Niccolò Giani
Un patriota idealista nel segno dello Stato etico

La scienza politica contemporanea ha teorizzato un divario quanto mai profondo fra lo Stato di diritto e lo Stato etico, con una tesi che non può essere oggetto di piena condivisione, sia sul piano filosofico, sia su quello politico: oggi, al contrario, c’è bisogno di un forte supporto morale proprio per lo Stato di diritto, che deve affidarsi a valori «universali» per essere davvero credibile, e per assicurarsi la convinta collaborazione di tutti, necessaria anche dal punto di vista della funzionalità tecnica.

Del resto, la moralità della politica, su cui s’insiste sistematicamente anche ai nostri giorni, costituisce un referente fondamentale del pensiero contemporaneo, e non soltanto di quello cosiddetto «unico». In altri termini, la politica intesa come arte di operare al servizio del bene comune non deve o non dovrebbe essere difforme dall’«ethos»: in fondo, lo stesso Machiavelli, ben lungi dal sostenere l’immoralità della politica come si è talvolta ritenuto, aveva teorizzato la sua indipendenza dall’etica tradizionale non già in assoluto, bensì nel momento in cui ciò fosse diventato necessario per garantire la «salvezza» dello Stato.

Certamente, la politica contemporanea non è condizionata dall’etica «tamquam a subalternante» come si era voluto affermare nel pensiero cattolico medievale, perché deve garantire lo stesso diritto anche a quelle che Benedetto Croce aveva definito «fedi opposte» (non soltanto in senso religioso), riconoscendo la dignità fondamentale di ogni persona umana nei suoi valori inalienabili di eguaglianza e di fratellanza, garantiti non già dalle rivoluzioni di varia estrazione ideologica e geografica, ma dai principi del giusnaturalismo moderno.

Questa premessa era necessaria per comprendere compiutamente il pensiero e l’opera di Niccolò Giani[1], Medaglia d’Oro al Valore, caduto sul fronte greco-albanese nell’ormai lontano 1941, appartenente all’eletta schiera degli Italiani che in epoche diverse hanno meritato la massima onorificenza militare. Uomo di vasta cultura, giornalista di rango, tenente degli Alpini, combattente per l’Idea, aveva fatto della Patria la ragione prioritaria di vita, perché credeva, per l’appunto, nel carattere etico di uno Stato con cui andava a fondersi, sulle orme di Giovanni Gentile, l’identità della Nazione, nell’ambito di una sinergia spirituale e funzionale davvero «assoluta».

L’epoca contemporanea è governata dal relativismo, o peggio ancora, dal perseguimento di effimeri interessi contingenti, anche ad alti livelli politici. Ecco una buona ragione in più, per rammentare ai troppi immemori chi, come Giani, è stato capace di inserire i valori morali nella necessaria struttura giuridica, in un quadro di concezione quasi religiosa dello Stato, attento alle esigenze sociali, all’educazione scolastica, e soprattutto, al primato della coscienza.

Giani fu consapevole sostenitore del fascismo, tanto da assumere la prima cattedra universitaria della sua dottrina etica e pratica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pavia, ma nello stesso tempo, pervicacemente e fortemente critico nei confronti di una gerarchia arrivista e carrierista che aveva trasformato in regime un movimento di forte valenza ideologica, condivisa anche a livello popolare. Nella realtà, il «fascismo» di Giani, lungi da ogni forma di arrivismo, ebbe connotazioni «mistiche» assumendo taluni atteggiamenti quasi metafisici, col risultato di farne un personaggio pressoché emarginato: motivazione non ultima del suo ricorrente volontariato e della sua fine prematura. In effetti, non diede peso alle impertinenti accuse di fanatismo che gli erano state rivolte, e fu sempre pronto a battersi in prima linea, come sul fronte etiopico nel 1936, su quello francese nel 1940, e infine su quello greco-albanese, dove si sarebbe immolato nell’anno successivo, in età ancora giovanile.

Fu certamente legato agli ideali «non negoziabili» delle origini, maturati in opposizione a quelli del materialismo storico, ma nello stesso tempo, consapevole di appartenere alla minoranza eletta di cui fecero parte, fra gli altri, Guido Pallotta, Ottone Rosai e Berto Ricci: quest’ultimo, autentico vessillifero del cosiddetto fascismo «universale», anch’egli caduto in Africa da volontario, e quindi, unito a Giani da un destino tristemente analogo.

Quella di Niccolò costituisce un’esperienza che sembra lontana anni-luce dalla sensibilità contemporanea, ma consente di leggere in un’ottica non convenzionale, e staremmo per dire autentica, chi volle schierarsi dalla parte che poi sarebbe stata detta «sbagliata», facendolo senza proposizioni avversative o dubitative; e nello stesso tempo, perché mette in luce la volontà di tenere alta la bandiera nella tranquilla consapevolezza che la storia non finisce oggi, ma che può cominciare domani.

In effetti, secondo un grande pensatore italiano quale Giambattista Vico, il mondo procede per corsi e ricorsi, seguendo un andamento ciclico in evoluzione mediamente positiva: alle epoche di crisi etica e politica, caratterizzate dalla ferinità e dalla degenerazione nel lusso esteriore, se non anche nelle violenze di ogni genere, seguono quelle di consapevolezza e di ripresa. Proprio per questo, non si deve mai disperare: c’è sempre una Provvidenza che vede e che decide quando e dove intervenire, ma l’uomo è chiamato a collaborare per quanto di sua competenza, con fede sicura e costante impegno, come nel caso di Giani.

Molti anni or sono fu impedita l’intitolazione di una strada di Muggia, città nativa di Niccolò, alla memoria del caduto, alla luce di pregiudiziali degne di miglior causa. Ebbene, se non altro per un senso di giustizia oggettiva è congruo confermare che non è più tempo di logomachie davvero anacronistiche, ma di una reale ed effettiva riconciliazione capace di comprendere, e per quanto possibile di apprezzare, in specie da parte dei vincitori, le cosiddette scelte sbagliate, se assistite, come nella fattispecie, dalla buona fede e da un alto senso dell’onore.

Va da sé che il giudizio su Niccolò Giani non può prescindere dallo spirito del tempo e da una congiuntura politica in cui esistevano il colonialismo e lo sfruttamento dei popoli oppressi, spesso in misura ben più coercitiva di quanto accadesse nelle loro versioni «all’italiana». Ciò non significa che quel giudizio non debba essere attualizzato, sulla scorta degli insegnamenti di Benedetto Croce, per trarne l’essenziale, valido ieri, oggi e domani: la capacità di sacrificio per il bene collettivo, l’impegno per la cooperazione, la forza decisiva della volontà, la coerenza cristallina, l’amore per la famiglia e per l’Italia quale «Madre benigna e pia» di petrarchesca memoria.

Del resto, bisogna pur dire che l’assunto di Giani in difesa delle colonie e persino della razza, ancora lontano dalla sensibilità egualitaria della nostra epoca, non costituì un fenomeno isolato: al contrario, ebbe una diffusione quasi generalizzata, tanto da trovare frequenti supporti nel pensiero di chi, in tempi successivi, sarebbe diventato paladino della democrazia, della libertà, e spesso e volentieri, anche del comunismo. Tra gli altri, furono razzisti, come attestano le loro affermazioni consegnate alla memoria storica, Giorgio Bocca ed Eugenio Scalfari, che poi diedero un permanente ostracismo a Giani, incuranti dei loro trascorsi; per non dire di Amintore Fanfani, Aldo Moro, di tanti altri politici «democratici» e persino di Padre Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica di Milano. Ebbene, è spontaneo chiedersi come mai tutti costoro, parte minoritaria di un autorevole e lungo elenco trasformista, abbiano potuto evolvere rapidamente verso concezioni democratiche (non senza suggestioni marxiste o populiste) senza fare ammenda del «giovenile errore», mentre Giani, che aveva avuto il grave torto di cadere per la Patria, è rimasto nel novero dei reprobi fino alla consumazione dei secoli.

Niccolò era persona di grande levatura etica e di riconosciuta onestà intellettuale, per cui non sarebbe oggettivamente infondato fargli credito sia pure teorico di possibili aggiornamenti successivi del suo pensiero, soprattutto in materia di razza, fermi restando, ben s’intende, l’amore per l’Italia e l’adesione ai valori di un sano patriottismo.

Ciò, senza dire che le suggestioni razziste non furono certamente limitate all’esperienza del fascismo e del nazionalsocialismo. L’antisemitismo sovietico è stato un fenomeno altrettanto diffuso, sebbene edulcorato dalla vittoria e dal verbo anticlassista, mentre la persecuzione dei popoli oppressi da parte delle Potenze coloniali, come fu riconosciuto da diversi politologi, indusse nei comportamenti di Francia, Gran Bretagna, Belgio, e di altre Potenze coloniali, prassi spesso nefande, assai peggiori di quella italiana, cui non furono estranei, al contrario, importanti momenti umanitari riconosciuti dalle stesse controparti, e contributi non certo marginali alla civilizzazione e allo sviluppo. Basti pensare, fra i tanti, ai grandi nomi del Cardinale Guglielmo Massaja[2], del sociologo Leone Carpi[3], del Ministro degli Esteri Pasquale Stanislao Mancini[4] e dell’Onorevole Leopoldo Franchetti; quest’ultimo, con un concreto intervento di colonizzazione agraria in terra d’Africa che all’epoca fece scuola, anche per il contributo portato all’occupazione, e quindi, al progresso civile della colonia[5].

In tale ottica, decorso oltre un ottantennio dalla sua scomparsa, non ha molto senso attuale conferire a Giani l’etichetta razzista, con un marchio negativo risparmiato a una pletora di convertiti, ignorando il suo impegno come persona di grande cultura, come importante giornalista e «opinion maker», e soprattutto, come paladino di quei valori perenni che oggi si vorrebbe frettolosamente sopprimere (tanto da avere indotto, già da molto tempo, la depenalizzazione di reati come l’alto tradimento e l’oltraggio alla bandiera, diventato un semplice illecito amministrativo sanzionabile con multa).

Nonostante le strozzature indotte dal regime in cui visse la sua esperienza etica e politica, assieme agli obblighi che ne derivavano, Giani ebbe il dono di uno spirito indipendente, e quello di una generosa ecceità che non fu estranea al conferimento delle tre Medaglie al Valore, in un crescendo non casuale fino a quella d’Oro, riconosciutagli dopo l’estremo sacrificio nel Secondo Conflitto Mondiale. Non si può ragionevolmente credere che avesse cercato la «bella morte» (ben prima di quanto accadde a non pochi combattenti durante l’effimera ma coinvolgente stagione della Repubblica Sociale Italiana), e tuttavia si può pensare altrettanto ragionevolmente che l’avesse messa lucidamente in conto, nella sicura consapevolezza del «vir bonus cum mala fortuna compositus» di cui alla filosofia di Seneca.

Si afferma spesso che i giovani d’oggi non hanno ideali, e che si rifugiano in uno sterile materialismo edonista, fonte di tante rovine. Purtroppo, si tratta di una triste verità, ma la conoscenza di uomini come Niccolò Giani e del loro esempio di vita – che con gli aggiornamenti del caso rimane di notevole attualità morale e di forti contenuti prescrittivi – può essere un buon antidoto, inducendo un invito alla riflessione, e quindi, un ripensamento costruttivo.


Note

1 Niccolò Giani (1909-1941), dopo l’infanzia nella nativa Muggia e i primi studi compiuti a Trieste fino alla maturità, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Milano, dove conseguì la laurea nel 1931, all’età di 22 anni, per diventare – subito dopo – Direttore della Scuola di Mistica Fascista. Tre anni più tardi, dopo avere conseguito la docenza in Diritto del Lavoro, ebbe la prima cattedra di Storia e Dottrina Fascista a Pavia, e nel 1935 convolò a nozze con la compagna della sua vita, Maria Rosa Sampietro. Poco dopo partì per l’Etiopia come volontario, combattendo nelle file del CXXVIII Battaglione «Camicie Nere», dove fu insignito della Medaglia di Bronzo al Valor Militare. Rientrato nel 1936 dopo la fine delle operazioni militari africane, riprese la guida della Scuola e del suo organo ufficiale «Dottrina Fascista», cui fece seguito la direzione del quotidiano varesino «Cronaca Prealpina» quadruplicandone rapidamente la tiratura. Nello stesso tempo, curò la stampa del Decalogo dell’Italiano Nuovo facendo professione di «razzismo spirituale» ma non «biologico» e prendendo le dovute distanze da quello tedesco, di tutt’altra estrazione. Nel febbraio del 1940, quando l’Italia era ancora «non belligerante» nel nuovo Conflitto Mondiale, prese parte quale protagonista al Primo Convegno Nazionale di Mistica Fascista, che sarebbe stato anche l’ultimo e che vide la partecipazione di oltre 500 intellettuali, ivi compresi diversi fascisti «non ortodossi». Nel giugno 1940, poco dopo il battesimo del fuoco sul fronte delle Alpi Occidentali, gli fu conferita la Medaglia d’Argento al Valore. Terminata la rapida guerra contro la Francia, divenne corrispondente di guerra per alcuni mesi, fino a quando, nuovamente volontario, si trasferì sul fronte greco-albanese, dove cadde eroicamente il 14 marzo 1941, meritando la Medaglia d’Oro alla Memoria. Le spoglie mortali, dopo lunghe ricerche, furono recuperate soltanto nell’anno successivo e trovarono degna sepoltura nel piccolo Camposanto Militare di Klisura.

2 Guglielmo Massaja (1809-1889), missionario ed esploratore, prese i voti francescani da giovane, e fu nominato Vescovo nel 1846. Inviato in Etiopia dal Papa Gregorio XVI per fondare il Vicariato dei Galla, raggiunse la destinazione dopo una lunga anabasi, e nel 1852 diede inizio a un fertile periodo di attività cristiana, fondando diversi centri religiosi. Gradito a Re Menelik ma esiliato da Giovanni IV, tornò in Italia e fu creato Cardinale (1884). Per incarico di Leone XIII produsse I miei 35 anni di Missione nell’Alta Etiopia assieme ad altre opere prevalentemente «africaniste» e uscite postume. Dopo un lungo processo di beatificazione, peraltro consuetudinario, è stato elevato alla dignità di «Venerabile».

3 Confronta Leone Carpi, Delle colonie e dell’emigrazione degli Italiani all’estero, Tipografia Industriale Lombarda, Milano 1874, 4 volumi. Non senza ragionevole fondamento, l’Autore si chiedeva con addolorato stupore come mai partissero «migliaia di contadini e di operai senza lo scopo determinato e sicuro di fondare colonie e fattorie italiane ma puramente per recarsi nomadi e abbandonati a mendicare oltre Atlantico un lavoro giornaliero e fuggevole» col rischio di «rimanere sul lastrico e finire plebe cenciosa».

4 Pasquale Stanislao Mancini (1817-1888), dopo avere esercitato l’avvocatura, fra cui quella in difesa di Garibaldi, entrò in politica nel 1848 pubblicando «Riscatto Italiano» e redigendo la fiera protesta dei patrioti napoletani per l’abrogazione dello Statuto. Riparato a Torino, fu parlamentare dopo l’unità, e più volte Ministro nei dicasteri dell’Istruzione, di Grazia e Giustizia, e degli Esteri, dove contribuì a definire la Triplice Alleanza (1882) e dove assunse posizioni nettamente favorevoli all’espansione coloniale. Collaborò attivamente all’abolizione della pena di morte, codificata nel 1889, poco dopo la sua scomparsa.

5 L’opera dell’Onorevole Leopoldo Franchetti e della sua consorte inglese, dopo i notevoli successi iniziali, fu condizionata negativamente dalla guerra libica, e poi, soprattutto dal Primo Conflitto Mndiale, che nel 1917 vide l’improvvisa scomparsa di questo pioniere e patriota illuminato, morto suicida per la disperazione causatagli dall’immane disastro di Caporetto e dalla dolorosa ritirata italiana sulla linea del Piave. Il suo esempio fu ripreso negli anni Trenta in forma più organica, ma ebbe vita breve a causa del nuovo conflitto e del conseguente abbandono delle colonie.

(marzo 2016; terza ripubblicazione: dicembre 2023)

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