Le origini del fascismo
Dagli Arditi all’instaurazione del Regime

Ci sono due modi per «fare» storiografia: il primo è dare alle proprie ricerche un’impostazione ideologica, ricercando i documenti che sostengono un’idea presa come punto di arrivo (preconcetta) e scartando tutti quelli che assumono una posizione contraria o non conforme alle proprie posizioni; il secondo è prendere in esame le fonti, scartando magari quelle meno attendibili, e da qui cercare di ricostruire l’evolversi di un fenomeno, la vita di una persona, la ricostruzione di un evento. Raramente (per non dire «mai!») il primo modo produrrà buoni frutti od una ricostruzione vera o anche solo attendibile del passato, e quindi non servirà a capire l’evolversi del presente od a tracciare una linea per progettare il futuro.

Il fascismo è stato uno di quei fenomeni che hanno subito più marcatamente l’impostazione ideologica, ovviamente da parte di quegli intellettuali (o presunti tali) che l’hanno osteggiato o si sono rifatti, nelle loro ricerche, esclusivamente agli scritti od alle testimonianze di persone della parte avversa; oltretutto non solo senza premurarsi di controllare l’attendibilità delle loro fonti, ma anche ben guardandosi dall’inserire il fascismo nel più ampio contesto socio-culturale dell’Europa del primo dopoguerra. Così, il Regime fascista è stato definito il «male assoluto», sebbene fosse il meno oppressivo dei regimi totalitari del tempo (e dei tempi successivi); poi, lo si è ricondotto esclusivamente alla figura di Mussolini e di pochi altri responsabili, quasi tutti frettolosamente fucilati all’alba della «liberazione» o nei mesi successivi alla fine della guerra.

In realtà, la genesi e lo sviluppo del fascismo sono comprensibili solamente se lo si inserisce in un panorama più ampio e complesso: esso infatti non fu il prodotto di un’idea o una follia di uno o pochi uomini, ma lo sbocco di un percorso iniziato decenni prima e che maturò negli ultimi mesi della Prima Guerra Mondiale[1] e nell’immediato dopoguerra.

Una guerra che costa oltre 600.000 morti non passa senza lasciare una traccia profonda nella vita di una Nazione. Il grande sforzo bellico dell’Italia aveva stremato le finanze succhiando centinaia di milioni di lire, la disoccupazione dilagava, gli uomini che tornavano dal fronte avevano difficoltà a trovare un lavoro, i socialisti moltiplicavano gli scioperi che paralizzavano il Paese, il malcontento si accendeva fra le masse. La guerra, se aveva dato agli Italiani la sensazione d’essere un popolo unito, non aveva risolto gli altri problemi che la Penisola doveva affrontare: si erano ottenuti il Trentino, l’Istria e l’Alto Adige[2], ma tutto il Meridione era rimasto trascurato; nelle regioni più depresse, lo Stato era giunto prima nella figura dell’esattore delle tasse e successivamente, con la guerra, con la cartolina di chiamata alle armi.

La crisi economica raggiunse il punto più basso nel 1919. Francesco Saverio Nitti si dimise dal Governo; si fece appello al più grande statista italiano dopo Cavour, Giolitti... ma era ormai un uomo anziano, incapace di dominare la situazione. Nel disordine, nella mancanza di energia da parte del Governo, nell’apatia del Re Vittorio Emanuele III, si fece strada un uomo nuovo: Benito Mussolini!

La carriera di Mussolini era stata rapida e fortunata. Nato a Dovia di Predappio (presso Forlì, in Romagna) nel 1883 da un modesto fabbro, fece studi brevi, incompleti, di letture disordinate, di rapidi entusiasmi, di autori mal digeriti. Conseguì il diploma di maestro elementare, ma esercitò la professione per un solo anno (1901-1902) a Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia. Emigrò in Svizzera, dalla quale venne espulso nel 1904. Appassionato di politica, si iscrisse al partito socialista e andò a Trento, come redattore capo del «Popolo di Trento», il giornale diretto da Cesare Battisti; espulso nel 1910 anche dall’Impero Austro-Ungarico, entrò a far parte della direzione del partito socialista e diresse il giornale «Avanti!». Poco prima del 1915 divenne un fautore dell’intervento italiano nella Prima Guerra Mondiale, posizione che gli costo l’espulsione dal partito socialista e dalla direzione del giornale (15 novembre 1914); fondò quindi un altro giornale, il «Popolo d’Italia», con cui incoraggiò il Governo all’intervento nel conflitto. Andò egli stesso a combattere al fronte, impegnandosi in imprese difficili e rimanendo ferito. Terminata la guerra, il 23 marzo del 1919 fondò a Milano, in Piazza San Sepolcro, i «Fasci di Combattimento», composti di reduci di guerra[3] rimasti delusi dalle condizioni di pace imposte all’Italia dalle altre Nazioni a Versailles. Era nato il movimento fascista!

Benché confuso nella sua primordiale ideologia ed ancor vago nella sua collocazione politica, il programma del fascismo, nel suo battesimo di Piazza San Sepolcro, previde innovazioni in campo sociale non indifferenti, quali le 8 ore lavorative, l’abbassamento della soglia elettorale a 18 anni, il voto alle donne, una maggior tutela in campo previdenziale.

Il successivo 15 aprile, un gruppo di fascisti rispose ad un tentativo socialista di assalto alla sede del «Popolo d’Italia» devastando la sede milanese dell’«Avanti!». Sebbene gli ex combattenti avessero già preso ad organizzarsi alle violenze che dalla fine della guerra trovavano spazio nelle quotidiane cronache dei giornali, fu questa la miccia che innescherà un crescendo di aggressioni, omicidi e vendette a catena che insanguineranno la Penisola per tutto il biennio 1920-1921, che passerà quindi alla Storia come il «biennio rosso». A scioperi, sabotaggi di beni di consumo, disordini di piazza voluti di marca anarchico-socialista, il neonato fascismo rispose con altrettanta aggressività: spedizioni punitive, devastazioni di Camere del Lavoro e circoli «rossi». Ricorda Arconovaldo Bonaccorsi, rinchiuso a San Vittore con altri 50 fascisti in seguito ad uno scontro a Lodi con bande comuniste, che (siamo nel novembre del 1919) «a due giorni dalle elezioni il cielo di Milano non aveva altra eco che Bandiera rossa. Chi parlasse di patria era bastonato, o peggio. Solo noi fascisti, pochi e disperati d’amore, eravamo nel solco della lotta viva. Il fascismo alzava il gagliardetto del combattimento...». Lo squadrista fascista degli anni Venti era riconoscibile dalla camicia nera rimediata alla buona, dal fez (lusso però di pochi), dal camion col quale partiva per le spedizioni punitive, dall’olio di ricino per purgare l’avversario e dal manganello (o, meglio, il mattarello, il bastone di legno dalle forme e dimensioni più disparate), dal teschio riamato sulla camicia o sul capo, dal vino, da qualche oncia di tabacco, dall’irruenza e dalla spavalderia: in lui lui la legalità, il buon proposito ed il coraggio convivevano talvolta con l’abuso, il crimine fine a se stesso e la vigliaccheria. Dal canto suo, l’instabilità politica, che vide ben 7 Governi avvicendarsi nell’arco di soli 3 anni, non contribuiva certo all’allentamento di una tensione sempre più palpabile in tutto il territorio nazionale.

In breve, gli atti criminosi assunsero una piega assai poco controllabile da Guardie Regie ed altre forze pubbliche: sarà proprio una tale inefficienza ad assicurare proseliti al fascismo, appoggiato via via da strati sempre più vasti di popolazione. Da 870 iscritti a fine 1919, il movimento contò 20.600 aderenti nel dicembre successivo, decuplicando un anno dopo (249.000 iscritti in 834 Fasci); il primo Fascio ad essere istituito fu quello di Milano, mentre la zona del Centro-Sud con più consensi fu la Puglia, con 20.118 iscritti nel maggio del 1922. In altri termini, se quello fascista diventò un movimento di massa, nonostante la clamorosa «debacle» elettorale dell’autunno 1919 (dove si imposero i socialisti con il 32,4% dei voti, seguiti dai popolari di Don Sturzo col 20,6%, mentre i fascisti non ebbero alcun seggio), lo si dovette alle ondate di scioperi e disordini, socialisti prima e comunisti poi, che seminavano il terrore, paralizzando l’economia e mettendo a serio rischio la proprietà terriera degli agrari e i posti di lavoro degli ex combattenti: pericoli che solo gli aderenti al movimento mussoliniano, sia pur con eguale ferocia, erano in grado di scongiurare. «Il fascismo fu violento e sopraffattore» scriverà il «partigiano» Giorgio Bocca «perché trovò dinanzi a sé una Sinistra antidemocratica, violenta e sopraffattrice». Così ancora lo storico Antonio Falcone: «In un certo senso si può dire che i fascisti la violenza non tanto la imposero quanto la subirono. Lo dimostra il numero dei loro caduti, di gran lunga superiore a quello degli avversari». Qualche anno più tardi, il quotidiano inglese «Daily Mail» riporterà che il fascismo «combatteva il terrore rosso con le sue stesse armi. Ai sistemi di Mosca risposero i sistemi fascisti, che mai imitarono i metodi di gettar vivi gli uomini negli altiforni o torturare i prigionieri, come fecero in ogni parte d’Italia i seguaci di Lenin...». Fra questi ultimi vanno ricordati gli Arditi del Popolo, di estrazione social-comunista, che vestivano in uniforme nera; arrivarono a contare 800 aderenti, ma non ebbero grosso seguito e si spensero dopo soli 8 mesi dalla nascita.

Tra attentati dinamitardi, altre atrocità da entrambe le parti e il fallimento delle occupazioni delle fabbriche, il 1920 andò in archivio. Il 1921 si aprì nel sangue: il 28 febbraio il giovanissimo Giovanni Berta, figlio del fondatore delle omonime fonderie fiorentine, venne sorpreso da una banda socialista su un ponte dell’Arno, scagliato contro il parapetto del ponte e fatto precipitare nel fiume, dove morì annegato; la sua morte fu giustificata come vendetta per il «compagno» Spartaco Lavagnini, ucciso da una squadra fiorentina il giorno precedente. Né, in un clima da guerra civile (nei caldi anni 1919-1922 furono uccise 1.200 persone, di cui quasi 500 di parte fascista), cambiò le cose, nell’estate del 1921, un «patto di pacificazione» tra gli opposti schieramenti politici – patto che gli squadristi più accesi costrinsero ben presto Mussolini a sconfessare. Col III Congresso di Roma (novembre 1921), il momento diverrà partito, il Partito Nazionale Fascista, i cui aderenti sfioravano già le 400.000 unità. Quindi seguirono le prime grandi mobilitazioni fasciste nei centri urbani dell’Italia Centro-Settentrionale e lo sciopero generale promosso dalle Sinistre nell’estate del 1922, sciopero clamorosamente boicottato dalle forze nazionaliste e fasciste (l’opera delle camicie nere nel sostituirsi agli spazzini per pulire le strade od ai tranvieri per garantire i trasporti pubblici giocò un ruolo di primo piano in chiave propagandistica). Mussolini aveva depurato il suo movimento dagli elementi più rivoluzionari (sistemandoli nelle banche, o come governatori coloniali) e si presentava all’opinione pubblica come un uomo d’ordine: nel suo partito, insieme a molte persone di bassa estrazione, entravano anche ricchi borghesi ed industriali, come il ricchissimo banchiere Volpi, convinto dalle parole pronunciate da Mussolini nel suo primo discorso alla Camera nel giugno del 1921, e molti intellettuali; gli si affiancò la stessa Confederazione Generale dell’Industria, una delegazione della quale si recò a trovarlo il 26 ottobre del 1922.

Infine, Mussolini organizzò la famosa Marcia su Roma. Ancora si sta dibattendo se questo espediente con cui il fascismo arrivò al potere fu una vera marcia o una semplice finzione. Resta inconfutabile il fatto che la Marcia venne frettolosamente ma realmente organizzata, tra il 24 ed il 27 ottobre 1922, affinché Mussolini se ne servisse come mezzo di minaccia e di pressione. La Marcia risulterà comunque ininfluente perché, mentre le colonne fasciste entravano pacificamente nell’Urbe (solo nel quartiere di San Lorenzo vi furono degli scontri con gli operai, che provocarono una dozzina di morti), il Duce – titolo che equivale a «guida», e che prima di Mussolini era appartenuto al suo amico Filippo Corridoni, morto nella Prima Guerra Mondiale – aveva già ricevuto dal Sovrano l’incarico di formare un nuovo esecutivo. L’incarico gli venne poi confermato dalla Camera con una maggioranza di 306 voti favorevoli contro 116 contrari: Mussolini fu il più giovane Presidente del Consiglio di tutta la storia d’Italia!

«Il fatto è che, fatta la rivoluzione – confiderà un Mussolini non troppo ironico –, restano poi i rivoluzionari». Spinto dall’esigenza di un’immediata normalizzazione della vita pubblica e nel contempo dall’attenzione a non frustrare le aspettative del suo apparato militare, comunque determinante per il suo approdo a Palazzo Chigi, Mussolini sciolse le squadre inquadrandole poco dopo nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Era, questa, una soluzione che rafforzava la sua immagine di garante dell’ordine (paradossalmente, la sua salita al potere fu invocata da un’alta percentuale della popolazione non in quanto capo del fascismo, bensì domatore dello stesso), e nello stesso tempo incanalava l’aggressività degli squadristi più accesi in servizi di pubblica utilità, dando ad essi un preciso ruolo nel panorama della forza pubblica.

Fallita l’esperienza di un Governo di coalizione (inizialmente Mussolini riservò a sé ed al suo partito solo 4 Ministeri), le violenze in grande stile ripresero nell’estate del 1924 a seguito dell’assassinio di Matteotti (10 giugno 1924), assassinio avvenuto – presumibilmente ad opera di Amerigo Dumini e della sua banda, di sicuro non per ordine di Mussolini – all’indomani delle denunce dell’onorevole socialista riguardo presunti brogli elettorali nelle consultazioni della primavera precedente, ma anche e soprattutto all’indomani della manifesta intenzione di Mussolini di un’apertura ai socialisti. Qualcuno punta il dito contro Casa Savoia, sulla quale Giacomo Matteotti stava svolgendo delle proprie indagini. Fosse la prima o la seconda o la terza motivazione a segnare il destino di Matteotti, fosse un regalo o piuttosto uno sgarbo quello che il fascismo più estremo intese fare al suo capo, la vicenda segnò in ogni caso una svolta nella storia del Paese. Seguirà un autunno di precipitosa involuzione per il fascismo, isolato in Parlamento e screditato agli occhi dell’opinione pubblica. Però i partiti dell’opposizione non seppero approfittarne, si limitarono a ritirarsi dal Parlamento in segno di protesta... in pratica, furono loro a consegnare l’Italia ai fascisti!

L’instaurazione del regime in senso stretto si registrerà ufficialmente nell’aula parlamentare ad inizio 1925 col «discorso del 3 gennaio», dopo che 33 comandanti della Milizia avranno imposto al Capo del Governo l’aut-aut: o il ritiro del proprio appoggio, in altri termini il tramonto del fascismo come esperienza politica, o una soluzione di forza che facesse uscire partito e Paese dalla crisi; l’episodio è passato alla Storia come il «pronunciamento dei consoli». La dittatura, di fatto decollata a seguito dei falliti attentati alla vita di Mussolini nel 1926, sarebbe tuttavia rimasta lettera morta se tanto il Sovrano che il Parlamento (fascista ancora solo in minoranza) non avessero dato disco verde a quell’ondata di decreti-legge con cui l’Italia si avviò verso una graduale ma decisa «fascistizzazione».


Note

1 I primi fascisti, ossia le Fiamme Nere, gli Arditi, nacquero da una costola dell’esercito nell’estate del 1917. In un’ansa ricca di vigneti dietro il cimitero del paese di Sdricca di Manzano, in provincia di Udine, appaiono ancor oggi alcuni fabbricati in rovina: uno di essi era il quartier generale del corpo degli Arditi. Una lapide, ormai pressoché invisibile, così recita: «In questa casa il 29 luglio 1917 vennero creati i primi reparti degli Arditi d’Italia, terrore del nemico, eroi di tutte le battaglie». Quello degli Arditi fu un corpo speciale di soldati volontari, comandati da ufficiali severi e formato con l’ausilio di detenuti che avevano accettato di farne parte. Il rigido addestramento avveniva nei prati e negli altipiani fra Sdricca, il fiume Natisone e il bosco adiacente, poi chiamato «bosco degli Arditi». Le fatiche alle quali gli Arditi venivano sottoposti erano tali, che molti preferirono piuttosto tornare nelle carceri da dove erano usciti; molti altri non tornarono in prigione né andarono a combattere, perché dilaniati dalle loro stesse armi durante il periodo di addestramento. Al termine di questo periodo, riforniti di bombe, munizioni e cognac, venivano spediti in prima linea, dove scaricavano la loro rabbia contro il nemico. Una piccola curiosità: abituali frequentatori, nel tempo libero, delle osterie, quand’era il turno di pagare era in uso tra gli Arditi mettere sul banco una bomba a mano, esplicito monito per il povero oste di turno a rinunciare al suo guadagno...
Fu a capo di un gruppo di Arditi che Gabriele D’Annunzio reagirà all’irresolutezza del Governo occupando Fiume il 12 settembre 1919. Per la popolazione fiumana, quasi tutta italiana, furono tempi di euforia mista a speranza; ma la cosiddetta «Reggenza del Quarnaro» durerà pochi mesi. Nel dicembre del 1920 la corazzata italiana Andrea Doria sparò un colpo di cannone contro il Palazzo del Governo: Roma, nel voler far rispettare i patti di Versailles anche quand’erano iniqui, inviò contro D’Annunzio alcune truppe dell’esercito. Il cosiddetto «Natale di sangue» (vi furono anche vittime civili, tra cui almeno un bambino) segnò lo sgombero dei mercenari dannunziani dalla città e la fine dell’avventura fiumana. Vi sarà molto di dannunziano nel bagaglio culturale e mottologico del fascismo: dal fatidico «eja eja alalà» («heia», parola greca usata anche in epoca successiva, durante le Crociate, e «alalàzo», antico grido di guerra ellenico) ad altri quali «Memento audere semper», «Iterum rudit leo» (motto della divisione San Marco durante la Repubblica Sociale Italiana), «Ardisco, non ordisco», «Alere flammam», fino ai più celebri «A noi!» in risposta alle retoriche domande pronunciate dal Vate ai suoi per la prima volta il 20 gennaio 1920 («A chi la forza? A chi la fedeltà? A chi la vittoria?»), «Me ne frego» (motto ricamato in ogni gagliardetto azzurro fiumano) e «Fiume o morte». Fiume fu annessa all’Italia solo nel 1924, col Trattato di Roma.

2 La Conferenza di Pace si aprì a Versailles nel gennaio 1919 con la partecipazione di 27 Nazioni e la costituzione di 52 Commissioni. Orlando guidò la delegazione italiana di cui facevano parte uomini di tutte le tendenze: Albertini, Amendola, Barzilai, Federzoni, Mussolini, Prezzolini, Salvemini e Sonnino. Il Trattato di Pace firmato il 28 giugno 1919 assegnò all’Italia il Trentino, l’Istria (ad eccezione di Fiume) e l’Alto Adige, ma non gli altri territori che pure le erano stati garantiti con la stipula del Patto di Londra.

3 Sul risentimento dei reduci, che darà l’apporto determinante al primo vagito del neonato movimento dei Fasci, si possono riportare brevi passi di alcuni discorsi di Mussolini. «Chi tenterà di sciogliervi? Si scioglierà il ricordo e l’impeto vostro sul Piave? Si butteranno in un angolo le vostre gesta contro i reticolati? Si potrà, per decreto, dimenticare o disconoscere le vostre imprese? Nessuno oserà buttarvi come limoni spremuti dopo avervi chiesto ed avere avuto tutto il vostro sangue...» (Trieste, discorso agli Arditi, 21 dicembre 1918). «I parassiti della guerra dovranno cedervi il passo. E se in Italia quelli che non hanno combattuto ora si agitano per arraffare quanto voi avete il diritto di avere, io e voi glielo impediremo...» (Trieste, discorso ai bersaglieri, 21 dicembre 1918). «Se le classi dirigenti chiudessero le porte in faccia ai combattenti, vi garantisco che quello che resta della vecchia Italia sarà sparito per sempre. Noi abbiamo sanguinato, noi abbiamo sofferto, mentre alcuni ridevano e si imboscavano...» (Livorno, teatro Politeama, 29 dicembre 1918). «Sarebbe odioso e bolscevico negare il riconoscimento dei diritti di chi ha fatto la guerra. Bisogna perciò accettare i postulati delle classi lavoratrici. Vogliono le 8 ore? Le pensioni di invalidità e di vecchiaia? Il controllo sulle industrie? Noi appoggeremo queste richieste... C’è una crisi che balza agli occhi di tutti. Abbiamo sentito durante la guerra l’insufficienza della gente che ci governa, e sappiamo che si è vinto per le sole virtù del popolo italiano, non già per l’intelligenza e la capacità dei dirigenti... Siamo noi che abbiamo il diritto alla successione, perché fummo noi che spingemmo il Paese alla guerra e lo conducemmo alla vittoria...» (Milano, Piazza San Sepolcro, 23 marzo 1919).

(maggio 2018)

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