L’Italia durante il fascismo
Contrariamente a quello che sostiene la storiografia di Sinistra, durante il Ventennio il nostro Paese conobbe, accanto ad una effettiva restrizione delle libertà, anche un intenso progresso sociale ed economico

La dittatura fascista propriamente intesa durò 18 anni e mezzo, e precisamente dal 3 gennaio 1925 al 25 luglio 1943. Dal periodo comunemente denominato «Ventennio» vanno infatti detratti tanto i 26 mesi dall’ottobre 1922 al gennaio 1925 (fascismo al potere, ma con Governo di coalizione e minoranza in Parlamento) che i 18 mesi della Repubblica Sociale Italiana (dall’ottobre 1943 all’aprile 1945). Disquisire di quanto prodotto dal Regime in tale arco di tempo, tanto in sede economica che in sede sociale, istituzionale ed edilizia, diplomatica ed agricola, sportiva ed industriale, scolastica e sanitaria, assicurativa e ricreativa, culturale e bancaria, giudiziaria e di trasporti, musicale, occuperebbe troppe pagine. Molti dei progressi registrati (ma molto spesso sarebbe più corretto parlare di esordi) restano custoditi ancor oggi in ogni centro abitato se materiali, in ogni aspetto della vita pubblica se istituzionali. Ci limiteremo ad alcuni essenziali accenni.

Gli aspetti negativi sono ben conosciuti: il Re avallava tutto ciò che Mussolini proponeva, ogni opposizione politica al Regime era dissolta, i nemici messi a tacere, la stampa controllata o imbavagliata, le lettere degli oppositori aperte, gli intellettuali sospetti spiati, perseguitati, arrestati, un regime di polizia gravava sull’intero Paese. Molti dei vecchi uomini politici si erano ritirati a vita privata, altri erano stati messi in prigione o al confino, oppure erano emigrati; l’antica classe politica, erede di Cavour e del Risorgimento, era stata spazzata via.

Nelle strutture dello Stato si era imposto un nuovo stile di vita che la propaganda chiamava «littorio», con un chiaro riferimento all’antica Roma. Del resto, il fascismo aveva un vero e proprio culto della romanità, che usava come sfondo di tutto il suo cerimoniale; questo culto non verrà abbandonato neppure nel periodo della Repubblica Sociale, in cui sarà adottato il fascio repubblicano, ma con l’accetta sulla sommità anziché lateralmente.

Quattro erano i capisaldi del fascismo: il culto del Capo, il Duce (come amava farsi chiamare Benito Mussolini); il nazionalismo; il corporativismo; la lotta contro il comunismo. Il Duce annunciava le sue decisioni fra il conforto della folla, fra gli applausi dei cittadini, faceva sentire la sua voce nelle adunanze oceaniche. Il balcone di Palazzo Venezia, da cui parlava, divenne presto uno dei simboli del Regime. L’Italia – sosteneva – era chiamata a grandi cose, aveva fatali destini da compiere, doveva farsi portatrice di civiltà, perché gli Italiani erano un popolo di Santi, di condottieri, di eroi. Ostentava una tracotanza ed una millanteria, spesso solo di facciata, che gli attiravano il rispetto e l’entusiasmo delle masse. La gioventù veniva addestrata alle armi, i ragazzi erano inquadrati in un’organizzazione quasi militare in cui ogni membro era un «balilla». Mussolini non dedicò molto interesse all’esercito, che non aveva contribuito all’avvento del fascismo, preferendo tenersi in disparte; mentre Diaz, Caviglia e Badoglio venivano tacitati col grado di Maresciallo, il Generale Capello veniva addirittura incarcerato. Accanto all’esercito regolare sorsero le Legioni della Milizia, divise in coorti, centurie e manipoli come al tempo dell’Impero Romano, ed i cui ufficiali godevano degli stessi riconoscimenti di quelli usciti dall’Accademia Militare di Torino. L’arma più condizionata dal fascismo fu l’Aviazione, mentre la Marina conservò una certa indipendenza di pensiero.

Molte furono le opere positive, materiali o istituzionali, compiute dal fascismo. «Il fascismo» affermò nel 1962 l’intellettuale Maurice Bardèche «fece strade, ospedali, acquedotti, prosciugò paludi, aumentò i raccolti, realizzò la Carta del Lavoro». L’architettura è il settore artistico in cui è più evidente l’impronta lasciata dal Regime. Nello stile dei palazzi si amava lo stile imponente che arieggiava l’eleganza dell’antica Roma. Si faceva ampio uso di «severe linee geometriche e di grandi e levigate superfici bianche per sostituire le colonne, le logge e le elaborate facciate che per così lungo tempo avevano attenuato l’abbagliante luce del sole italiano»; uno dei migliori esempi di quest’architettura rimane il Palazzo delle Civiltà a Roma, nel quartiere EUR. La parola del Duce era considerata quasi sacra, le strade consolari erano costellate delle sue scritte e dei suoi detti, molti dei quali famosi ancor oggi: «Meglio un giorno da leone che cento da pecora», «È l’aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende».

Il fascismo negli anni tra il 1922 e il 1929 si rinsaldò, grazie anche al periodo favorevole che attraversava tutta l’economia europea. Il 14 giugno del 1925 Mussolini lanciò la più celebre delle sue «battaglie civili»: quella del grano (fra le altre ricordiamo quella della lira, stabilizzatasi a quota 92 dopo una galoppante inflazione, della polvere, della malaria – che portò alla bonifica delle Paludi Pontine, riuscendo là dove Imperatori e Papi avevano fallito – e quella demografica – con la tassa sui celibi e i sussidi alle donne che avevano figli, una ne mise addirittura al mondo 25...! –). Il capo del fascismo sottolineerà poi in occasione dell’inaugurazione di Littoria (1932): «È questa la guerra che noi preferiamo, ma occorre che tutti ci lascino intenti al nostro lavoro, se non si vuole che applichiamo in altro campo quella stessa energia...». La battaglia del grano sarà vissuta dagli Italiani, attirati anche da premi in denaro da capogiro per l’epoca, con una intensa e febbrile partecipazione. Nel volgere di soli 6 anni l’Italia acquisterà la totale autosufficienza dall’estero riguardo il settore dei cereali, con una produzione record di 81 milioni di quintali di grano. Sull’importanza del pane e della fatica di chi lo produce, Mussolini scrisse nel gennaio del 1928 una poesia che ancor oggi si può trovare appesa alle pareti di qualche panificio: «Italiani, amate il pane, cuore della casa, profumo della mensa, gioia dei focolari. Rispettate il pane, sudore della fronte, orgoglio del lavoro, poema di sacrificio. Onorate il pane, gloria dei campi, fragranza della terra, festa della vita. Non sciupate il pane, ricchezza della patria, il più soave dono di Dio, il più santo premio alla fatica umana».

Il 3 aprile 1926 venne approvata la legge sulla riforma sindacale. Erano riconosciuti solamente due sindacati, uno per gli imprenditori e l’altro per i lavoratori, mentre scioperi e serrate venivano vietati. Era la fine degli scioperi con cui le Sinistre avevano paralizzato il Paese negli anni precedenti (gli scioperi riprenderanno solamente nel marzo del 1943 nell’Italia Settentrionale, ma più che da motivi politici saranno dettati da emergenze contingenti: il carovita e le precarie condizioni dovute alla guerra). Sostituendo alla dottrina marxista della lotta di classe quella della collaborazione (le Corporazioni sorsero a tal scopo), nell’interesse di entrambe le parti (industriali e proletari), in quasi tutti gli ambiti occupazionali le condizioni dei salariati migliorarono grazie all’introduzione delle 40 ore settimanali (sospese per breve tempo durante le sanzioni e ripristinate dopo la conquista dell’Impero), della tredicesima mensilità, del sistema pensionistico (l’I.N.P.S. odierno – Istituto Nazionale di Previdenza Sociale – deriva direttamente dall’Istituto Nazionale Fascista di Previdenza Sociale, I.N.F.P.S.), di una magistratura del lavoro, delle gratifiche natalizie ed estive, delle attività ricreative dell’Opera Nazionale Dopolavoro (O.N.D.). È quello che ricorda lo storico André Brissaud nel 1976: «Mussolini ha fatto molto per il proletariato italiano, fin dall’inizio del Regime: assicurazioni sociali, ferie pagate, assistenza sanitaria, e tante altre cose ignorate nell’Europa d’allora». Giovanni Agnelli senior, industriale, ricordò che «il primo contratto nazionale di lavoro è stato realizzato in Italia, da Mussolini, nel 1929: un anno prima del famoso Piano Beveridge americano». Il fascismo sottolineò in continuazione gli aspetti dignitosi, solari e concretamente produttivi del lavoro. A voler rileggere con attenzione la Storia al di là di ogni retorica, si trova più socialismo in una dittatura destroide come quella fascista (senza tener conto della «socializzazione» messa a punto durante la Repubblica Sociale Italiana ma mai interamente attuata per l’incalzare degli eventi bellici) che in altre ben più lunghe nominalmente ispirate al potere operaio ed agli interessi del proletariato, come ebbe ad affermare lo storico Hans W. Neulen nel 1982: «Il fascismo di Mussolini, in risposta a un liberalismo superato e al materialismo marxista, rappresentò una dittatura di sviluppo, con tratti di sinistra».

Il favore popolare verso il fascismo si consolidò ancor più nel 1929, quando venne firmato il Concordato fra Stato e Chiesa. Venne così chiuso un contenzioso, posto un termine all’ostilità – aperta o segreta – tra l’Italia e la Santa Sede, un’ostilità che durava dal 1870, anno della presa di Roma. Il Papa Pio XI affermò, in occasione della firma dei Patti Lateranensi: «Dobbiamo dire che siamo stati anche dall’altra parte nobilmente assecondati. E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare: un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale... è dunque con profonda compiacenza che crediamo di avere con esso ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio» (ad un attento esame, queste parole nascondono però un’«insidia», un’«ambiguità»: dire l’uomo «che la Provvidenza ci ha fatto incontrare» non vuol dire necessariamente un uomo buono...).

Il film semi-documentaristico Camicia nera (1933), che narra la storia di alcune famiglie italiane dai mesi antecedenti alla Prima Guerra Mondiale fino all’inaugurazione di Littoria, enumera alcune delle varie innovazioni messe in atto dal fascismo nei suoi primi anni di vita: nel campo dell’edilizia statale e dei pubblici edifici furono costruite 11.000 nuove aule scolastiche in 2.774 Comuni e 6.000 case popolari che ospitavano 215.000 persone, ricostruiti paesi terremotati[1] (con l’erezione di 3.131 fabbricati economici e popolari, 1.700 alloggi, 94 edifici pubblici, 6.400 case riparate), fatti acquedotti ed opere igieniche (10 milioni di abitanti in 2.193 Comuni ebbero assicurata l’acqua); per arginare i fiumi e difendere le campagne dalle inondazioni furono approntati 4.500 chilometri di sistemazioni idrauliche ed arginature, per il carbone bianco si passò da 54 laghi montani artificiali del 1922 a 184, aumentati 6.665.000 kilowatt e 17.000 chilometri di linee; nel 1932 si contavano 2.048 chilometri di ferrovie elettrificate e 600.000 tonnellate di carbone risparmiato (con la previsione di arrivare nel 1944 a 6.415 chilometri di ferrovie elettrificate ed un risparmio di 1.850.000 tonnellate di carbone), vennero costruiti 6.000 chilometri di strade statali, provinciali e comunali, e 436 chilometri di autostrade; per quanto riguarda le strutture portuali, furono costruiti 27 chilometri di moli foranei, 36 chilometri di calate per l’attraccaggio dei piroscafi, aumentati di 6.800.000 metri quadrati gli specchi d’acqua nei porti della Penisola[2].

Il contrasto – opportunamente propagandato dal Regime – tra la vecchia «Italietta» giolittiana, succube e non protagonista della storia, e l’Italia nuova forgiata dal fascismo, per quanto strumentale rispolverò anche in parecchie migliaia di Italiani oltre frontiera il sentimento nazionale. La Penisola era ormai un Paese in grado di imporre il rispetto di sé all’estero, ed alle cui scoperte ed invenzioni tecnologiche anche gli Stati Uniti d’America dovevano chinarsi: un’Italia stimata ma al tempo stesso temuta dalle potenti democrazie, il cui capitale trovava nuovi ostacoli nell’infiltrarsi nei mercati italiani.

Dopo quanto detto finora, l’immagine che possiamo delineare è quella di un’Italia sana, efficiente ed in corsa verso un benessere prima sconosciuto, come sottolineerà Mussolini in un discorso tenuto nell’Agro Pontino il 18 dicembre del 1932: «Una volta per trovare della terra da lavoro occorreva valicare le Alpi o traversare gli oceani. Oggi la terra è qui, a mezz’ora soltanto di distanza dalla capitale...»[3].

Con la Grande Depressione del 1930 l’economia italiana tornò a vacillare, la disoccupazione aumentò, gli stipendi vennero diminuiti, la Fiat dimezzò la sua produzione. La situazione non si presentava però più grave che negli altri Paesi Europei o negli Stati Uniti. Il Duce cercò un nuovo successo in Africa: la campagna di conquista dell’Etiopia del 1935 durò un solo anno, si spesero ingenti capitali che sarebbero stati necessari in Italia, ma il fascismo toccò il vertice di consenso più alto (persino molti intellettuali antifascisti emigrati all’estero fecero ritorno in patria per essere arruolati nell’esercito come volontari). Giustamente Arrigo Petacco (non certo uno storico di tendenze «filo fasciste») disse che, se Mussolini fosse morto nel 1936, «oggi sarebbe considerato Eroe Nazionale e ci sarebbe un suo busto in ogni piazza d’Italia».

Nel frattempo, un altro dittatore era apparso all’orizzonte: si chiamava Adolf Hitler, e la sua politica era una politica di conquista e di aggressione, per riunire insieme tutti i popoli germanici e garantir loro lo «spazio vitale». Mussolini, blandito e nello stesso tempo abbandonato da Francia ed Inghilterra, cominciò ad avvicinarsi sempre più alla Germania, ne copiò perfino le leggi (come quelle che mettevano al bando gli Ebrei, pur chiedendo di applicarle nel modo più blando possibile); poi, fu spinto all’alleanza vera e propria. Era la decisione fatale: l’Italia sarebbe stata presto trascinata in una nuova, grande guerra che avrebbe devastato l’intero Paese, spargendovi lutti e miseria.


Note

1 Lunedì 28 dicembre 1908 lo Stretto di Messina fu colpito da un terremoto che nella sola Messina rase al suolo il 90% degli edifici ed uccise migliaia di persone. Sebbene il Governo avesse deciso per l’immediata ricostruzione, quando il 22 giugno 1923 il nuovo Presidente del Consiglio, Benito Mussolini, visitò Messina, le baraccopoli attorniavano ancora la città dello Stretto. Dopo aver ascoltato una relazione sui problemi più urgenti della città, il Duce concluse: «Solleciteremo le opere, faremo presto; ma, oh signori, non dimenticate che il denaro pubblico è sacro. Esso proviene dal sudore e sovente dal sangue del popolo e non abbiamo diritto di spenderlo alla leggera. Bisogna andare cauti ed usare tutti i controlli. [...] Messina può attendere all’opera con fede». Passarono pochi anni ed ogni famiglia ebbe la sua bella casa, che ancora oggi è possibile ammirare a Messina e a Reggio Calabria: palazzine antisismiche con giardini, secondo l’urbanistica del tempo, che l’assegnatario poteva pagare a riscatto e ad un prezzo conveniente; l’organizzazione, l’amministrazione e l’assegnazione delle case avveniva serenamente, senza bustarelle, senza tangenti. Messina è ora definita la città più moderna dopo Littoria (l’odierna Latina).
Per la ricostruzione delle ampie zone della Campania, del Sannio e della Lucania colpite dal sisma del 23 luglio 1930, in soli 4 mesi furono ricostruite o restaurate quasi 9.000 case dalle solide strutture. Nel terremoto de L’Aquila dell’aprile 2009 gli unici edifici che resistettero al sisma furono quelli costruiti nel Ventennio.
L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo.

2 Nel 1924 Benito Mussolini venne nominato cittadino onorario di Varese, e lo è tuttora nonostante la Sinistra tenti di chiederne la revoca. Come ha voluto testimoniare l’assessore comunale Stefano Clerici, «ritengo assurdo che si discuta di revocare una cittadinanza onoraria concessa ben 89 anni fa mentre l’economia della nostra città è in ginocchio e la disoccupazione schizza a livelli record. Mi rendo conto però che non ci si possa sottrarre alla discussione [...], perchè fare politica significa confrontarsi sui temi contingenti come su quelli ideali e valoriali. Una forza politica matura deve essere in grado di leggere con sereno distacco il suo passato. […] Mi limiterò ad una considerazione: la nostra amata Varese, senza Benito Mussolini non esisterebbe. Non esisterebbe come Provincia (da lui fortemente voluta nel 1927), ma nemmeno come Città (prima di quella data Varese era un agglomerato di “castellanze” disomogenee, spesso indipendenti: erano comuni Velate, Capolago, Bizzozero…). Ma non esisterebbe non solo dal punto di vista amministrativo. Varese, senza il fascismo, non avrebbe una fisionomia dal punto di vista urbanistico ed architettonico. Piazza Monte Grappa (con l’edificio dell’I.N.P.S., la Camera di Commercio, la torre civica, il palazzo delle Generali), la piazza della Questura, la palestra comunale dell’ingegnere Flumiani, le Poste, il Tribunale, l’ospedale neuropsichiatrico, la Casa del Mutilato, quella del Balilla, per non parlare dei bellissimi (e sconosciuti ai più) quartieri popolari Belfiore e Vittoria (che differenza con le case popolari di San Fermo e delle Bustecche!)… Per non parlare dell’asse viario che dall’autostrada (la prima d’Italia, anch’essa guarda caso costruita nel 1924) porta ai palazzi del Governo della Città. […] Varese è e sarà sempre legata indissolubilmente alla figura di Benito Mussolini, piaccia o meno. Non è certo uno Stefano Clerici qualsiasi a dirlo, ma la Storia».

3 Quando Benito Mussolini promise: «Costruiremo 10 città in 10 anni, non un giorno di più», vennero edificate Latina, Aprilia, Sabaudia, Pomezia, Guidonia, Ardea, Ostia Lido, Fregene, Carbonia, Ladispoli, tutte nelle date premesse. Inoltre più di 1.000 borghi, migliaia di case coloniche sparse in tutta Italia e borghi oggi vere cittadine dell’Agro Romano, oltre a 16 nuove province. Che differenza con le opere odierne incominciate e mai finite, gli ospedali pronti ad ospitare malati ma abbandonati ai vandali che hanno persino rubato i gabinetti, i ponti costruiti a metà, le autostrade che portano a precipizi o a prati erbosi, le case e i palazzoni terminati e vuoti... fino al famoso, vagheggiato ponte che dovrebbe collegare la Sicilia al continente, della cui costruzione non vi è ancora la minima traccia.

(maggio 2018)

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