Matilde di Canossa
A partire da Sigifredo e Azzo, un’eredità da riscoprire

Matilde di Canossa

Parmigianino, Ritratto di Matilde di Canossa, XVI secolo, Museo Diocesano, Mantova (Italia)

Nel mese di luglio 1046 nacque a Mantova, dal marchese Bonifacio e dalla contessa Beatrice di Lorena, una bellissima bimba che venne chiamata Matilde. Tra i suoi antenati vi erano Sigifredo e Azzo Adalberto. Sigifredo, ricco e potente conte lucchese, desideroso di accrescere il proprio dominio, di cambiare ambiente, lasciò la sua città e si trasferì in Emilia. Là conquistò città, castelli e divenne ancor più ricco e più potente. Alla sua morte, lasciò tre figli: Sigifredo, Gerardo e Azzo Adalberto. Sigifredo e Gerardo «signoreggiarono Parma». Azzo Adalberto, che si era messo al servizio del Vescovo di Reggio Emilia, ottenne da lui in feudo, pagando, la rocca di Canossa, la quale era in rovina e «quasi vepraio».[1] I ruderi si trovano su un monte di biancastre pietre arenarie, che, probabilmente, dettero origine al toponimo di Canossa, il quale deriverebbe dal latino «canus» = bianco. Azzo Adalberto disse: «Ricostruirò lassù, su quel monte, una fortezza più grande e più solida di quella di un tempo e sarà imprendibile, considerando gli impervi dirupi circostanti». I lavori presentavano notevoli difficoltà per la natura scabrosa del terreno, ma la mano d’opera non mancava. La miseria era diffusa, la fame era una triste realtà presente, in larga misura, nel Medioevo. Tanta gente per sbarcare il lunario, si sarebbe adattata a qualsiasi lavoro. Ben presto schiere di operai: muratori, manovali, falegnami, fabbri, furono a disposizione di Azzo Adalberto, che, circa l’anno 950 poté ammirare, con gioia, il suo magnifico castello, munito di torri e protetto da una triplice cinta di mura. Tebaldo, figlio di Azzo Adalberto, e padre di Bonifacio, ampliò il castello e lo adornò con bellissimi marmi della Lunigiana. Dalla parte di Sud-Ovest appariva, e appare anche oggi, uno spettacolo desolante: nude rocce avvallate o emergenti.

Alla sommità della rocca fu costruito un grande palazzo, a Sud-Est la chiesa di Sant’Apollonio, a tre navate, e il monastero benedettino.[2] Il tempio, consacrato nel 976, venne dotato di organi per accompagnare, giorno e notte, i canti religiosi, e arricchito con meravigliosi ornamenti, con preziosi arredi: collane, croci d’oro, d’argento, turiboli d’argento, calici pregevoli, pianete, piviali e arazzi portati dall’Asia. Vi fu custodita anche la reliquia di Sant’Apollonio e di altri Santi. Celebravano le sacre funzioni un preposto e dodici chierici che poi Beatrice e la figlia Matilde sostituirono con un abate e molti monaci benedettini, ritenendoli maggiormente degni di venerazione. Lotario, Re d’Italia, morì improvvisamente a Torino nel 950. Fu ucciso da Berengario d’Ivrea. La moglie Adelaide, dopo le profferte del figlio di Berengario, che non sposò, fuggì dalla prigionia cui era stata costretta sul lago di Garda. Grazie a Don Martino, che si recò dal Vescovo di Reggio Emilia, che a sua volta lo indirizzò da Azzo Adalberto di Canossa, si riuscì a salvare Adelaide. La guerra che ne seguì fu vincente per Adalberto Azzo che l’Imperatore Ottone, che sposò Adelaide, concesse a Azzo Adalberto, per la generosa azione, il titolo di marchese e le contee di Modena, Reggio e Mantova. L’Imperatore di Germania Corrado II, detto «il Salico», nel 1034 inviò d’urgenza un messo a Canossa per chiedere aiuto al marchese Bonifacio, il più importante signore d’Italia, a cui, circa sette anni prima, aveva dato in feudo la Marca di Toscana. Corrado doveva far fronte alla rivolta del potente vassallo Teobaldo, duca di Champagne, che voleva occupare la Borgogna e si era asserragliato nel ben fortificato castello sul lago di Morat. I vassalli non guerreggiavano soltanto tra di loro, ma anche contro l’Imperatore. Le lotte tra i vassalli in Italia impedivano il sorgere di una dinastia nazionale. Volle raggiungere Canossa. «Pare che il signore di quel posto sia molto potente e anche abbastanza… generoso verso conventi, abbazie, chiese, verso la povera gente», disse il locandiere all’Imperatore. «Quell’eccellentissimo signore sa il fatto suo e non tollera soprusi e ingiustizie» (questo il pensiero del messo dell’Imperatore). Quando Bonifacio, aperto il plico sigillato, lesse subito lo scritto, dette ai suoi uomini l’ordine di mobilitare. Quando giunsero al castello di Morat, Bonifacio ottenne dall’Imperatore l’allontanamento di tutti per avere lui solo il merito d’espugnarla. I Francesi abbassarono il ponte levatoio credendo che fossero solo presenti militi del marchese di Canossa, mentre in realtà non era così. I Canossiani furono inamovibili e soprattutto sanguinari. Il signore di Canossa, quel robusto gigante dai capelli biondi, tendenti al rosso, dalla barba ispida, quell’uomo definito «ammirabile e venerando eroe» dal linguaggio cortigianesco del monaco poeta Donizone, non esitava neppure a terrorizzare, ad uccidere frati, preti, a depredare conventi e chiese. Padre Fulgenzio dell’abbazia benedettina di Pomposa, volle recarsi a parlare con Bonifacio, nella speranza di convincerlo a cambiare vita. La risposta del marchese Bonifacio fu: «Che sei venuto a fare? Che cosa pretendi da me, monaco?». Bonifacio si convertì, ma le sue conversioni non erano stabili, e ritornava a fare le medesime cose. Corrado II «il Salico» era stato incoronato Re d’Italia da Ariberto d’Intimiano, Arcivescovo di Milano nel 1026, e Imperatore nel 1027, dal Papa Giovanni XIX; nelle lotte che dovette sostenere in Italia, ebbe a suo fianco Bonifacio di Canossa. I valvassini, i quali erano stati ridotti alla miseria da vassalli e valvassori, si mostravano turbolenti. I coloni (servi della gleba), la plebe, che per secoli avevano sofferto la fame, i soprusi dei signori feudali, si ribellavano e protestavano. Il popolo, mediante i traffici, l’artigianato, le industrie, andava acquistando forza e incominciava a organizzarsi nelle Corporazioni delle arti e dei mestieri, da cui erano, però, esclusi gli operai salariati. I più poveri erano ancora oppressi, soffrivano la fame. I coloni, in gran parte, passarono dalla servitù dei feudatari a quella dei Comuni. Bonifacio, dopo la morte di Richilde, non avendo avuto figli, volle unirsi in matrimonio con un’altra donna: sposò Beatrice, figlia del duca Federico di Lussemburgo, orfana di ambo i genitori, nipote di Gisella, che fu la sposa di Corrado II «il Salico». Le nozze vennero celebrate a Marengo Mantovano.[3] La scelta della sposa per Bonifacio non poteva essere migliore. Beatrice, donna bella, bionda, dolce, signorile nei modi, saggia nei consigli e molto religiosa, contribuì notevolmente ad ammorbidire il rude marito. Bonifacio, mediante la moglie, potette stringere relazioni con i potenti signori delle Fiandre, della Lorena, avere contatti, per motivi commerciali, con il Re di Francia, con Guaimario V, principe di Salerno, e con i Tuscolani, signori romani, molto influenti in Vaticano. Diversi feudatari incominciarono ad avere invidia di Bonifacio, a temere, per il suo accresciuto potere, che volesse diventare Re d’Italia. Nel 1046, anno in cui era nata Matilde di Canossa, l’Imperatore Enrico III, figlio e successore di Corrado «il Salico», discese in Italia con grandi forze, occupò la Pianura Padana e pretese designare chi doveva essere il novo Pontefice. C’era allora a Roma il Papa Benedetto IX dei conti di Tuscolo, che era stato eletto all’età di dodici anni e che poi fu scacciato dal popolo per la sua immorale condotta. Prese il posto l’antipapa Silvestro III, sostenuto dalla famiglia dei Crescenzi. Benedetto riuscì a vincere Silvestro e a riprendere la tiara. L’arcidiacono Giovanni Graziano, uomo virtuoso, che aveva il senso della dignità della Chiesa e sosteneva la necessità di una riforma, volle farsi eleggere Papa, prendendo il nome di Gregorio VI. Per farsi eleggere e mandar via un Pontefice corrotto, dovette però ricorrere ad un mezzo che detestava: la simonia. Versò ai Tuscolani duemila libbre di denaro francese. La Chiesa attraversava tristi momenti. Papi e Vescovi davano scandalo, assieme a preti, per le loro scostumatezze. Si vendevano indulgenze, si commerciavano cose sacre, si compravano e si vendevano parrocchie, vescovati, si tollerava il concubinaggio dei sacerdoti, si permetteva che il prete avesse moglie, si sborsava denaro e si ricorreva ad intrighi per essere eletti Papi. Gli Imperatori controllavano le elezioni dei Pontefici o nominavano, addirittura, direttamente Papi e Vescovi-conti. Ai Vescovi-conti davano, con lo scettro, l’investitura temporale e con l’anello e il pastorale anche quella spirituale, religiosa. I Vescovi-conti erano, a volte, uomini di mondo, galanti, corrotti, senza scrupoli. Il sacerdozio veniva considerato un affare, un fruttuoso mestiere e destava preoccupazione un prete che non avesse moglie o concubine. Enrico III nel concilio di Sutri del 1046 tolse i Papi Benedetto IX, Gregorio VI, l’antipapa Silvestro II e nominò Pontefice il Vescovo Tedesco Suidger che venne chiamato Clemente II. Il nuovo Papa incoronò Imperatore Enrico III e cercò di attuare la riforma ecclesiastica. Gregorio VI fu esiliato. Con la nomina di Suidger, l’Imperatore diceva di voler mettere ordine nella Chiesa, di voler combattere la simonia e la corruzione, ma il suo principale scopo era quello di stabilire la superiorità dell’Impero sul Papato. Enrico III volle anche soggiogare i feudatari e Guaimario, principe di Salerno, amico dei Canossa. Bonifacio fece buon viso a cattiva sorte, non si mosse per aiutare Guaimario e, anzi, si offrì di accompagnare l’Imperatore a Mantova per dimostrargli la sua fedeltà. Avendo saputo che Enrico aveva elogiato lo squisito aceto prodotto dai Canossa, gliene inviò un po’ in un barile d’argento, trainato da un carro, pure d’argento.[4] L’Imperatore Enrico III si insospettì di Bonifacio e gli tese una trappola, ma il marchese se ne accorse. E i suoi uomini sventarono ripetute trappole dell’Imperatore. Poi i più capirono che se volevano ritenersi davvero indipendenti dall’Imperatore Tedesco dovevano appoggiarsi al marchese di Canossa. Anche la moglie Beatrice suggerì a Bonifacio di appoggiare il Papa che prese le difese della Chiesa contro l’Imperatore. Intanto Enrico III pensava ancora di uccidere il signore di Canossa, divenuto troppo ricco e potente. Il 6 maggio del 1052, Bonifacio era a caccia nel Mantovano e mentre, a San Martino dall’Argine, stava ad aspettare la selvaggina, alcuni sicari, sbucati dai cespugli, l’aggredirono e l’uccisero. Ci sono anche altre versioni ma in ogni caso con molta probabilità i killers erano stati mandati da Enrico III che Donizone definisce «crudele serpente». Anche i figli di Bonifacio, Federico e Beatrice, morti misteriosamente, è probabile che fossero stati avvelenati. Nella famiglia del marchese Bonifacio rimasero soltanto Beatrice e la figlia Matilde. Beatrice, dovendo far fronte da sola alle difficoltà derivanti dal governo dei suoi vasti dominii, che andavano dal Lazio alla Pianura Padana e al Veneto, sentiva il bisogno di un conforto, di una guida. La sua fede religiosa la indirizzò verso il monaco benedettino Ildebrando. Egli era nato circa l’anno 1020, da Bonizone e da Berta, a Soana, un piccolo paese che oggi si chiama Sovrana ed è nel comune di Sorano, in Provincia di Grosseto. Ildebrando, da giovinetto, andò a Roma a studiare nel monastero di Santa Maria sull’Aventino, dove era abate suo zio materno Lorenzo d’Amalfi, il quale si manteneva costantemente in contatto con l’importantissimo monastero di Cluny, centro animatore della riforma ecclesiastica. A Santa Maria, Ildebrando divenne monaco benedettino ed ebbe la guida dell’arciprete Giovanni Graziano che fu, poi, Papa Gregorio VI, il quale venne condotto in Germania da Enrico III. Ildebrando volle seguirlo. Alla morte di Gregorio VI tornò in Italia e si dette ad esortare i Canossa ad unirsi alla Chiesa nella lotta contro l’Impero, la simonia e la dilagante corruzione del clero. Ben presto rivelò la sua grandezza morale, una straordinaria capacità di lotta e acume politico. Il Papa Leone IX lo nominò Cardinale, amministratore della Chiesa e prevosto del monastero romano di San Paolo Fuori le Mura. Nel monastero vi erano monaci corrotti che non esitavano a far entrare nelle celle donne di facili costumi. Ildebrando in poco tempo restaurò nel convento l’ordine, la disciplina, la moralità. Al fine di rafforzare i Canossa e di servirsi di loro nella lotta per il bene della Chiesa, propose a Beatrice di sposare Goffredo, duca di Lorena, detto «il Barbuto». La contessa non voleva acconsentire, essendo ancora vivo in lei il dolore per la scomparsa del marito e desiderando dedicarsi al governo dei suoi dominii e al benessere del popolo. Beatrice non solo fu costretta a sposare il Barbuto, ma anche a far fidanzare sua figlia Matilde col figlio del Barbuto, Goffredo «il Gobbo». L’Imperatore, avuta notizia delle nozze di Beatrice, convocò una dieta a Firenze, nel 1055, dando ad intendere che, d’accordo con il Papa Vittore II e con Ildebrando, avrebbe voluto tracciare un programma per la purificazione della Chiesa. Alla dieta invece l’Imperatore inveì contro Beatrice, dichiarando che il suo matrimonio era imposto, per cui non valido. Beatrice replicò che avrebbe potuto rifiutarsi, se avesse voluto. Durante la tempestosa seduta, Papa Vittore II si scagliò contro l’Imperatore. Beatrice e Matilde furono fatte prigioniere in Germania. Matilde non soffrì molto in esilio per le cose nuove che potette osservare con interesse e per l’affettuosa amicizia del cuginetto Enrico, figlio dell’Imperatore. Nel 1056, dopo la morte di Enrico III, Ildebrando pregò tanto Agnese, la vedova dell’Imperatore, di lasciare libere Beatrice e Matilde. Agnese accolse le proposte del monaco e così madre e figlia poterono tornare a Canossa. Federico di Lorena, fratello di Goffredo il Barbuto, fu eletto Papa e prese il nome di Stefano IX. La Chiesa sana, la Chiesa vera sentiva di poter contare su Canossa per combattere contro il malcostume e sottrarsi alla soggezione degli Imperatori, i quali pretendevano spesso di nominare Vescovi e Papi, spesso indegni. Morto Niccolò II, i Cardinali il 30 settembre 1061 elessero Papa il Vescovo di Lucca Anselmo I da Baggio che ebbe il nome di Alessandro II. Agnese, l’Imperatrice reggente, per pronta risposta fece eleggere come antipapa, con l’aiuto dei nobili romani, Cadaloo, Vescovo di Parma, che si fece chiamare Onorio II e riuscì ad entrare in Castel Sant’Angelo. Ben presto fu cacciato dalle milizie di Goffredo il Barbuto e dovette sborsare denaro per assicurarsi la fuga. Agnese, presa dal rimorso, si recò a Lucca a chiedere il perdono di Alessandro II, che era ospite di Beatrice e Matilde e protetto dai loro soldati. Nel 1063 Cadaloo tentò di nuovo di occupare il seggio pontificio. Durante la notte potette entrare in San Pietro, ma giunse Goffredo il Barbuto con i soldati di Canossa e riuscì a sollevare il popolo contro l’antipapa.

Matilde cresceva sana e robusta, studiava con impegno e capacità, conosceva l’italiano, il latino, il francese e il tedesco. Pregava molto, dimostrava grande abilità nelle esercitazioni guerresche, nell’equitazione, nel maneggio delle armi. Quando cavalcava, portava gli speroni d’oro. Era bellissima: slanciata, nobile nel portamento, aveva volto e denti splendidi, occhi grandi, cerulei, sereni, capelli biondi, tendenti al rosso. In combattimento appariva dura, coraggiosa, amante del rischio. Beatrice e sua figlia risiedevano spesso a Lucca, capitale della Marca di Toscana. La loro abitazione era «fuori di Lucca (fuori delle mura romane) nel Prato chiamato del Marchese (Bonifacio)».[5] Tale affermazione del Fiorentini è condivisa dal professor Guglielmo Lera, noto, stimato storico lucchese, il quale ritiene che la grande contessa e sua madre dovessero risiedere nel così detto «Palazzo del Marchese» che si trovava dove era l’ospedale di Via Galli Tassi. Apparteneva al palazzo anche l’attuale Piazzale Verdi, che un tempo si chiamava «Prato del Marchese». Il 6 ottobre 1070 Beatrice e Matilde assistettero alla consacrazione del Duomo di Lucca e contribuirono certamente alle spese per la sua rinnovazione, voluta dal Vescovo della città Anselmo I da Baggio. Nel fianco sinistro dell’atrio del Duomo di Lucca, al centro dell’arco che è davanti alla fontana di Lorenzo Nottolini, è scolpita una testa che si ritiene sia quella di Matilde di Canossa. Sul volto si nota la bocca chiusa, leggermente inclinata, come per smorfia di disappunto, e un’espressione di mestizia. L’opera è attribuita da Lino Lionello Ghirardini, illustre storico di Matilde, a Nicola d’Apulia. Dalla parte opposta dell’arco, all’altezza dell’immagine di Matilde, appare una testa mitrata che sembra sia quella del Papa Alessandro II, il quale ha un atteggiamento severo, quasi irritato.

La grande contessa chiese ad Anselmo I da Baggio un consigliere e confessore. Il Vescovo le assegnò il nipote Anselmo II, che, l’8 ottobre 1073, sostituì, nel Vescovato di Lucca, con la designazione di Gregorio VII e l’investitura di Enrico IV, lo zio defunto il 21 aprile 1073. Anselmo sostenne sempre lo zio nella lotta per la libertà, la purificazione della Chiesa e fu strenuo difensore di Gregorio VII in tutte le battaglie.[6] Matilde, che volentieri cavalcava nei suoi possedimenti per aiutare i bisognosi e far costruire pievi, dette aiuti per la costruzione della Cattedrale di Modena, per consacrare il Duomo di Parma. Fondò, nell’Appennino Reggiano, il monastero, la chiesa di Marola e la pieve di Toano, beneficiò il monastero prediletto di Polirone. Fece restaurare l’abbazia di San Pietro di Camaiore, la chiesa di Sant’Andrea e quella di San Frediano di Lucca. La contessa tuttavia, per quanto incline al misticismo, amava anche il fasto, la vita di società. Volle anche ampliare e rendere più confortevole il castello di Canossa.

In seguito alle pressioni del monaco Ildebrando e della madre, Matilde disse di sì alle nozze con Goffredo II il Gobbo a 23 anni. Si sposarono in Lorena nel 1069. Dopo la morte dell’unico figlio, Matilde lasciò la Lorena e rientrò a Canossa. Il Gobbo, peraltro uomo senza religione ed avido di potere, seguì la moglie in Italia, ma con lui Matilde ebbe solo rapporti di natura amministrativa.

Nel 1056, dopo la morte di Enrico III, divenne Re di Germania, all’età di sei anni, suo figlio Enrico IV, sotto la reggenza della madre Agnese. Enrico IV fu allevato senza Dio e anche sua moglie Berta di Savoia voleva ripudiare. Fu Pier Damiani a riuscire nell’intento di farlo desistere, con la minaccia che non sarebbe stato incoronato Imperatore. Alessandro II scomunicò personaggi importanti della corte di Enrico IV e ordinò al Re di recarsi a Roma per giustificare il suo operato nei confronti della Chiesa; ma poco dopo, il 21 aprile 1073, morì.

Il clero ed il popolo acclamarono papa Ildebrado nell’aprile 1073, quando divenne Gregorio VII. Un vero gigante della Chiesa. Enrico IV, preoccupato per la ribellione dell’Arcivescovo di Magonza e dei Sassoni, allontanò dalla Corte persone scomunicate da Alessandro II e scrisse a Gregorio VII una lettera in cui rivelava umiltà e pentimento. Il Papa, preso dalla commozione, gli espresse il suo perdono. Per questo cessarono le ribellioni contro Enrico IV. Il grande Papa condannò i preti sposati o concubini, l’accettazione di Vescovati concessi dai feudatari, ordinò di porgere aiuto ai poveri, agli oppressi, e al popolo cristiano di non partecipare a riti religiosi di sacerdoti scandalosi. Nelle ventisette massime del «dictatus Papae» affermò poi, la supremazia del Papato sopra gli altri poteri, la facoltà di «privare Re e Imperatori della Corona e di sciogliere i loro sudditi dal giuramento di fedeltà». Matilde personalmente dirigeva l’azione di sorveglianza delle coste dalla pirateria. Intanto Roberto il Guiscardo si era messo a razziare i territori della Chiesa. Goffredo il Gobbo aveva promesso a Matilde di andare con un esercito contro di lui ed invece si recò in Sassonia ad aiutare Enrico IV nel reprimere le ribellioni. Matilde, furibonda, considerata l’impossibilità di rimanere unita a Goffredo, chiese a Gregorio VII di concederle la separazione dal marito, troppo diverso da lei su fondamentali questioni religiose, politiche e manifestò, di nuovo, il desiderio di farsi monaca. Il Papa la dissuase, facendole presente che doveva pensare a salvare la sua anima, ma anche quella degli altri e difendere la Chiesa.

Enrico IV riteneva Gregorio VII un pericoloso nemico da eliminare. Per compiere l’orrendo disegno di uccidere il Papa, si servì di quel brutto ceffo che era Goffredo il Gobbo. Il Gobbo prese contatto con il già noto Cencio, il quale, intrigando con alcuni nobili, era divenuto ricco mediante soverchierie e rapine. Era una specie di capo mafia, un delinquente. Cencio aveva a Roma molti castelli da cui razziava. Riuscì a rapire Gregorio VII che, grazie all’intervento della folla, venne liberato. Cencio, invece di recarsi in Terra Santa come aveva promesso al Papa, per purificarsi, si recò da Enrico IV. Gregorio VII sapeva che i sicari erano mandati da Enrico IV. Non aveva prove, e così lo convocò a Roma. Enrico IV, in risposta, il 24 gennaio 1076, indisse la dieta di Worms con la partecipazione di Vescovi corrotti, dediti alla simonia, di nobili assassini e dichiarò che Gregorio VII aveva cercato di ucciderlo. Sempre Enrico IV definì il Pontefice «falso monaco e non Papa, influenzato da due donnette» (Beatrice e Matilde). Le accuse furono mosse dal chierico Rolando, che si recò a Roma su incarico di Enrico IV, e mosse tali accuse nella basilica di San Giovanni. Nel 1076 in un concilio, cui parteciparono sia Agnese che Matilde, Gregorio VII scomunicò Enrico IV. Il 18 aprile del 1076 morì a Pisa Beatrice e fu «collocata dapprima nella vecchia chiesa Santa Maria, rimase poi nella nuova all’interno».[7] La salma di Beatrice si trova attualmente nel braccio settentrionale del camposanto monumentale di Pisa ed è racchiusa in un massiccio e bel sarcofago romano del II secolo dopo Cristo.

Matilde intanto era rimasta sola al governo del più importante feudo d’Italia. Enrico IV si trovava abbandonato da tutti. Il Re scrisse al Pontefice rinnegando tutte le accuse. Gregorio VII negli ultimi giorni del dicembre 1076 era a Lucca, ospite di Matilde, poi andò con lei a Mantova. Il Pontefice voleva raggiungere il Re. Questi però fuggì per raggiungere l’Italia e presentarsi al Pontefice. Scrisse alla cugina Matilde, pregandola di intercedere presso il Pontefice per ottenere il suo perdono. Dopo un periglioso viaggio Enrico raggiunse l’Italia. Matilde fu mossa da pietà per il cugino e si precipitò dal Pontefice chiedendogli di perdonare il Re. Matilde dichiarò che il cugino sarebbe andato alla dieta di Augusta ma voleva essere perdonato come uomo, non come Re. Il Papa chiese per Enrico pubblica penitenza, se voleva ricevere il suo perdono. A Canossa, vestito con un saio da monaco francescano, sotto la neve, Enrico IV non venne ricevuto dal Pontefice. I principi tedeschi non volevano l’assoluzione, mentre Matilde, l’abate di Cluny, la contessa Adelaide di Torino, suocera di Enrico, alcuni nobili, invece, pregavano insistentemente il Papa di perdonarlo. Nel gelido mattino del 28 gennaio 1077 venne fatto entrare. Al suo fianco, Matilde con l’abate di Cluny, la contessa Adelaide, Amedeo di Savoia, Azzo d’Este e Donizone. La sottomissione del Re non piacque ai Vescovi scismatici lombardi e ai signori dell’Alta Italia. In Germania alcuni principi si riaccostarono ad Enrico IV, altri elessero Re Rodolfo di Svezia. Intanto in questo frantumarsi dell’autorità papale e imperiale, appariva sulla scena della storia la forza del popolo che voleva le libertà comunali. Il Papato, appoggiando il popolo nella lotta per la libertà, per migliori condizioni di vita, acquistava maggiore potenza. Il 3 febbraio del 1077 Enrico IV si incontrò a Bianello con Gregorio VII e con Matilde e là fu stabilito di convocare a Mantova un’assemblea per trattare, probabilmente, della posizione dei Vescovi scismatici lombardi e per dare inizio ad una nuova collaborazione. Era una trappola per Matilde e per il Pontefice. Tornarono indietro e si rifugiarono a Canossa. Enrico IV trovò sostegno in Guiberto, Vescovo scomunicato di Ravenna, ambizioso. Particolarmente attivi contro Enrico IV, i monaci benedettini. Matilde fece da scorta al Papa fino a Roma. Poi rientrò in fretta a Canossa poiché nel suo feudo vi erano forti segni di rivolta. In Lombardia, in Emilia, a Pisa, a Pistoia, ad Arezzo, a Lucca, a Siena… Le ribellioni non erano contro Matilde ma contro le ormai vetuste strutture feudali che il suo dominio comportava. Lucca, la capitale della Marca Toscana dei Canossa, si ribellò, scacciò il Vescovo Anselmo che si rifugiò nel castello di Moriano. La fortezza fu assediata da Pietro, il Vescovo scismatico di Lucca che poi il Papa Urbano II, nel 1091, sostituì con il Vescovo Gottifredo. Anselmo, da Moriano, riuscì a raggiungere Canossa. Egli aveva trovato molta ostilità tra i canonici lucchesi che rifiutavano la vita in comune e la povertà, nello spirito evangelico. Enrico IV nel 1080 venne nuovamente scomunicato. La lotta disperata che Matilde ingaggiò contro Enrico IV fu straziante. Enrico IV lasciò Guiberto all’assedio di Roma e si recò a Lucca, in quella città da cui era partito Sigifredo, padre di Azzo e trisavolo di Matilde. Lucca accolse trionfalmente il Re perché risentiva ancora del peso marchionale di Bonifacio. Nel palazzo vescovile fu pronunciata sentenza contro Matilde che fu privata dei suoi beni e titoli, nonché passibile di impiccagione. Matilde reagì. Matilde due anni prima del bando lucchese aveva donato alla Chiesa tutti i suoi beni. Il Pontefice aveva lasciato alla contessa tutti i suoi beni. In realtà il Pontefice aveva lasciato che la contessa potesse continuare ad usufruire di quei beni, potendoli in verità cedere, donare, passare ai suoi successori. Ritornando dalla Germania, Enrico IV andò a Roma per farsi incoronare Imperatore da Guiberto, che venne proclamato Papa col nome di Clemente III. Per dileggio anche Gregorio VII venne invitato, assediato in Castel Sant’Angelo. Mentre la folla acclamava Enrico, apparve sulla scena Roberto il Guiscardo che invitò Gregorio VII a resistere e gli promise il suo intervento. Nella lotta che ne seguì Roma fu rasa al suolo. Nel frattempo, Enrico IV, soddisfatto della Corona Imperiale, si recò in Germania. Roberto il Guiscardo scortato da Saraceni, Normanni, Siciliani entrò in Roma e fu strage. Gregorio VII pregò il Guiscardo di evitare tale scempio e quest’ultimo, con la scusa di proteggerlo, lo condusse via. Matilde intanto non si arrendeva ma attaccava i soldati di Enrico IV e servendosi ancora della guerriglia, si rifugiò nel castello di Sorbara Mantovana con molti uomini. Morto Gregorio VII nel 1085, in esilio, a Matilde venne a mancare il sostegno del grande Pontefice. Matilde esercitava il suo potere. Ai Lucchesi ribelli perdonò, ma i canonici scismatici della Curia, condannati al sinodo e affidati al suo giudizio, furono ridotti alla condizione di servi. Matilde dovette intervenire anche per dirimere una lite in corso tra i signori di Montemagno e i canonici di San Martino. Matilde poi si recò a Roma per l’elezione del nuovo Pontefice, che fu Vittore III. Guiberto nel frattempo attaccò anche il nuovo Papa ma la contessa corse in suo aiuto. In questo periodo, dopo Vittore III, divenne Papa un collaboratore di Gregorio VII, col nome di Urbano II. Matilde frequentava Roberto II, duca di Normandia, figlio del Re d’Inghilterra Guglielmo I il Conquistatore. Non lo sposò perché lo riteneva un opportunista. Il Papa Urbano II le chiese di sposare Guelfo V di Baviera, ma la proposta non venne accettata. Come aveva fatto Ildebrando con Goffredo il Gobbo, ancora una volta Matilde fu invitata a sposare il prescelto dal Pontefice. Continuò a lottare inesorabile contro Enrico IV. La contessa, avendo saputo che l’Imperatore era andato al di là dell’Adige nel 1091 con poca scorta, chiamò capitano Ugo, conte del Maine, figlio del marchese Alberto Azzo II d’Este, gli affidò più di mille uomini e il compito di dare battaglia alle truppe dell’Imperatore. Il capitano Ugo tradì, passò al nemico. Il marito di Matilde con altri nobili propose di nuovo la pace ma Enrico IV acconsentiva soltanto se fosse stato eletto Papa l’Arcivescovo Guiberto. Matilde rifiutò la proposta. Nel 1092 Matilde ingannò strategicamente Enrico IV abbandonando Canossa ed andando a Bianello. Di là si lanciò contro le truppe di Enrico. Enrico IV fu sconfitto dalla contessa e si rifugiò a Mantova, tra i suoi fedeli. Il luogo dove Enrico IV fu sconfitto si trova tra Canossa e Bianello e vi si trova un piccolo santuario che si chiama «Madonna della Battaglia». Intanto Guelfo V chiese l’annullamento del matrimonio perché in sette anni di matrimonio tra lui e la moglie pare non vi fossero stati rapporti sessuali. C’è chi lo ritiene impotente e chi pensa che fosse una vendetta perché Matilde non aveva lasciato i propri ben a lui ma alla Chiesa. Seguì in maniera misteriosa la morte di Corrado, figlio di Enrico IV. Si preparavano le crociate. Matilde non partecipò alla prima per stanchezza (aveva quasi cinquant’anni) ma soprattutto perché fra i crociati ce n’erano molti che volevano solo arricchirsi. Matilde fu presente a Lucca mentre passavano, e assegnò loro un suo capitano, Ottone Visconti. L’anno della morte di Urbano II, il 1099, Matilde adottò un figlio, il conte Guido Guerra, che le era stato fedele durante la lotta contro Enrico IV. Enrico V intanto mosse guerra al padre che chiese l’intervento della Chiesa. Enrico V mosse tanto sdegno. Il 7 agosto 1106 Enrico IV morì e gli successe Enrico V, che venne in Italia per farsi incoronare Imperatore. I suoi soldati, dove passavano, depredavano. Il nuovo Papa Pasquale II non riconobbe al Re diritto d’investitura. Allora Enrico V fece mettere il Papa in prigione. Le truppe romane si ribellarono al Re ma Matilde era demoralizzata perché non trovava nel nuovo Papa sufficiente sostegno. Pasquale II, dopo circa due mesi di prigionia, si accordava con Enrico V. La lotta per le investiture ebbe termine nel 1122 con il Trattato di Worms stipulato da Enrico V e Callisto II. Matilde in tutte queste vicende non ebbe reazioni. Era forse davvero Enrico figlio di lei e di Enrico IV? Fu infatti chiamata «madre» da Enrico V nel 1111 quando, dal 6 all’8 maggio, fu a Bianello, ospite della contessa. È necessaria qualche osservazione. Matilde aveva accettato di sposare un uomo deforme e in seconde nozze un uomo che pure non amava al fine di acquistare più forza e di dare al Papato un aiuto contro Enrico IV. Il Re, dopo essere stato assolto dalla scomunica, soprattutto per l’interessamento pressante, frenetico di Matilde, si era mostrato sleale, perfido con la cugina. Aveva emanato contro di lei, a Lucca, nel 1081, la sentenza di deposizione. Senza contare le numerose battaglie in cui si scontrarono. Nonostante tutto Matilde chiese a Enrico V di togliere la salma del padre, assolto dalla scomunica, dal cimitero sconsacrato e di farla seppellire nel camposanto di Spira. Perché tanta premura, tanta indulgenza, tanta benevolenza verso un nemico? È sufficiente a spiegare un attaccamento così forte e duraturo ad Enrico IV il vincolo di parentela o il fatto che Matilde provò affetto per il cuginetto durante il periodo della fanciullezza, trascorso in Germania, dove era stata condotta da Enrico III con la madre? Domande senza risposta nei misteri d Canossa. A Enrico V Matilde lasciò in eredità i suoi vasti dominii, liberi da vincoli feudali, preferendo al figlio adottivo, conte Guido Guerra, un proprio parente. Nella donazione alla Chiesa aveva stabilito che poteva sempre disporre dei propri beni. L’11 maggio 1111 Enrico V nominò, a Bianello, Matilde Viceregina d’Italia, cioè dell’Italia Settentrionale e Centrale, ad eccezione di Venezia. Negli ultimi anni Matilde si dedicò ad opere di carità. Quando si sentì vicina a morire, nell’inverno del 1114, si fece trasportare a Canossa nel monastero di Bondeno di Roncore. Morì il 24 luglio 1115, all’età di sessantanove anni. Nel 1632 il Papa Urbano VIII chiese ad Ippolito Anderasi, abate del convento di Polirone, di fargli avere il corpo di Matilde per collocarlo in San Pietro. L’abate portò a Roma, di nascosto, per evitare proteste, la salma che fu posta in Castel Sant’Angelo. Nel 1635 fu collocata in San Pietro la statua del Bernini raffigurante Matilde che si erge sopra il sarcofago. Nella notte dell’8 marzo 1644 venne messa nell’urna sepolcrale la salma della grande contessa.

Alcune domande sorgono spontanee nella lettura che possiamo fare dei documenti matildini o comunque che investono direttamente la sua famiglia sin dalle più remote origini, se li poniamo a confronto con quelli di quei Sigifredi (chiamati anche «Rossi di Anchiano») del «Comitatus lucensis» di cui il bisnonno di Matilde, Sigifredo, fu parte attiva ed integrante. Uno zio di Matilde, il Vescovo di Arezzo Tedaldo, fratello del di lei padre Bonifacio, fu colui che sostenne la riforma musicale di Guido d’Arezzo. Lucca vanta una tradizione millenaria in campo musicale che si richiama proprio a quelle lontane origini ed alcuni musicisti lucchesi, ancora nel XIX secolo, appartennero a famiglie che con i Sigifredi ebbero particolare familiarità.[8] Desta una qualche attenzione nelle vicende matildine, sempre in riferimento alla città di Lucca, la tumulazione della di lei madre, la contessa Beatrice, avvenuta in Pisa. Perché tumulare la mitica Beatrice in una città che all’epoca appariva marginale rispetto a luoghi ben più prestigiosi? Questa domanda gli storici se la sono posta sovente e non hanno saputo trovarvi una risposta convincente. Ma la lettura dei testi di Monsignor Pacchi[9] ci aiuta a comprendere meglio certe dinamiche. Pacchi sottolinea che i Sigifredi possedettero siti sino in Maremma e su tutta la costa toscana. In particolare territori anche in provincia di Pisa e su tutta la costa tirrenica, fino in Maremma. Pisa rappresentò per loro, prima che entrassero ufficialmente nelle istituzioni comunali del comune di Lucca, quando questo si formò, una vera e propria merce di scambio.[10] I Sigifredi, il gruppo parentale più esteso, insieme con le altre famiglie nobili longobarde, che erano rimasti ai margini con la fine del sistema feudale e che avevano fatto degli incastellamenti localizzati la vera fonte del loro potere (su cui peraltro le istituzioni comunali per un certo periodo non potettero esercitare alcuna influenza), nella disputa con Pisa giocarono al rialzo. E la cosa funzionò. Pisa non fu per loro, per dirla col loro amico-nemico Dante Alighieri, solo «vituperio delle genti», ma anche strumento, merce di scambio. Basta leggere quello che Monsignor Pacchi produce. Alcune carte poi, contenute nei documenti dei Della Rovere – Della Gherardesca di Donoratico, sottolineano i legami tra questi gruppi parentali e le terre e famiglie inserite nel panorama longobardo pisano.[11] Nel 1602 il Padre Camaldolese Don Silvano Razzi pubblicò un libro inerente la vita di Matilde in cui si fa un accenno alle origini della stessa dinastia estense, con riferimento ad un ramo dei Sigifredi lucchesi. Solo leggende metropolitane? Mi limito a rilevare particolari coincidenze. La contessa Matilde regnò in Ferrara e i principali feudatari estensi si chiamarono Prosperi. Provenivano da Lucca e fecero parte del «Comitatus lucensis».[12] Pare avessero legami parentali con gruppi di origine longobarda siti in Ghivizzano.[13] I territori della Garfagnana attuale, oggi in provincia di Lucca, fino al XIX secolo furono di pertinenza estense, nel senso che furono territori del duca di Asburgo Este della Casa d’Austria. Naturalmente i vari passaggi di mano relativi a quei territori sul piano storico, videro conflitti e connessioni niente affatto semplificabili. Viste le implicazioni politiche, sorge spontaneo chiedersi fino a che punto la politica familiare di questi nuclei parentali, intesi nel senso latino del termine, possa aver generato veri e propri rapporti di forza. Ancora una volta la nostra millenaria storia nazionale tende a sottolineare dunque come la Famiglia abbia in primis alimentato le stesse istituzioni.


Note

1 D. L. Tosti, La contessa Matilde e i Romani Pontefici, Firenze, 1859, pagina 23.

2 N. Camparini, Canossa. Guida storica illustrata e ampliata da L. L. Ghirardini. Reggio Emilia, 1975, pagina 106.

3 L. L. Ghirardini, La patria della grande contessa Matilde di Canossa, Reggio Emilia, 1976, pagina 70.

4 Donizone, Vita della contessa Matilde, volgarizzata da C. Cantarelli, Parma, 1885, pagina 32.

5 F. M. Fiorentini, Memorie della gran contessa Matilde, restituita alla patria lucchese. Seconda edizione illustrata e annotata da G. D. Mansi, Lucca, 1756. Quel «restituita alla patria lucchese» si riferisce al convincimento dell’Autore di aver dimostrato che Matilde nacque a Lucca.

6 G. Madella, La vita e le opere di Santo Anselmo da Baggio, Mantova, 1985, pagina 23.

7 P. Sanpaolesi, Il duomo di Pisa e l’architettura romanica delle origini, Pisa, 1974, pagina 243.

8 Il musicista Don Domenco Pierotti, che compose musica sacra col trisavolo di Giacomo Puccini, afferiva proprio ad una famiglia di stampo canossiano.

9 Monsignor Pacchi visse a Castelnuovo Garfagnana nel XVIII secolo e morì in Lucca, presso i Chierici regolari della Madre di Dio. Le sue Memorie sulla Garfagnana storica sono di essenziale importanza per comprendere determinate vicende, sia in sede nazionale che locale.

10 Vedi studi di Monsignor Giandomenico Mansi.

11 Eredità Mamiani Della Rovere Della Gherardesca di Donoratico scritto nel XIX secolo dall’ingegnere e deputato del Regno Rodolfo Pierotti.

12 Paolo Zanardi Prosperi, Tra Lucca e Ferrara.

13 Un documento presente alla Biblioteca Statale di Lucca dello storico Eugenio Lazzareschi con riferimento al 1035, ci descrive una famiglia di origine longobarda (con relativi stemmi araldici) che lui all’epoca identifica come Pierotti. Ancora nel XIX secolo i Prosperi avevano legami parentali con membri di questa famiglia. Peraltro Ghivizzano fu terra di Castruccio Castracane degli Antelminelli, Longobardo appartenente alla famiglia dei Porcaresi. La prima mogle di Paolo Guinigi fu una Antelminelli, erede di Castruccio e riposa in San Francesco di Lucca. Tutti i Prosperi hanno le loro tombe nella medesima celebre chiesa lucchese. Ed appartennero in taluni casi per giunta all’Ordine Francescano.

(marzo 2014)

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