Berto Ricci
Valori universali e stato sociale nella cultura fascista degli anni Trenta

La storia italiana, ricca come poche di eventi, e soprattutto delle idee che ne furono causa e matrice, si caratterizza per una lunga serie di figure emergenti, e di ricorrenze, tanto da sfuggire in parecchi casi, al pur opportuno ricordo. Ciò vale, a più forte ragione, quando si voglia promuovere l’oblio alla luce di pregiudiziali politiche spesso anacronistiche, in contraddizione con le esigenze di una storiografia oggettiva e di interpretazioni corrette, anzitutto sul piano del metodo.

Questa premessa è tanto più necessaria nel caso di Berto Ricci[1], il pensatore e patriota fiorentino che fu certamente tra le menti più lucide del Ventennio, ad oltre 80 anni dalle ultime pagine de «L’Universale» in cui andò a riassumersi, a cavallo degli anni Trenta, una meditazione per tanti aspetti avanzatissima e di forte impostazione spirituale. Nello stesso tempo, è sempre di sconcertante attualità, anche a tre quarti di secolo dalla prematura scomparsa di Ricci, volontario in terra africana, all’insegna della coerenza e della fede nel valore etico dello stato.

In questa ottica si deve fare un primo riferimento, pur nella necessaria sintesi, all’idea di cooperazione, non soltanto corporativa, intesa come «fine fondamentale» della politica «che conferma ed esalta i valori spirituali insiti nell’uomo»[2]. Una cooperazione, nella fattispecie, idonea a ravvisare nell’esperienza coloniale italiana i presupposti di un impegno a tutto campo, anche a favore dello sviluppo dei Paesi oltremare, superando i limiti delle utopie «civilizzatrici» che nel secolo precedente avevano contraddistinto i programmi di Pasquale Stanislao Mancini o di Francesco Crispi, per non dire di quelli giolittiani al tempo della guerra di Libia.

Altrettanto qualificanti, nel pensiero di Ricci, risultano in modo specifico: la sostanziale negazione del liberalismo e del socialismo (non priva di reminiscenze anarchiche e di un notevole influsso della «religiosità» mazziniana) nel quadro di una ragionata convergenza collaborativa di capitale e lavoro; il limite imposto al diritto di proprietà dalla funzione sociale che le compete, determinandone il necessario fondamento, con uno spunto non dissimile da quello della Carta del Carnaro di Gabriele d’Annunzio e di Alceste De Ambris ma notevolmente più deciso nel riferimento all’esproprio; il rifiuto delle discriminazioni razziali in un singolare anticipo della globalizzazione e soprattutto della sua revisione etica; ed infine, la sublimazione del nazionalismo in una sorta di universalismo messianico, tanto utopistico quanto affascinante, il cui perseguimento deve essere affidato anzitutto all’Italia ed al suo ruolo trainante, tipico di chi massimamente «sviluppa ed eleva la personalità umana».

Berto Ricci non era esente da talune suggestioni della giovinezza fiorentina improntate ai sogni di una Sinistra libertaria e talvolta giustizialista, ma possedeva anche una rigida formazione scientifica come quella naturale nel docente di matematica (sua meritoria attività al servizio dello stato e dei giovani) chiamata a confrontarsi con un volontariato maturo e consapevole: dapprima nella guerra d’Abissinia e poi in quella mondiale, ancora in Africa; più precisamente nel territorio cirenaico di Bir Gandula, dove si sarebbe immolato[3] coerentemente col suo pensiero ed i suoi ideali agli inizi del 1941; e non senza qualche amara presa di posizione nei confronti di coloro che avevano optato per il tranquillo rifugio nelle retrovie, se non addirittura nell’imboscamento.

Come aveva scritto nel 1938 ad un gruppo di amici e collaboratori per annunciare una rinascita del suo «Universale»[4] che fu preclusa dagli eventi successivi, il conflitto avrebbe dovuto tradursi in una sorta d’ultima guerra «matrice di civiltà» in quanto rivolta al pur difficile e complesso perseguimento di valori perenni capaci di superare e trascendere quelli nazionali che, qualora avulsi dall’ethos, avrebbero finito per annullare lo spirito in una sorta di egocentrico particolarismo collettivo che in quanto tale, soggiungeva Ricci, non è idoneo a creare; «e chi non crea, si estingue»[5].

Quello dell’ultima guerra, presupposto di una nuova pace universale, era indubbiamente un mito, simile all’auspicio che durante il Primo Conflitto Mondiale era vissuto nell’utopia di quanti attendevano il trionfo delle «nazionalità oppresse» grazie alla sconfitta delle autocrazie; ma nel caso di Ricci il sogno della «pax romana» assumeva dimensioni planetarie, quasi antesignane di quelle che, in tempi largamente successivi, si sarebbero sviluppate, sempre a Firenze, nel disegno messianico del sindaco Giorgio La Pira e di Padre Ernesto Balducci; per non dire, sul versante opposto, del patriottismo a tutto campo di Don Luigi Stefani, il cappellano della Tridentina alfiere di un volontariato davvero «universale».

Cavaliere «senza macchia e senza sconfitta», Berto fu apprezzato più spesso di quanto si creda anche dagli avversari politici che ne avevano riconosciuto l’onestà non solo intellettuale, a cominciare da Indro Montanelli che, passato sull’altra sponda non senza qualche rammarico, ne ha lasciato ricordi commossi e suggestivi, per finire a Benedetto Croce che nei Quaderni della Critica avrebbe sottolineato l’opportunità di «rendere aperta giustizia» ai giovani fascisti capaci di battersi per l’Idea, come lo stesso Ricci, assieme a Niccolò Giani, Guido Pallotta e Carlo Roddolo; ed a cui si sarebbero potuti aggiungere, tra gli altri, uomini quali Carmelo Borg Pisani, eroe dell’irredentismo maltese, ovvero Franco Aschieri e gli altri combattenti della «resistenza fascista» che gli Alleati fucilarono sommariamente assieme a lui in agro di Santa Maria Capua Vetere (senza contare le innumerevoli vittime del delitto contro l’umanità compiuto a guerra finita, come quelle del «triangolo rosso» o delle foibe istriane e venete).

Non è un mistero che Ricci fosse letto con interesse non formale anche da taluni esponenti del fuoriuscitismo di Sinistra, come avrebbero testimoniato Paolo Spriano ed Alberto Asor Rosa, che gli riconobbe un contributo molto importante nella formazione di Romano Bilenchi e di Vasco Pratolini, approdati alla Sinistra non senza un bagaglio culturale e spirituale mutuato proprio da Ricci, importante in chiave potenzialmente critica della Sinistra medesima, come il futuro si sarebbe incaricato di dimostrare.

Gli spunti di maggiore interesse – anche attuale – che si possono cogliere nel pensiero di questo «cavaliere senza macchia e senza sconfitta» riguardano, da una parte, la sintesi (se non anche l’antitesi) di Stato e Nazione, e dall’altra, l’ethos della politica in un quadro di permanente rivoluzione sociale.

Ricci, in polemica con Giovanni Gentile, e sulla scorta di poeti e scrittori sommi quali Dante, Petrarca, Machiavelli e Leopardi, che avevano avuta ben chiara la realtà permanente di un’Italia unita sul piano dell’anima e della fede, sostenne che l’idea nazionale precede l’organizzazione statuale, ed aggiunse che non deve trovare sbocco nel nazionalismo, né tanto meno nel razzismo, perché in tal caso finirebbe per «retrocedere dallo spirito alla consanguineità»; al contrario, similmente alle pur condivise ma riduttive attese irredentiste[6], deve risolversi nell’universalismo. Coerentemente con tale assunto, il fascismo, che secondo Ricci si colloca in una logica di beninteso «imperialismo della cultura» e tende necessariamente all’universale, non può riassumersi «in un uomo solo», cosa che sarebbe quanto meno «inquietante» al pari delle «unanimità assolute»[7].

Quanto alla rivoluzione sociale, che nel pensiero di Ricci ha da essere «permanente» e lungi da ogni cristallizzazione conservatrice, come quella che stava «impunemente strozzando» il fascismo, basti aggiungere che, a suo modo di vedere, il principio dell’espropriazione non aveva «fatto un passo avanti: senza spodestare i vecchi privilegiati se ne sono creati dei nuovi»[8]. Non c’è che dire: la cosiddetta «Sinistra» fascista, a cui Berto si richiamava esplicitamente, ed a cui lo stesso Mussolini non sarebbe stato alieno dal manifestare un’ultima adesione durante l’esperienza della Repubblica Sociale Italiana, non avrebbe potuto esprimersi in modo più chiaro, netto e significativo.

Non basta. Ricci ha soggiunto, ad ulteriore esplicitazione del suo pensiero, che «la proprietà inviolabile è un dogma liberale» e che «non è affatto un principio dello stato fascista» il quale deve dimostrare «di saper colpire anche la proprietà in nome della patria». In questa ottica, la conclusione è quasi scontata: «Se la borghesia non vuole o non sa essere audace, sia infine costretta ad esserlo; e se non è capace che di guardare timidamente all’oggi, sia obbligata a tener conto di un vasto e possente domani»[9]. In sostanza, Ricci si conferma uomo di una Destra dichiaratamente nazionale, o meglio universale, ma senza gli avvicinamenti più o meno motivati delle stesse gerarchie fasciste alla cosiddetta Destra economica ed a quelli che oggi si chiamerebbero «poteri forti».

In un suggestivo elzeviro per il cinquantesimo anniversario della morte di Berto[10] venne ricordato come la sua Firenze avesse cancellato sin dal 1948 «una strada a lui dedicata». Ebbene, sarebbe auspicabile come allora, ed a più forte ragione oggi, in un clima finalmente più oggettivo, conforme alle esigenze di una corretta metodologia storica, che da Palazzo Vecchio giunga «un segno di civiltà e di buona memoria storica» col ripristino nella toponomastica cittadina di un ricordo sia pure simbolico ma oggettivamente doveroso, dedicato ad uno dei «rari maestri di carattere» avuti dall’Italia del Novecento. Del resto il «fascismo» di Berto Ricci fu sempre improntato ad una dissidenza di alto spessore morale che ne sottolinea il carattere indipendente, la profondità di pensiero, e soprattutto la dignità di uno spirito sovrano.


Note

1 Berto Ricci (Firenze 1905 – Bir Gandula 1941) dopo la laurea conseguita all’Università di Pisa, fu insegnante di matematica a Prato, Palermo e Firenze, coniugando l’impegno nella docenza con quello di una fervida milizia culturale, in cui trovarono spazio, fra l’altro, traduzioni di Ovidio e di Shakespeare, nel quadro di interessi a tutto campo che anticiparono sin dalla prima giovinezza la sua vocazione «universalistica». Conclusa una formazione non priva di qualche reminiscenza anarchica, aderì al fascismo distinguendosi per l’impostazione intransigente e per una coerente opposizione ai compromessi del regime ed ai profitti dei gerarchi, nel quadro di una visione sociale, sostanzialmente anti-borghese. Il volume di Poesie edito da Vallecchi nel 1930 fu la prima opera di Ricci, cui avrebbe fatto seguito la Corona ferrea del 1933, ma nello stesso tempo aveva collaborato a testate di alto livello culturale come «Il Selvaggio» di Maccari. Nel 1931, in concomitanza con l’uscita dei suoi Errori del nazionalismo italiano e Lo scrittore italiano (opera riproposta a distanza di oltre mezzo secolo alla luce di una permanente attualità anche dal punto di vista metodologico) diede vita, con pochi eletti collaboratori, a «L’Universale», il periodico che gli avrebbe dato fama perenne e che offriva alla riflessione comune, ma innanzi tutto alla classe politica, una rivista veramente innovatrice, e di alto spessore spirituale in senso laico, di cui Berto fu direttore, e che per un quinquennio sarebbe stata un punto di riferimento della cultura italiana, ed in particolare di quella fiorentina. Non a caso, riscosse il significativo apprezzamento del Duce, espresso nell’udienza a Ricci ed ai suoi redattori che ebbe luogo a Palazzo Venezia nel 1934: cosa tanto più ragguardevole, visto il palese ostracismo di Roberto Farinacci e di altri esponenti fascisti. Nello scorcio conclusivo degli anni Trenta, cessate le pubblicazioni de «L’Universale» nel 1935 con la partenza per l’Etiopia, e confermate anche dopo il rientro, l’opera culturale di Berto divenne meno visibile ma non per questo meno impegnata, come attesta la forte opposizione al razzismo, quale emerge dalla lunga lettera del 3 aprile 1938 ai maggiori collaboratori de «L’Universale» per annunciarne una ripresa che non sarebbe mai avvenuta. Scoppiata la Seconda Guerra Mondiale, si fece nuovamente paladino di un convinto volontariato e chiese con insistenza (come dimostrano ben 12 lettere scritte in termini quasi perentori ad Alessandro Pavolini quale autorevole ed ascoltato concittadino) di essere inviato a combattere: alla fine venne accontentato, e fu destinato al fronte africano dove trovò la morte nel mitragliamento del suo reparto di artiglieria da parte di uno «Spitfire» britannico. Aveva con sé il manoscritto dell’ultima opera in fase di preparazione: quel Tempo di sintesi che andò perduto assieme ad una mente fra le più lucide ed integre dell’epoca, lasciando al deserto africano le riflessioni in cui aveva sostenuto, quale nobile testamento spirituale posto comunque in luce dagli appunti rimasti alla famiglia, la necessità «di conoscenza e di azione, di intelletto e di fede». Oggi, le spoglie di Berto Ricci riposano nel Sacrario d’Oltremare a Bari, dove vennero traslate negli anni Settanta, assieme a quelle dei caduti in terra di Libia.

2 Berto Ricci, L’Italia corporativa, da «L’Universale», Firenze, anno IV, maggio 1934, in Lo scrittore italiano, con prefazione di Indro Montanelli, Ciarrapico Editore, Roma 1984, pagina 172. In aggiunta a tale nuova edizione, nella cospicua bibliografia in materia si deve segnalare la capillare ricerca di Ivo Ferraguti, L’Universale di Berto Ricci (1931-1935): Indice ragionato e brevi biografie degli Autori, Parma 2007, 75 pagine. Si tratta di uno strumento di consultazione disponibile anche «on-line» e tanto più meritorio in quanto riferito a circa 150 firme che comparvero sulla rivista fiorentina nel suo quinquennio di vita: accanto a quella dello stesso Ricci, basti qui ricordare i contributi di Ottone Rosai (il celebre pittore era anche versatile scrittore), Romano Bilenchi, Diano Brocchi, Indro Montanelli, Camillo Pellizzi, Luigi Maria Personè, Ardengo Soffici.

3 Una parte minoritaria della storiografia ha ipotizzato che Berto Ricci avesse scelto di andare volontario in Africa a cercare deliberatamente la morte, in una sorta di suicidio programmato, quale ultima testimonianza del suo dissenso. La tesi, indubbiamente ardita, in quanto fondata su labili supposizioni, è stata sostenuta in particolare da Ruggero Zangrandi nel suo Lungo viaggio attraverso il fascismo, ma smentita in modo categorico da Montanelli nella suggestiva premessa alla citata riedizione del 1984, e più tardi, anche da Paolo Buchignani (Il fascismo impossibile: l’eresia di Berto Ricci nella cultura del Ventennio, Editrice Il Mulino, Bologna 1994).

4 La rivista di Ricci era stata «sospesa» allo scoppio della guerra per l’Etiopia quando, come fu scritto nel commiato, «non è più tempo di carta stampata» ma di azione, cui non vollero sottrarsi, assieme al direttore, anche diversi collaboratori.

5 Berto Ricci, Lettera del 3 aprile 1938, Anno XVI Era Fascista – Programma per un nuovo «Universale», Ibidem, pagina 226. La corrispondenza di Ricci costituisce un’ulteriore fonte di importanti informazioni sull’impegno di un personaggio che, per dirla con Seneca, fu davvero un «vir bonus cum mala fortuna compositus». Al riguardo, basti citare una delle ultime lettere alla famiglia in cui, dopo il saluto ai genitori che non avevano condiviso di buon grado la sua decisione di farsi combattente volontario, affermava di trovarsi in Africa «perché i nostri figli vivano in un mondo meno ladro». Un aforisma che esprime in tutta sintesi la generosa utopia di Berto, nel sogno, perseguito sino all’ultimo, di una «rivoluzione perpetua».

6 Durante il Ventennio, l’irredentismo aveva continuato a rivolgere attenzioni prioritarie alla Dalmazia, ingiustamente sacrificata in deroga al Patto di Londra del 1915, firmato alla vigilia dell’entrata in guerra a fianco dell’Intesa; a cui si erano unite quelle per la Corsica e Nizza, in funzione antifrancese. Proprio per questo, pur avallando le attese dell’irredentismo dalmata e di quello córso, Ricci si chiedeva, nella prima metà degli anni Trenta, come mai non si pensasse con analoghe motivazioni ai Grigioni od al Ticino, per non dire di Malta (che sarebbe diventata d’attualità qualche tempo dopo). Ne emergevano suggestioni dichiaratamente imperialiste che peraltro erano motivate dall’idea, tipica di Berto, ma non priva di qualche reminiscenza risorgimentale, del primato italiano fondato sulla cultura.

7 Berto Ricci, Lettera del 3 aprile 1938, opera citata, pagine 216-229. In effetti, la polemica con Gentile ebbe carattere sostanzialmente accademico: Nazione e Stato sono elementi complementari, in un quadro di osmosi cooperativa e non certo di antitesi. Di più alto spessore morale appare, caso mai, il rinnovato invito di Ricci alla necessità di educare alla «semplicità di vita le gerarchie, e specialmente le donne» (con un chiaro riferimento a comportamenti pubblici e privati non sempre ineccepibili).

8 Ibidem, pagina 224. Ricci rincara la dose quando afferma che urge come non mai «la denunzia aperta delle ingiustizie, delle infrazioni, delle prevaricazioni, da chiunque commesse»: se non altro, per prevenire il rischio che la Sinistra comunista potesse vantare l’esclusiva di siffatta protesta. Né risparmia critiche alla Chiesa Cattolica con assunti assai ricorrenti, come quando sostiene che ha bisogno di «rigenerarsi dal profondo» superando il curialismo e la subordinazione alla tutela di «interessi terreni». In questa ottica, non è inverosimile supporre che la rinascita de «L’Universale» sia stata impedita, non solo dai venti di guerra, ma nello stesso tempo, da altre forti opposizioni.

9 Berto Ricci, Italia e Lavoro, da «L’Universale», Firenze, anno II, febbraio 1932, in Lo scrittore italiano, opera citata, pagina 96.

10 Marcello Veneziani, Cinquant’anni fa moriva in Libia Berto Ricci – Il fascismo possibile, in «Il Giornale», terza pagina, Milano, 2 febbraio 1991. Almeno dal punto di vista semantico, è facile constatare come l’interpretazione di Veneziani si collochi in un’ottica diametralmente opposta a quella, già citata, di Buchignani. In effetti, anziché parlare di fascismo «possibile» od «impossibile» parrebbe più congruo fare riferimento ad un fenomeno di «storia e di vita» nell’ottica della commemorazione tenutasi a Firenze una trentina d’anni orsono ad opera di Giuseppe Niccolai (confronta Berto Ricci 45 anni dopo, Edizione «Quaderni della Quercia», Firenze 1986, 48 pagine). Si tratta di un contributo complesso ed affettuoso indubbiamente importante, anche per l’inquadramento ad ampio respiro del pensiero e dell’opera di Ricci, con alcuni spunti di significativa e permanente rilevanza: ad esempio, il riferimento ad una fiorentinità a tratti «rissosa» ma sempre improntata «ad ansia di partecipazione, e in definitiva, di progresso»; e più generalmente, quello alle forti critiche di Ricci per «certe conversioni nominalistiche da parte di chi vedeva nelle vicende politiche nient’altro che il proprio personale tornaconto»; ovvero, per il «materialismo americano, più profondo e pericoloso di quello russo perché sorretto dalla pseudo-cultura del dollaro e mai corretto da una tradizione spiritualista tutt’altro che fagocitata, come quella dell’Oriente Europeo» (Ibidem, pagine 45-46).

(settembre 2017)

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