un paesino della campagna veneta: la realtà rurale di questa parte d’Italia, come si viveva e la gestione delle risorse all’interno del nucleo familiare erano molto diversi rispetto ad oggi. Il progresso ha portato a dei profondi cambiamenti nel tessuto della società e, se da una parte molto abbiamo guadagnato, è anche vero che dall’altra qualcosa è andato perso.

Ho raccolto dunque la testimonianza di mia nonna sugli usi e costumi della sua giovinezza, che lei continua a raccontarmi anche adesso che sono adulta.


Il nucleo familiare

All’epoca l’agricoltura e l’allevamento erano al centro dell’occupazione della maggior parte delle famiglie e loro fonte di sostentamento. I gruppi familiari potevano arrivare anche a 30 componenti tra figli, genitori e nonni tutti viventi sotto lo stesso tetto.

Nello specifico, l’abitazione dei miei avi era composta da tre stanze, una cucina, un corridoio, la stalla, una legnaia, la cantina all’interrato e un grande solaio al piano superiore, che in parte era utilizzato come dormitorio, mentre nella restante venivano stipate le vivande. Qui non c’erano vetri alle finestre ma solo le persiane, che venivano chiuse la notte: questo permetteva l’aerazione necessaria per la conservazione degli alimenti (in Italia infatti il frigorifero iniziò ad essere accessibile alle famiglie solo tra gli anni ’50-’60). I figli più grandi dormivano in solaio anche in inverno, gli altri in uno stanzino al piano terra, mentre i genitori stavano nella stanza accanto alla stalla, perché in caso la notte una mucca si fosse slegata oppure avesse partorito, sentendo i muggiti avrebbero potuto intervenire tempestivamente. In tutti i casali la disposizione della stanza dei genitori era sempre vicino alla stalla per questa ragione. Il bagno in casa non esisteva, c’era un piccolo gabbiotto di legno in cortile e durante le ore notturne si usava all’occorrenza il «vaso da notte», tenuto sotto al letto.

La stalla era il punto di ritrovo principale, non solo per una questione di lavoro, ma soprattutto in quanto era la stanza più calda di tutto l’edificio per via del calore prodotto dagli animali, persino della cucina, dove la stufa a legna era utilizzata esclusivamente per cucinare, tanto che a volte in inverno si prendeva il piatto e si andava a mangiare direttamente in stalla. Alla sera era il luogo dove ci si riuniva in «filò», a cucire e a discutere di vari argomenti.


Materiali e tessuti: seta, canapa, lana e piume d’oca

Ogni famiglia contadina teneva un piccolo allevamento di bachi da seta, vendendo poi i bozzoli migliori e usando per il proprio fabbisogno gli scarti, ovvero quei bozzoli che non erano compiuti.

Fatto in casa, il filo di seta risultava più grossolano, ma veniva usato comunque per vestiti e camicie. Il periodo adatto per la coltura dei bachi era da aprile a maggio, quando spuntavano le foglie fresche dei gelsi, loro esclusivo nutrimento. Durante questo periodo tutta la famiglia era impegnata a seguire i bachi: occorreva in alcune fasi nutrirli ogni due ore, di giorno e di notte, dandosi il cambio. Il ciclo durava circa 30/40 giorni, il baco subiva quattro mute e poi iniziava a fare il bozzolo. Prima della muta il bruco smetteva di mangiare e dormiva, a ogni muta successiva il tempo di sonno aumentava. Da qui deriva l’espressione «dormire della quarta» (detta anche «della grossa») per indicare una persona che dorme profondamente e non si sveglia.

La canapa veniva ricavata da una pianta: chi non la coltivava direttamente, come la famiglia di mia nonna, comprava le foglie, le filava con il fuso e ne usciva una matassa che si arrotolava in un gomitolo. Successivamente si faceva fare la tela e con questa si confezionavano cuscini e lenzuola per l’uso quotidiano. Come materiale al tatto era ruvido e duro, ma molto resistente.

Di canapa era fatta anche la cartella dei bambini per la scuola: una sacca con la tracolla per contenere i libri, cucita a mano. Il tessuto grezzo era bianco e veniva poi tinto con i coloranti comprati alla bottega.

Per la lana venivano allevate alcune pecore. Dopo la tosatura, il lavaggio e la sbianca, si portava a far filare da un compaesano che disponeva di un telaio dell’Ottocento, tramandato da padre in figlio.

Le oche venivano allevate per le loro piume, per la necessità di ripararsi dal freddo nelle notti gelide d’inverno, in quanto servivano a riempire i piumoni. Ogni famiglia contadina teneva le oche anche in vista della dote delle figlie, che comprendeva infatti trapunta e cuscini in piume d’oca che solo per questa occasione venivano confezionati in cotone, comprato appositamente.

Il lavaggio dei capi era svolto tutto a mano nelle tinozze in cortile o vicino ai fossi, che in campagna passavano per tutti i casolari e attorno ai campi come sistema di irrigazione delle coltivazioni. Per lavare gli indumenti infatti veniva utilizzata l’acqua del fosso. Le lenzuola erano lavate con la cenere, in grado di sbiancare, mentre il sapone si usava per il resto dei panni e di solito si comprava, tranne in tempo di guerra, quando c’era scarsità di tutto e veniva fatto in casa con gli scarti del maiale bolliti.

In casa di mia nonna c’era già l’acqua potabile, ma non tutte le famiglie all’epoca avevano la possibilità di allacciarsi al sistema pubblico, dipendeva dalla distanza della casa rispetto alle tubature. La rete idrica veniva da un pozzo comunale che serviva le strade principali, lungo le quali erano sistemate delle fontane allo scopo di dissetare i viaggiatori, che si spostavano a piedi, a cavallo o con l’asinello. Anche la rete elettrica era già disponibile, ma solo in paese o nei pressi di strade di collegamento: nelle case più isolate infatti, essendo troppo costoso l’allacciamento, si usava ancora la lampada a petrolio.


Lo stoccaggio dei viveri: quando la plastica non esisteva

L’invenzione della plastica avvenne nel 1954 ad opera del chimico e scienziato italiano Giulio Natta. Tutti quei prodotti che ora siamo abituati a vedere confezionati in contenitori di plastica, un tempo erano venduti sfusi.

Nella bottega del paese, per esempio, che vendeva un po’ di tutto, lo zucchero e il riso erano tenuti dal venditore nei sacchi di tela, mentre la pasta in uno scatolone e poi riversata in appositi cassetti per la vendita. Al momento dell’acquisto venivano avvolti nella carta. Di solito però le massaie facevano da sé in casa sia la pasta fresca che il pane.

Per le famiglie contadine l’acquisto dei beni alla bottega avveniva quasi sempre senza l’uso della moneta, attraverso il baratto, in particolare scambiando le uova con quanto necessario.

Per il trasporto della spesa si usavano buste di tela, come oggi si è tornati a fare, con la differenza che un tempo la busta stessa era fatta in casa con la macchina da cucire a pedale, oppure si usavano sporte intrecciate di vimini.

In cantina il vino era conservato in botti di rovere e versato all’occorrenza in una caraffa di vetro.

Non tutti i contadini disponevano di una cantina all’interrato, in questo caso si adibiva una stanza della casa rivolta a Nord e tenuta al buio. Presso le dimore dei più ricchi, in particolare le famiglie di patrizi veneziani, invece esisteva in prossimità del palazzo o della villa la «ghiacciaia», fatta di stanze sotterranee dove veniva raccolto il ghiaccio nella più profonda, e riposti gli alimenti deperibili nelle altre.

Sia in estate che in inverno nel solaio venivano conservate le pannocchie, il frumento, le patate, i fagioli, i sacchi di semola. Il grano veniva portato a macinare al mulino e la farina ottenuta era versata nella màdia, un cassone di legno con il coperchio. Trattandosi di vivande stagionali, c’era sempre un ricambio ogni anno. Il contadino doveva fare una stima della quantità da coltivare in modo che bastasse al fabbisogno della famiglia fino alla raccolta successiva. Se si riusciva ad avanzare una certa quantità di viveri, questa veniva venduta per ricavarne qualche soldo.

In cucina la stufa per cucinare e per scaldare l’acqua era a legna. La quantità necessaria veniva recuperata sia dalle siepi di robinie e dai gelsi intorno ai campi, sia direttamente nel bosco, in accordo con i proprietari, in cambio della pulizia di un pezzo di terreno solitamente a febbraio. Si potavano i rami degli alberi facendone tante fascine di legna fine e più grossa, che sarebbe servita ad accendere il fuoco, mentre il fogliame recuperato veniva utilizzato per i giacigli degli animali. La pulizia del bosco e la raccolta della legna potevano durare una settimana: si partiva in gruppo, anche più famiglie insieme, con i cavalli per il trasporto del legname, a volte anche con i buoi. Ogni famiglia poi cercava di farselo bastare per tutto l’inverno.


Il sistema del riciclo: l’umido, il concime, la carta

I rifiuti domestici erano quasi esclusivamente composti dall’umido. A scopo di riciclo ogni casa aveva una «concimaia». Buona parte dei rifiuti di questo tipo veniva data come pasto agli animali d’allevamento, quello che invece non era adatto alla loro alimentazione veniva gettato nel letamaio e lasciato «maturare» per essere usato in seguito nella concimazione del terreno.

La maturazione si svolgeva in tre fasi e il concime veniva diviso in tre parti: quello maturo, quello intermedio e quello fresco. Ogni mattina sopra gli scarti, comprese piante secche e foglie, veniva depositato il letame, proveniente dalla pulizia della stalla. Il concime così «bolliva», in inverno si poteva notare infatti del vapore salire dalla concimaia, e questo permetteva al tutto di divenire friabile e idoneo ai campi. Mentre in estate, affinché non si asciugasse troppo, lo si bagnava con acqua.

La carta di scarto invece veniva utilizzata per accendere il fuoco della stufa, ma anche per i bisogni corporali. Nei paesi di campagna infatti non c’era la comoda carta igienica: si doveva tenere da parte la carta usata per l’allevamento dei bachi da seta e, più raramente, di qualche giornale, tagliata a pezzetti e appesa ad un chiodo.


Le relazioni sociali

Alla sera, in inverno quando il lavoro dei campi diminuiva, gruppi di giovani e familiari andavano in «filò», ovvero facevano visita alle altre case, fermandosi ogni volta solo per una decina di minuti. Il nome «filò» deriva dal fatto che le donne della famiglia dopo la giornata di lavoro erano solite sedere insieme nella stalla a filare o a cucire, recitando il Rosario e chiacchierando (da qui anche il modo di dire «far filò» per intendere «far chiacchiere e pettegolezzi»), mentre gli uomini preparavano e sistemavano gli attrezzi da usare nella stagione ventura, parlando del lavoro nei campi o raccontandosi storie, più o meno fantasiose, come quella del «Massariòl», un essere rosso e di bassa statura che ogni tanto compariva nelle campagne di notte.

Lungo la strada i gruppi infreddoliti cantavano a squarciagola, così dalle case li sentivano arrivare in anticipo. Il capofamiglia usciva e andava loro incontro, accompagnandoli nella stalla dove era riunita tutta la famiglia.

Per i giovani andare in filò era soprattutto un modo per conoscere le ragazze, sedendosi accanto a chi interessava: all’epoca gli appuntamenti consistevano in un «ci si vede ancora».

Chi aveva già una fidanzata andava a trovarla in alcuni giorni fissi (mercoledì, sabato e domenica) durante l’inverno, ma non in estate in quanto era il periodo di maggiore lavoro ed erano tutti impegnati.

Mia nonna conobbe così il suo futuro marito, che era già emigrato in Lombardia, dove svolgeva lavoro di muratore, e che era tornato per Natale al suo paese (il Veneto infatti conobbe a più riprese una serie di forti ondate emigratorie, sia all’estero sia verso le altre regioni, in particolare del Nord Italia). Passate le feste mantenne con mia nonna una corrispondenza via lettera.

Dopo qualche anno chiese ai genitori di lei se poteva fidanzarsi e le comprò un anello: come da usanza, fu la futura suocera a consegnarlo alla ragazza. Ogni famiglia preparava in anticipo un po’ alla volta la dote per ciascuna figlia, fatta di lenzuola, camicie da notte, calze, grembiuli, vestiti per la festa, in base alle possibilità. Deciso il matrimonio, si compilava un elenco di tutte le cose portate in dote e i due fidanzati vi apponevano la firma. Questo perché in caso di morte della sposa, e in mancanza di eredi, una parte della dote sarebbe stata restituita alla famiglia d’origine.


I bambini e la scuola

Negli anni Trenta e Quaranta il certificato di scuola elementare veniva rilasciato dopo gli esami di terza classe. In alcuni paesi venne aggiunta la quarta, mentre la quinta era disponibile soltanto nelle città più grandi e, comunque, non era d’obbligo.

Ciascun alunno doveva comprare tre libri (l’abbecedario, il libro di storia-geografia-scienze e uno di lettura), i quaderni, i pennini, la cannuccia e la carta assorbente, mentre il calamaio era già sul banco fornito dalla scuola e la bidella aggiungeva l’inchiostro. A casa per fare i compiti si comprava alla bottega una boccetta d’inchiostro.

La classe era numerosa e c’era un maestro unico. Le materie di studio erano poche: italiano, matematica, geometria, storia, geografia e scienze. Alcune ore scolastiche venivano dedicate anche al ricamo e cucito. Non tutti gli alunni indossavano il grembiule, che era nero, ma solo chi proveniva da una famiglia più abbiente, che poteva permettersi di comprarlo.

I maestri erano forniti di bacchette: se l’alunno non scriveva bene o sbagliava veniva bacchettato sulle mani. Se invece era troppo vivace veniva messo in castigo.

Tra le famiglie contadine, al ritorno da scuola, i bambini facevano i compiti e poi andavano ad aiutare i genitori nei campi, svolgendo lavoretti semplici, come per esempio sgranare le pannocchie, rastrellare il fieno, raccogliere i legnetti in primavera per fare le fascine o in estate le erbe da fieno con il carrettino. Un classico gioco invece era nascondino, tra i covoni di fieno nei campi, oppure il girotondo, mosca-cieca, ma anche la trottola e vari altri, fatti con quello che si aveva a disposizione.

Per le bambine le madri confezionavano delle bambole di pezza riempite con la semola grossa del grano, mentre i capelli biondi erano fili di seta.

Un particolare gioco invernale era la slitta sul prato: per una ventina di giorni il campo dedito alla produzione di foraggio veniva irrigato con acqua in modo da formare una lastra di ghiaccio (cosa ritenuta utile per la coltivazione) e con una slitta di legno chiodata, costruita appositamente dal padre di mia nonna, si poteva scivolarvi agevolmente. Anche i fossati, in inverno quando l’acqua era bassa, ghiacciavano e i bambini si divertivano con gli zoccoli a pattinarvi sopra.

In conclusione, ai tempi di mia nonna il lavoro giornaliero nei campi era duro, in quanto per lo più manuale, e c’era sempre molto da fare anche la sera, ma non mancavano comunque le occasioni di svago; era di fatto una società povera ma semplice e intrisa di religiosità: tra le varie famiglie ci si dava spesso una mano a vicenda nei passaggi fondamentali delle attività agricole, da questo dipendeva la loro stessa sopravvivenza, già messa a dura prova a volte da condizioni climatiche sfavorevoli. La natura era al centro della loro esistenza, ogni casolare era un sistema quasi autosufficiente: ciò che veniva consumato era quasi tutto autoprodotto, non c’erano sprechi né scarti.

Il benessere che oggi abbiamo raggiunto ci permette una migliore qualità della vita e viviamo più a lungo, ma la strada intrapresa per ottenerlo ha distrutto il vecchio equilibrio tra uomo e ambiente.

Non resta che ricostruirlo.

(febbraio 2017)

Tag: Monica Orsi, Italia, vita dei nostri nonni, realtà contadina del Veneto, anni Trenta, vaso da notte, filò, bachi da seta, anni Cinquanta, canapa, piume d'oca, invenzione della plastica, Giulio Natta, ghiacciaia, màdia, concimaia, Massariòl, vita all'inizio del Novecento, certificato di scuola elementare, abbecedario, calamaio.