I Canossa. Non solo Matilde ma una corposa e solida dinastia
Alcune vicende familiari legate ai monaci benedettini che costruirono la riforma musicale di Guido d’Arezzo

Chi si è occupato di storia della musica ha da sempre apprezzato il genio creativo e rivoluzionario di Guido Monaco, meglio conosciuto come Guido d’Arezzo o Guido Pomposiano.[1] Monaco benedettino italiano di incerte origini e fondamentale teorico musicale, è considerato l’ideatore della moderna notazione musicale. Il suo trattato Micrologus fu il testo di musica più diffuso nel Medioevo. Egli curò l’insegnamento della musica nell’abbazia di Pomposa[2] dove, avendo osservato le difficoltà che i monaci avevano ad apprendere e ricordare i canti della tradizione gregoriana, risolse il problema ritmico della musica ideando un metodo d’insegnamento completamente nuovo, che lo rese celebre. Ma sopraggiunse, proprio per tale motivo, l’ostilità degli altri monaci dell’abbazia, al punto da suggerirgli di trasferirsi ad Arezzo, città che aveva una fiorente scuola di canto. Qui si mise sotto la protezione del Vescovo Tedaldo, a cui dedicò il suo celebre trattato.

In pochi però si soffermano sulla figura e le origini di Tedaldo Vescovo. Senza di lui Guido d’Arezzo non sarebbe mai potuto diventare il vero precursore della musica moderna, perché il Vescovo Tedaldo si fece davvero paladino della nuova scrittura musicale.

Tedaldo Vescovo[3] aveva origini nobiliari ed appartenne alla celebre famiglia dei Canossa. Era fratello del più conosciuto Bonifacio, marchese di Toscana e padre, quest’ultimo, dell’ancor più celebre Matilde di Canossa. Quando nacque Matilde lo zio Tedaldo era già morto, però la tradizione gregoriana ed il più generale culto per l’arte musicale della famiglia di Matilde non vennero mai meno, grazie anche ai legami forti con la riforma musicale di cui Tedaldo, attraverso il monaco Maestro Guido, si era fatto promotore.

Conosciamo così, studiando le vicende dei Canossa in profondità, che l’esperienza musicale del monaco Guido non era affatto isolata. Ma soprattutto possiamo scoprire le reali dimensioni della vita di questi monaci, dediti non solo alla preghiera, ma ad ampliare, attraverso questa, le proprie attitudini ed abilità. Avevano un ruolo politico essenziale, a cui dovevano soggiacere gli stessi uomini d’arme, persino particolarmente potenti come i Canossa.

«La fama di manipolatore dei beni delle chiese e di simoniaco, per Bonifacio dovette essere stata tale che anche Donizone[4] fu costretto a riferirne, ma lo fece presentandolo non nel momento dell’usurpazione e dell’attività simoniaca, ma quando, pentito, ne chiese l’assoluzione dell’abate di Pomposa, Guido [omonimo del celebre Guido Monaco riformatore in campo musicale, suo contemporaneo, presente nell’abbazia], e ne ricevette una dura punizione».[5]

Scrive Donizone: «Di ciò il Santo Abate Guido accusò Bonifacio, intimandogli di non far più siffatti commerci e dinanzi all’altar di Maria, con aspre sferzate, lui nudo colpì, aduso alle mollezze. Promise il marchese a Guido, abate della Pomposa, che mai più egli avrebbe venduto altre chiese».[6]

Da queste poche frasi già capiamo il ruolo decisivo assunto dai monaci della celebre abbazia, ruolo che andava oltre la preghiera ed il culto. È del tutto evidente che la non approvazione dell’abate significava estromissione per il nobile e potente Signore dalla fiducia accordatagli dai suoi uomini e dagli abitanti delle sue terre. Il padre di Matilde fu uomo senza scrupoli, ma sempre devoto, forse per ragioni politiche.

L’abbazia di Pomposa era comunque potentissima e Donizone se ne occupò a lungo. Ciò non impedì ai Canossa, in questo abili strateghi, di appropriarsi della posizione preminente dei monaci per farne un loro personale trampolino di lancio politico.

Nel capitolo precedente a quello descritto del testo di Donizone, l’autore ripropone un altro celebre episodio di Bonifacio, legato all’abate di Pomposa.

«Il marchese Bonifacio era solito recarsi in visita all’abbazia di Pomposa, poco a Nord di Comacchio, abbazia imperiale che, da quando era stato nominato abate Guido, aveva avuto un rilancio considerevole sia nello spirituale che nel materiale, avendo provveduto il Santo Abate a ricostruire la chiesa, come ci informa l’agiografia scritta dopo la sua morte. Un giorno Bonifacio volle mettere alla prova i giovani monaci: fece salire sul tetto della chiesa un uomo fidato, che gettasse giù delle monete tra i monaci che pregavano nel coro. Le monete caddero tintinnando, ma nessuno dei pur giovani monaci alzò gli occhi verso di esse o interruppe in alcun modo la sua preghiera. Il commento di Bonifacio, come ce lo racconta Donizone, fu sibillino, e non privo di ambiguità: “In pochissimi anni anch’essi saranno come i loro Maestri”.[7] [8]

Il secolo XI fu nel Medioevo un secolo di simonia ma anche di reazione contro questo peccato e contro una eccessiva secolarizzazione della vita religiosa. Fu il secolo della riforma della Chiesa, una riforma costruita pian piano da una molteplicità di centri religiosi, da una pluralità di piccoli e grandi individui, che operarono concretamente prima con una profonda conversione personale, poi con l’esempio e la predicazione, per un ritorno della vita religiosa alla purezza evangelica. Guido di Pomposa fu uno di questi».[9]

È comprensibile che una figura come il Guido Monaco riformatore musicale facesse ombra al celebre abate Guido, dedito a costruirsi una solida posizione non solo dentro il monastero. L’abate Guido era infatti nato in una «nobile famiglia del Ravennate, e verso il 970, dopo un pellegrinaggio a Roma, si mise alla scuola dell’abate di Pomposa Martino, che conduceva vita eremitica in un’isola delle paludi di Comacchio. Dopo tre anni di eremitismo, anch’egli si fece monaco a Pomposa e dal 1008 al 1046, anno della sua morte, ne fu abate».[10]

Il periodo fu caratterizzato, nell’ambiente ravennate e comacchiese, da fermenti religiosi. Già all’epoca qui i Canossa nutrirono ampi interessi economici. Il quadro politico generale si presentava piuttosto complesso.

«L’esperienza di San Romualdo, che aveva fondato una nuova comunità di monaci benedettini, i Camaldolesi, dediti ad unire all’eremitismo la vita comune, aveva attirato nelle valli presso Comacchio religiosi come San Pier Damiani, Bruno di Querfurt ed altri […].

La grande ondata di eremitismo che si ebbe tra la fine del secolo X e la prima metà dell’XI, in concomitanza con il risveglio economico dell’Europa […] fu espressione di una forte contestazione dei nuovi valori mondani e della nuova società secolare […]. Ma l’esigenza di un rinnovamento della vita religiosa veniva anche dall’Impero, che aveva bisogno di una Chiesa credibile […]. Santa Maria della Pomposa, abbazia imperiale, era entrata nello spirito della riforma monastica romuadina, curata peraltro in Camaldoli da quel Tedaldo Vescovo, fratello di Bonifacio, che agevolò anche la riforma musicale di Guido Monaco.

L’abate Guido di Pomposa governò l’abbazia per quasi quarant’anni, portando in essa una nuova spiritualità, intrisa di ascetismo eremitico. Egli era, del resto, un uomo dalla forte personalità, in grado di tenere testa ai potenti Arcivescovi di Ravenna, come agli Imperatori stessi. Naturale che il marchese Bonifacio fosse attratto da questo grand’uomo, e da un cenobio verso il quale lo portavano interessi ferraresi e la necessità di curare l’approvvigionamento del sale a Comacchio.

Il ritratto di Bonifacio che ne fa Donizone ma che emerge soprattutto da altre fonti storiche è sempre sfuggente e contraddittorio: invasore dei beni delle chiese e donatore di possessi ai monasteri; superbo e vanaglorioso, e insieme disposto a dure umiliazioni e penitenze; tirannico e liberale. Un uomo indubbiamente di grande statura, che incuteva rispetto anche in chi doveva correggerlo e punirlo, come Guido nel racconto di Donizone, o in Pier Damiani, che tra il 1042 ed il 1043 si rivolse a lui in questi termini: “Al Signore Bonifacio, eccellentissimo duca e marchese, Pietro ultimo servo dei monaci, una fedele orazione in Cristo. Non ignoro, eccellentissimo signore, che se Dio onnipotente non ti avesse prediletto fino ad un certo punto, mai avrebbe affidato a te il governo di tante migliaia di uomini, tenendo i colli dei tuoi nemici sotto i tuoi piedi, ed elevandoti con tanta gloria al di sopra di tutti i potenti del Regno. Ma la pietà divina ti ha temporaneamente innalzato precisamente perché tu ti dedichi all’osservanza dei suoi precetti, per portarti attraverso i beni terreni verso quelli del cielo, attraverso le cose passeggere a quelle eterne. Per questo, carissimo, secondo la prudenza che è propria del tuo acutissimo ingegno, guarda verso il cielo, poni dinanzi ai tuoi occhi la brevità del corso di questa vita, e medita con sollecitudine dove devi porre la ragione di un così ampio e durevole governo”; seguono i soliti richiami alle vanità delle cose terrene, il ricorso della formula dell’“Ubi sunt”: “Infatti dove sono ora tanti potenti del secolo, tanti Re invincibili, che sembravano innalzarsi al cielo e possedere sotto il dominio della loro potenza il mondo in quasi tutta la sua estensione? Se ora guardi al loro sepolcro, troverai che tutto il loro corpo, sotto il quale il mondo era costretto ad avere paura, non pesa più di una libbra”.[11] La conclusione è un pressante invito a Bonifacio a difendere e proteggere i monasteri benedettini, in particolare quello di San Vincenzo al Furlo, cominciando col far restituire ad esso i campi occupati da certi “invasori”; alludendo ai quali, probabilmente, Pier Damiani pensava allo stesso marchese di Canossa».[12]

Amore ed odio dunque tra i monaci e i Canossa, e più in generale in una posizione facilmente individuabile tra «l’incudine ed il martello», in cui si insinuavano queste potentissime famiglie che, a loro volta, controllavano e si impossessavano del territorio, ponendosi ora al servizio degli Imperatori, ora dei Pontefici.

Non possiamo dimenticare che lo stesso Bonifacio fece di Ferrara dominio incontrastato dei Canossa; e che, come descrive un monaco camaldolese in una sua pubblicazione del 1602[13], nei secoli successivi alla dominazione canossiana quelli che il monaco identifica in modo generico come Sigifredi (gruppo parentale esteso) daranno origine, a detta del monaco, alla stessa dinastia estense. Possiamo provarlo? Evidentemente no, in ogni caso appare alquanto suggestivo.

Esistono in effetti alcune particolari coincidenze. Ritornando alla riforma musicale di Guido Monaco, come non pensare al ruolo svolto in Lucca da quegli stessi Sigifredi che ne supportarono la diffusione in termini artistici sin dall’Alto Medioevo, al punto da creare una scuola musicale che rimase di prima grandezza per tutto il XIX secolo soprattutto per quanto concerne la musica sacra?.[14] Dunque i legami del gruppo parentale allargato avrebbero potuto essere decisivi.

Suggestiva è anche la coincidenza tra il racconto di Donizone sull’episodio delle monete fatte tintinnare dal marchese Bonifacio ai monaci, episodio che riecheggia le vicende di Sant’Alessio, ed il culto che del Santo si ebbe in Lucca in territorio riconducibile ai possessi matildini e/o sigifredi. Esiste infatti nei pressi della città lucchese una località che si chiama appunto Sant’Alessio, e qui ritroviamo proprietà, ancora nel XIX secolo, appartenenti a quelle famiglie che nel Medioevo furono vicine agli ambienti sigifredi e matildini.[15]

Gli studi storici del periodo alto medievale sono talvolta frammentari, anche e soprattutto per la frammentarietà dei documenti rintracciabili. In ogni caso fluidità ed organicità possiamo rintracciarle in particolare dalle pennellate che qua e là si ricavano nelle fessure di una storiografia complessa ma indubbiamente affascinante.


Note

1 Guido D’Arezzo (992 circa-1050).

2 La celebre abbazia di Pomposa è situata nell’omonima cittadina, sulla costa adriatica, vicino a Ferrara.

3 Tedaldo Vescovo (990 circa-1036).

4 Donizone, monaco caro ai Canossa, che nella Vita di Matilde di Canossa descrive sia le sue vicende che quelle della famiglia.

5 Paolo Golinelli, Matilde e i Canossa nel cuore del Medioevo, Camunia editore, pagina 87 (Guido di Pomposa).

6 Donizone, Vita di Matilde di Canossa, I, versi 1110-1115, pagina 60.

7 Ibidem, verso 1001.

8 Episodio analogo a quello di Sant’Alessio, celebrato dagli Imperatori Arcadio ed Onorio sull’Aventino dove si costruì la basilica in sua memoria.

9 Paolo Golinelli, Matilde e i Canossa nel cuore del Medioevo, Camunia editore, pagina 88.

10 Su Guido di Pomposa sono ancora fondamentali gli Atti del primo Convegno internazionale di Studi Storici Pomposiani a cura di A. Samaritani, Deputazione Provinciale di Storia Patria, Ferrara 1964.

11 Pier Damiani, Epistolae, 2, editore K. Reindel, Die Briefe des Damiani, I, in M.G.H., Die Briefe der deutschen Kaiserzeit, IV, Munchen 1983, pagine 102-105. Sulla formula dell’«Ubi sunt?» presente anche in Dante, Purgatorio, XIV, pagine 97-98, si veda Simoni F., sull’uso della formula retorica «Ubi sunt» in «La cultura», XXIII, (1985), pagine 176-303.

12 Paolo Golinelli, Matilde e i Canossa nel cuore del Medioevo, Camunia editore, pagina 91.

13 Si tratta di una Vita di Matilde del monaco camaldolese Don Silvano Razzi, rintracciabile anche in rete.

14 Mi riferisco in particolare alla collaborazione tra il trisavolo di Giacomo Puccini, Giacomo Puccini senior, che collaborò col religioso Domenico Pierotti alla stesura di musica sacra che venne rappresentata anche in Napoli ed in Venezia, Stati con cui Lucca intratteneva prolifici rapporti, anche commerciali.

15 C’è infatti coincidenza di siti tra i possessi matildini nei territori lucchesi e quelli Sigifredi, che poi sono appartenuti a famiglie nobili fino ad anni recenti. Il tutto resta documentabile nella storiografia locale in Lucca. E di queste particolari coincidenze già si occupò nel XVIII secolo Monsignor Pacchi di Castelnuovo Garfagnana.

(ottobre 2014)

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