Risorgimento e fascismo
Momenti essenziali di storia italiana: riflessioni in controluce

Antonio Gramsci, nella sua esegesi del Risorgimento, vi avrebbe ravvisato una connotazione rivoluzionaria sia pure parziale, tanto più degna di nota perché indipendente da una vera e propria rivoluzione: il cammino verso lo Stato nazionale fu opera dei moderati, che seppero indirizzare verso un obiettivo conservatore anche il contributo, pur notevole, del progressismo mazziniano. Dal canto suo, Benedetto Croce si spinse più avanti, ponendo in luce come quel periodo della storia d’Italia non fosse stato «il» Risorgimento, bensì un vero e proprio «sorgimento» maturato «ex novo»: in effetti, esisteva una tradizione culturale unitaria, presente nei versi di Dante, consolidata nel Rinascimento e confermata nella grande letteratura romantica, ma l’unità politica – dalla fine dell’Impero Romano in poi – era stata, al massimo, una nobile utopia. Senza dire che la stessa «romanità» aveva avuto un carattere universale, giammai «italiano».

In entrambe le concezioni non è azzardato cogliere un «fumus» di obiettiva aderenza a quella che Machiavelli avrebbe definito «realtà effettuale». La contraddizione è solo apparente, perché il Risorgimento ebbe una valenza politicamente complessa, ma nello stesso tempo ben lungi da un’autentica partecipazione popolare, anche se i plebisciti del 1861 e più tardi quelli per l’annessione del Veneto e dello Stato Pontificio videro il successo delle soluzioni unitarie con percentuali «bulgare» (solo in Toscana, e particolarmente a Firenze, si ebbe una quota ragguardevole di suffragi per il Granducato).

Molte simpatie delle classi inferiori erano rivolte alla difesa dell’Antico Regime e della sua storica alleanza con l’Altare: si era già visto in parecchie occasioni, dal 1799 in poi, come la pregiudiziale sanfedista fosse indotta da un «Volksgeist» saldamente e ampiamente diffuso, e la conferma sopravvenne con tutta evidenza durante la repressione del movimento legittimista nel Mezzogiorno, che dal 1861 avrebbe impegnato il nuovo Stato unitario in una sanguinosa lotta decennale contro i cosiddetti «briganti» costata, in termini di vite umane, più delle tre guerre d’indipendenza combattute nel Risorgimento, globalmente considerate.

Le stesse classi superiori vissero l’esperienza del Risorgimento in modo spesso antitetico. La pregiudiziale rivoluzionaria di Carlo Pisacane aveva ben poco in comune con l’idea del «Primato» di Vincenzo Gioberti e con le nobili «Speranze» di Cesare Balbo; del pari, l’«ethos» mazziniano, unitario e repubblicano, poteva coniugarsi solo marginalmente con la concezione federalista del Cattaneo. Caso mai, fu il genio politico di Cavour, espressione della borghesia illuminata piemontese, rigidamente monarchica, a «contemperare» tutte quelle opinioni, come avrebbe detto Giovanni Botero nella sua teoria della ragion di Stato, in una sintesi eclettica quanto si vuole, ma improntata a realismo intelligente e lungimirante.

Il Risorgimento, soprattutto nella sua fase conclusiva, non andò troppo per il sottile. In Toscana, terra di antica civiltà che non a caso era stata la prima a cancellare la pena di morte dal suo ordinamento ben prima del 1789, il passaggio dei poteri ebbe luogo senza colpo ferire, grazie al senso politico di Leopoldo II che avrebbe ordinato di non sparare e di preparare la carrozza che lo condusse in esilio, tanto che a mezzogiorno, come racconta il suo cronista Raffaello Lambruschini, «la rivoluzione andò a desinare». Fu un’eccezione, perché altrove si ebbero lacrime e sangue: da una parte, sui campi di battaglia di Solferino e San Martino e più tardi su quelli di Custoza e Bezzecca o nelle acque di Lissa, e dall’altra nelle stragi perpetrate indifferentemente da garibaldini e Piemontesi durante la guerra contro il Regno delle Due Sicilie. In proposito, si pensi a taluni episodi efferati come quelli di Bronte, di Casalduni e di Civitella del Tronto, dove si consumò, dopo la caduta di Gaeta, l’ultima resistenza di Francesco II e dell’intrepida Maria Sofia.

Un deputato liberale come Giuseppe Ferrari, non certo sospettabile di simpatie borboniche, in un discorso pronunciato al Parlamento Subalpino nel novembre 1863 – quando il Regno d’Italia era stato proclamato da un triennio – non aveva parlato a caso nel momento in cui disse senza mezzi termini che i legittimisti meridionali combattevano «sotto la propria bandiera nazionale» e che pur potendoli chiamare «briganti» per il loro comportamento insurrezionale, non si doveva dimenticare che in poche migliaia tenevano testa a «un esercito regolare di 120.000 uomini» capace di radere al suolo «una città di 5.000 abitanti» (era accaduto a Pontelandolfo il 13 agosto 1861). A più forte ragione, non aveva avuto torto il premier britannico Benjamin Disraeli nel dichiarare alla Camera dei Comuni quanto fosse equivoco definire gli insorti polacchi alla stregua di patrioti, e bollare con l’epiteto di banditi quelli del Mezzogiorno Italiano.

Alcuni decenni più tardi, Giustino Fortunato avrebbe scritto che nel 1860 il Regno delle Due Sicilie era stato «in floridissime condizioni» (senza aggiungere che poteva contare sulla coscrizione volontaria, il divorzio e un sistema fiscale non vessatorio), ma che il regime unitario aveva finito per vanificare ogni potenzialità di sviluppo economico «sano e profittevole».

Va aggiunto che il Risorgimento ebbe la possibilità di conseguire il suo massimo obiettivo, quello dell’Unità Nazionale, grazie alla congiuntura politica internazionale e all’indubbia capacità del Conte di Cavour di volgerla a suo favore nel «decennio di preparazione» e nelle vicende decisive del 1859. Si può dire altrettanto per l’acquisizione del Veneto grazie all’alleanza con la Prussia nella guerra del 1866 contro l’Austria, e a più forte ragione per quella di Roma, sopravvenuta quasi inopinatamente nel 1870, approfittando della disfatta di Napoleone III a Sédan e della conseguente perdita, da parte dello Stato Pontificio, del suo massimo protettore; tra l’altro, nemmeno quella fu una passeggiata militare, perché i bersaglieri impiegarono dieci giorni per raggiungere Porta Pia dopo avere forzato il confine in agro di Orte.

In buona sostanza, il Risorgimento fu opera di una minoranza ristretta, sebbene animata da grandi ideali sia pure contraddittori. Le masse non furono coinvolte se non marginalmente nel processo unitario, che avrebbe compiuto progressi importanti con le grandi lotte sociali dei decenni successivi (culminate nelle repressioni del 1894 in Lunigiana o del 1898 nella stessa Milano, complici i cannoni di Fiorenzo Bava Beccaris); e nello stesso tempo, con l’esperienza delle guerre africane di Abissinia e di Libia, a loro volta impopolari ma capaci di creare nuovi vincoli di solidarietà tra soldati provenienti da tutte le regioni.

Ebbero un ruolo psicologicamente rilevante, poi, le pregiudiziali dell’irredentismo democratico contro l’innaturale alleanza della Triplice, il regicidio di Monza che provocò una notevole ondata di «solidarismo» moderato, e soprattutto, la tragedia del grande terremoto di Messina e di Reggio Calabria. Infatti, il terribile sisma del 1908 fece compiere al senso unitario del popolo italiano un balzo di grande ampiezza (cui avrebbe dato un contributo non marginale la stessa Austria, quando si seppe che il suo Stato Maggiore avrebbe voluto approfittare della circostanza per «liquidare» l’Italia, i cui «giri di valzer» con le Potenze Occidentali non erano naturalmente graditi).

Un altro apporto alla maturazione dell’idea di unità come valore umano e sociale, ancor prima che civile e culturale, venne dalle trincee della Grande Guerra, dove si trovarono affratellati davanti all’interminabile strage milioni di giovani, sia settentrionali sia meridionali. Nelle classi superiori – in primo luogo tra gli ufficiali – il Conflitto Mondiale fu vissuto come ultimo atto del Risorgimento, sia per l’obiettivo di affrancare Trento e Trieste dal dominio austriaco, sia per la lotta contro il pervicace assolutismo degli Imperi Centrali. Questo carattere anacronistico era stato tristemente simboleggiato dalle forche su cui si erano immolati Cesare Battisti, Nazario Sauro e tanti altri patrioti, a cominciare da Guglielmo Oberdan che li aveva preceduti nel 1882, vittima di un processo alle intenzioni ma soprattutto della protesta contro un’alleanza che molti ritenevano inammissibile. Nelle classi inferiori, invece, non poteva ancora esistere con piena consapevolezza una sensibilità analoga, che peraltro si sarebbe manifestata piuttosto rapidamente anche alla luce della promessa di «terra ai contadini» (poi disattesa), che costituivano un’ampia maggioranza delle forze combattenti.

Il sole di Vittorio Veneto, autentico «momento magico» nella storia italiana del Novecento, parve coinvolgere tutti in un unico abbraccio, il cui corollario sarebbe stato, di lì a breve, l’impresa fiumana compiuta da Gabriele d’Annunzio nel 1919. Non a caso, la «Marcia di Ronchi» era destinata a determinare, anche per la collaborazione decisiva di Alceste De Ambris e del movimento sindacalista rivoluzionario, un passaggio importante per l’idea di una «Grande Italia» etica ancor prima che politica, e socialmente molto aperta, come attesta la Carta del Carnaro, vale a dire una Costituzione talmente avanzata da avere attirato attenzioni non formali anche da parte della giovane Russia Sovietica. La frattura con l’Italia ufficiale, drammaticamente espressa dal «Natale di Sangue» del 1920, avrebbe dimostrato che non era più tempo di alchimie politiche ma che era giunto il momento di saldare i valori più importanti di un Risorgimento finalmente condiviso, con quelli di un nuovo universalismo, non già in senso conservatore, ma in una prospettiva sociale, corroborata sul piano etico da una bene accetta saldatura tra il forte agire e il nobile sentire.

Sulle origini del Fascismo e sulla sua conquista del potere esiste una letteratura sterminata. Qui, basti porre in evidenza che la sua continuità ideale col Risorgimento, richiamata sia pure parzialmente dalla stessa storiografia fascista, appare relativa, anche se mette in luce talune affinità sostanzialmente ovvie, come il comune sentimento nazionale, il forte impegno unitario e le pregiudiziali patriottiche: valori anticipati proprio dal Risorgimento, ma condivisi da una larga maggioranza – almeno apparentemente – soltanto col Fascismo, coniugandosi al vecchio mito della «politica di potenza» (tradotto nelle diverse proposizioni coloniali «attiviste» di fine Ottocento e inizio Novecento, da Francesco Crispi a Giovanni Giolitti, in parziale antitesi a quelle «moderate» di Pasquale Stanislao Mancini, Gerolamo Boccardo e Leopoldo Franchetti).

In effetti, il Risorgimento non ebbe carattere diffusamente popolare, se non altro per la presenza di una cospicua opposizione cattolica, mentre il Fascismo ha avuto quello di un vero e proprio fenomeno di massa, soprattutto negli «anni del consenso» antecedenti l’approvazione delle leggi razziali. Nello stesso tempo, non va dimenticato che il Governo Mussolini aveva saputo chiudere il contenzioso col Vaticano dopo il lungo sessantennio (1870-1929) in cui il Tevere era stato «più largo», pur con progressivi addolcimenti delle pregiudiziali di Pio IX, e aveva interpretato un auspicio sempre presente nel cuore dei Cattolici, vale a dire nella stragrande maggioranza dei cittadini.

C’è di più. L’avvento dello «Stato forte» era stato salutato, già nel 1922, come una difesa della libertà e della sicurezza nei confronti delle forze sovversive o presunte tali, e di un fatale disastro economico; e aveva guadagnato ampie adesioni nelle classi superiori e nella borghesia ma anche nel proletariato, grazie a provvidenze sociali innovative, tra cui l’istituzione della previdenza obbligatoria, l’assicurazione antinfortunistica, l’assistenza alle giovani madri, il progressivo azzeramento dell’emigrazione e le politiche di sviluppo agricolo e industriale culminate nelle grandi bonifiche dell’Agro Pontino, dell’Alto Campidano e della Capitanata, nella realizzazione dell’Acquedotto Pugliese e di quello Istriano, nella costituzione dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale e nel progetto rapidamente realizzato, come ha ricordato Antonio Pennacchi, di ben 147 «città di fondazione». Da questo punto di vista il divario nei confronti dell’Italia liberale scaturita dal Risorgimento è di tutta evidenza.

In politica estera, il Fascismo aveva assunto un atteggiamento assai concreto, impegnandosi militarmente nella riconquista integrale della Libia, dove la presenza italiana si era ridotta ai maggiori centri rivieraschi; nella ricerca del «posto al sole» in Abissinia cui seguirono, non tanto paradossalmente, adesioni convinte anche da parte di precedenti oppositori, a seguito delle sanzioni internazionali comminate all’Italia che aveva risposto con la «Giornata della fede»; e nella partecipazione alla guerra di Spagna in supporto alle forze cattoliche di Franco, cui andavano simpatie largamente maggioritarie se non altro alla luce delle persecuzioni promosse dai «rossi» nei confronti di sacerdoti e suore, e ampiamente documentate dagli strumenti di comunicazione dell’epoca.

Nei riguardi della Jugoslavia, dopo le tensioni legate alla lotta contro il terrorismo di Orjuna e Tigr, le associazioni segrete che erano state particolarmente attive fino all’inizio degli anni Trenta, si avviarono relazioni di buon vicinato culminate nell’accordo di amicizia del 1937. La Dalmazia, dopo la sostanziale cancellazione del Patto di Londra nel trattato di pace del 1919, e confermata nelle successive appendici di Rapallo e di Roma, era rimasta irredenta. Tuttavia, le relazioni fra Roma e Belgrado fecero registrare un notevole miglioramento proprio negli anni di massimo consenso al Fascismo (non solo sul territorio nazionale) quasi a confermare il ripristino di una continuità etica e politica non tanto col Risorgimento quanto con la parte mazziniana che aveva promosso nuovi rapporti di collaborazione anche nell’ambito balcanico.

Conviene aggiungere che la politica di «entente cordiale» con la Jugoslavia era stata impostata su basi realistiche di reciproco interesse, tanto è vero che sopravvisse per venti mesi allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e per circa dieci alla presenza dell’Italia che al pari di quelle tedesca, bulgara e ungherese venne imposta, nella primavera del 1941, dal colpo di Stato di Belgrado ispirato dalla Gran Bretagna, e dal subitaneo rovesciamento della precedente alleanza con l’Asse: un fattore spesso ignorato anche a livello storiografico quando si parla delle ragioni che diedero luogo a un’estensione del conflitto tatticamente necessaria ma strategicamente pregiudizievole.

In buona sostanza, il Fascismo, che più tardi Benedetto Croce avrebbe liquidato frettolosamente come una «parentesi» nella storia d’Italia se non addirittura come un incidente di percorso, costituì un fenomeno innovativo, proprio perché ebbe la capacità di coniugare politica e partecipazione, senza nemmeno ricorrere a strumenti costrittivi, ma approfittando di consensi in buona parte spontanei.

Almeno in parte, i reduci avevano avuto la terra, sia pure a riscatto; l’informazione era diventata capillare grazie a radiodiffusioni e cinegiornali; la cultura e l’educazione nazionale avevano fatto registrare un progresso di forte valenza collettiva con la riforma scolastica di Gentile, il progressivo abbattimento dell’analfabetismo e a più alto livello, con il programma della grande Enciclopedia e l’istituzione dell’Accademia. Non mancarono grandi successi sportivi, tra cui due vittorie nei campionati mondiali di calcio, e a livello d’immagine, il trionfo della trasvolata atlantica di Balbo, il genio di Guglielmo Marconi, il monolite della Farnesina e i marmi del Foro Italico. Nonostante le sovrastrutture burocratiche e una facile retorica, il Fascismo parve realizzare il grande sogno «universale» di Berto Ricci e porsi come paradigma di riferimento anche altrove, suscitando forti simpatie non soltanto in Germania ma persino in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, destinate ad aumentare in occasione degli eventi che attestavano la forza vitale della «giovane» Italia, e quando Mussolini parve ergersi a difensore della pace, come accadde a Monaco in occasione della cosiddetta crisi dei Sudeti.

Nello stesso modo indubbiamente rapido con cui era stato guadagnato, il consenso al Fascismo fu perduto: non già per le leggi razziali, che pure avevano suscitato vivaci proteste da parte dello stesso Balbo o del Maresciallo De Bono, quanto per le sorti sfavorevoli della guerra, dichiarata a Francia e Gran Bretagna il 10 giugno 1940, e più tardi, anche all’Unione Sovietica e agli Stati Uniti.

Le cause della sconfitta furono parecchie, spaziando dall’impreparazione militare all’ipotesi drammaticamente sbagliata che la guerra fosse vinta a priori; dal tradimento che coinvolse alcuni alti comandi agli errori strategici tra cui quello dell’intempestivo attacco alla Grecia; dal passaggio di campo compiuto in modo tragicamente farsesco nel 1943 all’incapacità di programmare una difesa razionale del territorio, al contrario di quanto era accaduto nel 1917. In effetti, l’8 settembre il Fascismo era già caduto da un mese e mezzo per opera dello stesso Gran Consiglio e della Monarchia Sabauda, anche se avrebbe trovato la forza di risorgere dalle proprie ceneri con la proclamazione della Repubblica Sociale Italiana, di poco successiva: una sorta di crepuscolo degli dèi in cui trovarono spazio parecchi atti di eroismo per la difesa dell’onore tanto più significativi, essendo evidente come la partita fosse perduta, e nello stesso tempo tanto più tragici, perché negli ultimi venti mesi la guerra, ormai senza pietà, fu combattuta in primo luogo fra Italiani.

Come durante il Risorgimento, la partecipazione fu limitata, sia da una parte sia dall’altra, lasciando spazi di grande ampiezza all’ipotesi attendista, che peraltro, secondo una logica evidente, non era immune da pericoli. La Repubblica Sociale, supportata della Wehrmacht, ebbe la possibilità di contare su parecchi fascisti di saldi convincimenti e di fedeltà alle origini. Dal canto suo, la Resistenza, le cui forze furono costituite in larga maggioranza dai partigiani comunisti, non mancò di evidenziare il suo riferimento alle battaglie risorgimentali, sia pure con ovvie forzature (le guerre d’indipendenza non avevano avuto carattere fratricida essendo state combattute contro il nemico straniero, mentre quella contro i «briganti» non aveva mai avuto il contenuto sociale cui i paladini della Resistenza medesima, invece, si erano dichiaratamente ispirati).

A proposito di fatti d’arme, conviene porre in luce che le «guerre del Duce», sebbene decisive in senso negativo per i destini nazionali, furono in numero minoritario fra quelle che vennero combattute dal Risorgimento in poi. A parte le tre guerre d’indipendenza contro l’Austria, l’Italia liberale aveva dovuto impegnarsi nella lunga repressione dei conati legittimisti nel Mezzogiorno, nell’attacco allo Stato Pontificio (particolarmente difficile sul piano diplomatico) e più tardi nelle guerre «africaniste» di Abissinia e di Libia, senza dire, naturalmente, del Primo Conflitto Mondiale e del codicillo fiumano, quando il Governo Giolitti non esitò ad aprire il fuoco contro il piccolo esercito legionario. Il Fascismo, dal canto suo, volle battersi «soltanto» nella nuova guerra d’Etiopia, in quella di Spagna e nella Seconda Guerra Mondiale, sia pure in un periodo relativamente più breve, mentre il Regno del Sud trovò il modo, nell’ottobre 1943, di rivolgere le armi contro quella stessa Germania al cui fianco, meno di tre mesi prima, il Maresciallo Badoglio aveva dichiarato di voler continuare a combattere.

La crisi determinata dall’8 settembre e dalla guerra civile ha avuto conseguenze durature, i cui effetti tardivi si scontano, per taluni aspetti, ancora oggi. Il progressivo sviluppo di malgoverno, corruzione, consumismo materialista e relativismo sempre più diffuso, per non dire degli episodi di alto tradimento nei confronti dell’unità nazionale come quello avutosi col trattato di Osimo nel 1975, se non anche nei confronti della Costituzione repubblicana, come è accaduto con gli interventi in Iraq o in Afghanistan, provengono dall’affievolimento del senso dello Stato, o meglio dall’annullamento del suo «ethos» e dal trionfo ormai incontrastato del «particulare» teorizzato da Francesco Guicciardini. L’Italia sembra tornata, anche per talune suggestioni regionalistiche o municipalistiche, quella che apparve al principe di Metternich nei tempi difficili della Restaurazione e della Santa Alleanza: una semplice «espressione geografica». Persino il Governo di centro-destra uscito dalle elezioni del 25 settembre 2022 non è stato immune da tali suggestioni, nel momento in cui ha ipotizzato correttivi costituzionali orientati a promuovere talune diversificazioni normative nell’ambito regionale.

Il Fascismo produsse uno sforzo a tratti ciclopico, rivolto a completare il processo unitario e «fare» veramente gli Italiani secondo il vecchio auspicio di Massimo d’Azeglio, che peraltro è rimasto sulla carta, ma il grande consenso raccolto soprattutto nella prima metà degli anni Trenta non è stato sufficiente. Infatti, la mancanza di una tradizione nazionale consolidata nei secoli, diversamente da quella presente in altri grandi Stati Europei, ha innescato un poderoso ritorno dell’individualismo, prima ancora di talune «crisi di coscienza» in campo militare e della perdita di fiducia nello stellone tradizionale. Come avrebbe detto amaramente lo stesso Duce alla fine del suo percorso umano e politico, governare gli Italiani «non è difficile ma inutile»: aforisma di sicuro effetto ma tanto più tragico, e in qualche misura sorprendente, perché sembra contraddire in modo icastico un principio essenziale di dottrina dello Stato; a più forte ragione, di quello fascista.

Secondo il Poeta, «l’antiquo valore negli italici cor non è ancor morto», ma oggi l’assunto conserva un «fumus» di validità oggettiva soltanto per una minoranza sia pure importante, e completa una catarsi che riporta alle condizioni borghesi del Risorgimento, sebbene con taluni caratteri «in pejus» perché manca lo sprone a perseguire obiettivi talvolta strumentali ma nello stesso tempo moralmente e politicamente qualificanti come quello dell’unità; e perché l’impegno di conoscere il passato per preparare il futuro, a prescindere dalle ricorrenti celebrazioni, si coniuga con una cultura avulsa dalla fede, e quindi da una «lieta speranza». Il cammino è lungo e la meta lontana, ma la linea del possibile, come da felice ipotesi di Benedetto Croce, può ancora spostarsi «grazie alla forza inventrice di una volontà che veramente vuole».

(gennaio 2019; ripubblicato: ottobre 2023)

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