Cristo si è fermato a Eboli
Un’opera senza tempo e sempre attuale

Nella pur vastissima letteratura meridionalistica, la celebre opera di Carlo Levi occupa un posto di primissimo piano: si tratta di un classico, riconosciuto come tale da tutta la critica. Un affresco coinvolgente, suggestivo e terribile di una realtà come quella della Basilicata contadina degli anni Trenta, in cui anche il tempo si era fermato: a quasi 80 anni dall’unità d’Italia e dalla fine del Regno Borbonico, poco o nulla era cambiato. Ed oggi, che cosa è cambiato?

Levi non scrive di getto, ma racconta la sua esperienza di confinato politico, rievocandola a distanza di tanti anni e collocando i suoi vivi ricordi in una fotografia estetica, ma anche etica, di ambienti, di atmosfere, e naturalmente di personaggi: le donne di Aliano, un paese fuori del mondo, che pur desiderando di assumere l’incarico che oggi si direbbe di «badante» non avrebbero mai potuto infrangere la regola ferrea dell’antica società lucana, che vietava loro di entrare nella casa di un uomo solo; il parroco, Don Trajella, ormai rassegnato a coniugare una fede esteriore con le tante superstizioni dei suoi fedeli ed a vivere la loro stessa indigenza; il medico incapace, il podestà saccente e pieno di sé, il carabiniere incaricato dell’inutile sorveglianza di Carlo, ed il cane che lo accompagnava nella sola gita possibile fuori porta, quella al cimitero.

I personaggi più autentici, comunque, sono i contadini lucani: quelli che non avevano potuto conoscere Cristo perché si era davvero fermato a Eboli, e perché nel loro linguaggio arcaico la parola «cristiano» stava semplicemente per «uomo». Ebbene, di questi contadini Carlo Levi descrive la profonda umanità, e nello stesso tempo l’incapacità di confrontare la loro condizione con quella di un’Italia ufficiale e di un mondo sviluppato, a causa di una totale ignoranza, anche nel senso etimologico della parola. Si potrebbe ben dire che, al confino, più che lo stesso Levi, condannato a due anni di soggiorno obbligato, ci fossero quei contadini, per l’eternità della loro vita di sacrificio.

Nello sfondo, si avverte anche la presenza dei cosiddetti «briganti»: quelli che avevano combattuto la lunga guerriglia contro la «conquista» piemontese, non tanto a favore di un’improbabile ed inutile restaurazione borbonica, quanto per una protesta velleitaria ma autentica contro un nuovo padrone venuto da lontano, che nulla conosceva della miseria e della disperazione che imperavano in quasi tutto il Mezzogiorno, e segnatamente in Lucania. Come scrisse Giovanni Sartori a proposito della Rivoluzione Ungherese del 1956, definendola una sublime follia, altrettanto si potrebbe dire per quei «briganti» e per quei contadini.

Carlo Levi, insigne uomo di lettere e di arti, ha il merito di essersi immedesimato in quella realtà non meno dei meridionalisti «indigeni» come Rocco Scotellaro, e di averla descritta con una partecipazione sensibile, mai distaccata, anche se non sarebbe facile cercare nella sua opera indicazioni efficaci sulle cause reali di una depressione secolare, e soprattutto sui possibili rimedi. Resta il fatto che, grazie a Levi, comunità dimenticate da Dio e dagli uomini come quelle di Aliano, Alianello e Grassano sono entrate a far parte della coscienza comune, o quanto meno, delle sue componenti più sensibili sul piano sociologico e su quello etico.

Alla metà degli anni Trenta, quando Levi visse in Lucania gli anni di un «riposo» forzato e di un’attenta meditazione umana e civile, le comunicazioni erano carenti, la radio ed i giornali erano un lusso per pochi eletti, e naturalmente, non esisteva la televisione; al massimo, c’erano i racconti degli emigrati che narravano cose mirabolanti della «Merica» o della stessa Italia Settentrionale. Oggi, almeno a livello di conoscenze rivenienti dall’informazione di massa, il cambiamento è stato epocale, e Cristo non è rimasto fermo a Eboli; ma resta da vedere quale sia stata l’incidenza del «nuovo che avanza» in una società tuttora contraddistinta da vistose sacche di arretratezza arcaica, dove la stessa industrializzazione sembra avere avuto in troppi casi, ivi compresi quelli più recenti di marca petrolifera, l’effetto dell’acqua sui tetti.

(novembre 2016)

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