Medioevo tra storia e leggenda
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La Spada nella Roccia

La Spada nella Roccia alla Rotonda di Monte Siepi (Italia)

Uno studio di qualche anno fa sulla Spada nella Roccia, che si conserva a San Galgano presso Siena, mette in discussione la possibilità che ci sia un legame con la famosa Excalibur del «ciclo bretone». Quella spada non è di Re Artù? Ci sono molte analogie ma anche molte differenze tra i due episodi. L’arma della Tavola Rotonda viene estratta da un’incudine e non dalla pietra, mentre il cavaliere toscano la pianta a terra. Ancora ci sorprendiamo a chiederci a chi appartenesse Excalibur: se a un Re o ad un Santo, ad Artù o a Galgano.

La spada nella roccia rappresenta uno dei principali miti cavallereschi medievali che lo storico Franco Cardini affrontò nel 1982 attraverso un saggio su San Galgano, l’eremita senese che visse tra Chiusdino e Monte Siepi, dove ancora oggi accorrono migliaia di turisti. Lo storico Cardini osservò che poteva esistere un’analogia tra le vicende del cavaliere toscano e quanto narrato dalle gesta bretoni, secondo cui divenne Sovrano Inglese chi riuscì a estrarre il gladio ormai inciso nella pietra. Artù come Galgano?

Quest’ultimo, contrariamente ad Artù, piantò la sua arma nella roccia per cambiar vita e dedicarsi alla religione. Un mito che si ripete, e che fu ripreso da studiosi soprattutto italiani, i quali vollero avvicinare i due episodi, il mito della Tavola Rotonda e il culto toscano. Lo storico Mario Arturo Iannaccone ha scritto un libro dal titolo La Spada nella Roccia dove riconosce che le due vicende sono coeve, ma non si dichiara assolutamente convinto di una reciproca dipendenza. Secondo lo storico, sin dalle origini la spada di Artù è inserita in un’incudine, che a sua volta è posata su un parallelepipedo di pietra.

Il poeta inglese Thomas Malory, da cui si è mutuato il mito arturiano, ci parla di una spada infissa in un’incudine di acciaio, posta su un blocco di marmo.

Questa è l’immagine che permane fino a metà Ottocento, con un Re Artù che estrae inginocchiato una spada dall’incudine. Le fonti italiane, che si riferiscono al processo di beatificazione di San Galgano, sostengono anch’esse che il cavaliere infisse la spada in verticale, come si trattasse di una croce, ma in zone erbose. L’immissione nella roccia è successiva, per difendere la spada da alcuni facinorosi. Gli stessi affreschi sull’episodio mettono in evidenza luoghi erbosi.

Dobbiamo poi tener conto delle differenze tra un Artù che con quel gesto abbraccia le cose mondane, divenendo Re, ed un San Galgano, che col suo gesto abbandona il mondo per diventare un eremita.

Le affinità comunque non mancano. Sono stati fatti parallelismi tra il nome di Galgano ed il cavalier Galvano, nipote di Artù; tra la madre vedova del futuro Santo e la Dama vedova, genitrice di Parsifal; tra la Rotonda di Monte Siepi, dove si trova oggi la spada e la Tavola Rotonda di Artù. Possibile trasformare la vicenda di Galgano in una sorta di ripetizione simbolica della leggenda di Artù? Questo potrebbe sottrarre valore storico alla vera esperienza dell’eremita di Chiusdino. Dunque, in ultima analisi, Toscana o Britannia?

Voglio qui porre all’attenzione alcune questioni che investono la vicenda di Re Artù, di Galgano e della loro mitizzazione medievale.

Nella mia città, Lucca, c’è stata una famiglia che a partire dal Medioevo fu costituita da farmacisti, i Galgani. I canoni alchemici non erano disdegnati dai farmacisti dell’epoca ed ho sempre a livello personale, s’intende, associato il nome di San Galgano a quello della Santa Lucchese, Gamma Galgani, cui peraltro sono devota e che bene ha saputo interpretare la fede nel suo tempo, continuando ad illuminare credenti e non credenti. Sicuramente non ci possono essere analogie con quelle accuse agli alchemici, massoni e quant’altro di voler perpetuare il mito di Artù in San Galgano. Ma un dubbio permane.

Proporrei perciò all’attenzione i particolari legami di Artù e del Sacro Graal, altra leggenda medievale, con le scritte che compaiono sul Duomo di Modena, località del Centro-Nord non così distante da Chiusdino e da Lucca, anch’essa, nel profondo Medioevo, prima cioè delle vicende di Galgano, di pertinenza matildica. In proposito giustamente si è affermato che Dan Brown per il suo Codice da Vinci l’ha ignorata, ma la Porta della Pescheria a Modena è un luogo dove la leggenda di Artù è stata scritta sulla pietra, quasi cento anni prima che Chrétien de Troyes la narrasse nel suo poema incompiuto Perceval le Gallois ou le Conte du Graal. L’imponente libro di pietra rappresentato dal Duomo non può che stupirci con i codici cifrati e i messaggi esoterici.

La Porta della Pescheria

Rilievi della Porta della Pescheria del Duomo di Modena (Italia)

La Porta della Pescheria è così chiamata perché situata presso un banco in cui veniva venduto il pesce, Pescheria era anche l’entrata destinata al popolo. I rilievi che adornano quella porta restano tutt’ora un mistero che presenta molte chiavi di lettura. Una delle più affascinanti è indubbiamente quella che accomuna il Duomo con la ricerca del Sacro Graal.

Inusuale che su una cattedrale vengano scolpite le gesta di un eroe come Re Artù. Perché i costruttori vollero dare questo messaggio? Una probabile risposta possiamo cercarla nella magnetica figura di Matilde di Canossa, che fu presente alla posa della prima pietra del Duomo nel 1099, essendo ella tra i più imponenti committenti e finanziatori dell’opera. Alla Corte di Matilde giungevano spesso cantori franco-bretoni, che avrebbero potuto narrare le vicende di Artù secoli prima che venissero poste per iscritto. La storia narrata sulla porta potrebbe essere letta come un’allegoria della conquista di Gerusalemme, qui impersonata da Ginevra, con Artù e i suoi cavalieri nella parte di Goffredo di Buglione e dei Crociati. I lavori del Duomo iniziarono il 9 giugno 1099 e il 15 luglio avvenne la conquista della Città Santa.

Matilde e Papa Urbano II erano stati grandi promotori di questa Prima Crociata. L’archivolto della porta descrive infatti l’assalto di alcuni cavalieri armati di lance ad un castello. Al centro del castello si nota una prigioniera (Ginevra) intenta a supplicare a mani giunte i cavalieri posti alla sua destra mentre il suo carceriere (Mardoc) sta sollevando il ponte levatoio. Sopra ogni personaggio è scritto il nome corrispondente. Partendo da sinistra guardando la porta frontalmente, il primo cavaliere è Isdemus (Yder o Sir Ivano); il secondo, più misterioso, senza nome, ci fa capire di essere un cavaliere perché dotato di scudo, spada e lancia ma è senza elmo ed armatura. Tra esso e il cavaliere che lo segue è posta la scritta «Artus de Bretania», facendo sorgere il dubbio su chi dei due sia Artù. Il personaggio successivo è Burmaltus (Burmalt), un villico gigante che prosegue a piedi armato di piccone in difesa del castello. Seguono la prigioniera, il castello ed il carceriere, poi, a destra ritroviamo i cavalieri. Il primo è Corrado (Carados) che difende il castello dagli altri cavalieri in arrivo: Galvagin (Sir Galvano), il nipote migliore tra i cavalieri della Tavola Rotonda e nipote di Re Artù perché figlio di sua sorella Morgana e del Re Lot, la cui forza dipendeva dalla luce solare, essendo egli invincibile solo di giorno; segue Che (Sir Kay), uno dei primi cavalieri della Tavola Rotonda, noto come Siniscalco. Artù viene presentato come «di Britannia» e non come «Re», volendo così intendere la descrizione come si trattasse di un Artù comandante britannico-romano delle truppe celtiche che nell’anno 500 dopo Cristo difese i confini dell’Impero Romano e la Britannia dalle invasioni dei Sassoni e degli Angli. Ma abbiamo un’altra coincidenza che circonda ulteriormente di mistero la Porta della Pescheria.

La Porta dei Leoni

La lunetta della Porta dei Leoni della Basilica di San Nicola a Bari (Italia)

Nella Basilica di San Nicola a Bari, sulla Porta dei Leoni (o Porta degli Otto Cavalieri) viene narrata la stessa scena con otto cavalieri, quattro per lato, che danno l’assalto ad una città con un castello turrito. L’epoca di questo rilievo è coeva di quello della Porta della Pescheria modenese.

Bari era uno dei porti da cui i Crociati partivano per la Terrasanta e quindi questa allegoria prende ancor più valore. Dobbiamo chiederci se davvero le vicende di Artù (mito o realtà) fossero così distanti da quelle nostrane oppure se davvero «coincidenti». Bretagna, territori tosco-emiliani, terre pugliesi. Forse lo stesso percorso e gli stessi contatti. Dunque come dare per scontato che la vicenda di San Galgano, cui rimando, non richiami davvero la Tavola Rotonda ed i cavalieri di Artù? Le coincidenze, anche in questo caso, sono davvero molte; ritengo superiori alle differenze, ma questa è una mia personale opinione. Certamente esiste un filo conduttore, un fraseggio e/o racconto che si perpetua nei secoli e che riconduce, ritengo, ad una comune matrice.

(ottobre 2016)

Tag: Elena Pierotti, San Galgano, Medioevo, Spada nella Roccia, miti bretoni, Excalibur, Chiusdino, Re Artù, Sacro Graal, Mardoc, Galvano, Re Lot, ciclo arturiano, Italia, Toscana, Franco Cardini, Mario Arturo Iannaccone, Thomas Malory, Parsifal, Galgani, Lucca, Chrétien de Troyes, Porta della Pescheria, Modena, Matilde di Canossa, Papa Urbano II, Basilica di San Nicola, Bari, porta dei Leoni, Porta degli Otto Cavalieri, Ginevra, Tavola Rotonda.