Il Santo e il suo pittore
Due tra le figure più rappresentative del Duecento italiano

La civiltà comunale ha prodotto grandi personalità: Santi, artisti, pittori, poeti. Basta citare i nomi più importanti: San Francesco, Giotto, San Tommaso d’Aquino, Dante Alighieri. Ognuno insuperabile nel suo campo.


San Francesco d'Assisi

San Francesco è una di quelle figure di cui molti ritengono di saper tutto, mentre in realtà sanno molto poco. Se si chiedesse qualche fatto particolare della sua vita, quasi tutti citerebbero «come Santo Francesco… predicò agli uccelli e fece stare quete le rondini» o «del santissimo miracolo che fece Santo Francesco, quando convertì il ferocissimo lupo d’Agobbio»; questi fatti ci sono stati narrati insieme a molti altri, con grazia ingenua e semplice, nel libro dei Fioretti di San Francesco redatto da Tommaso da Celano, il primo biografo della vita del Santo, oltreché uno dei suoi primi seguaci. Sono così vividi e verosimili nelle descrizioni, e in linea con la spiritualità di Francesco, che non possiamo classificarli come pure invenzioni. Davvero gli uccelli si fermarono ad ascoltare Francesco che raccomandava loro di lodare Dio per la libertà che avevano di volare in ogni luogo, per le piume calde e colorate, per il cibo che ricevevano senza dover coltivare la terra? Davvero il lupo di Gubbio gli pose in mano la propria zampa, e da quel momento non aggredì più né uomini né animali? Non possiamo ignorare che esistono uomini che hanno un forte ascendente sugli animali, e Francesco potrebbe essere stato uno di questi. Ma dobbiamo andare più oltre.

Che dire, dunque, di Francesco? Sappiamo che nacque nel 1181 o 1182 ad Assisi, una bella città con le case dipinte a colori vivaci, immersa nel verde e nell’argento degli ulivi, nel cuore dell’Umbria; il padre era Pietro di Bernardone, un ricco commerciante di stoffe, e la madre Pica, una donna modesta di origine provenzale. Sappiamo anche che Francesco si chiamava… Giovanni! Francesco era un soprannome, che gli venne dato perché «francesca» (francese) era sua madre. È verosimile che da piccolo lo chiamassero col diminutivo «Cecco» o più probabilmente «Cicco».

Francesco trascorse l’adolescenza negli agi. Era un privilegiato, il giovane più ricco della città, e con una cultura di tutto rispetto: conosceva l’italiano, il latino e un po’ il francese; sapeva cantare e comporre poesie. A quei tempi erano famosi i trovatori, i menestrelli ed i giullari, poeti erranti che andavano da un castello all’altro e nei villaggi a rallegrare i signori ed il popolo con le loro storie cantate: anche Francesco era a suo modo un trovatore, o piuttosto un giullare (come egli stesso si definiva), e il più allegro delle spensierate brigate che si riunivano per cantare e danzare, scherzare e banchettare; più volte gli abitanti di Assisi furono svegliati dai loro schiamazzi notturni. Già in quegli anni di vita spensierata si rivelavano in Francesco due qualità: la generosità e l’allegria. Francesco dava a tutti: agli amici soprattutto, ma anche ai poveri, e i suoi doni erano accompagnati dal sorriso, perché la sua gioia più grande era di vedere gente contenta intorno a sé.

La letteratura agiografica ce lo descrive come un bel ragazzo, con gli occhi e i capelli neri, le mani lunghe e bianche, l’espressione gentile e la voce melodiosa. La più antica immagine è data invece da un affresco del Sacro Speco, a Subiaco, probabilmente eseguito quando il Santo era ancora vivo: Francesco vi appare con un’espressione dolce e serena, e con gli occhi chiari. In realtà, sembra che non fosse questo gran campione di bellezza che ci aspetteremmo, nemmeno secondo i canoni del suo tempo.

San Francesco

Raffigurazione di San Francesco d'Assisi in un affresco di Cimabue nella basilica di Assisi; si ritiene che sia l'immagine più fedele del Santo

Si occupava poco del negozio paterno. Anzi, il padre si lamentava spesso perché il figlio spendeva più di quanto guadagnasse. Lui però, non aspirava a diventare ricco: come molti altri giovani desiderava il potere, e per ottenerlo divenne cavaliere. Per un giovane del tempo, essere un grande cavaliere aveva molta più attrattiva che essere un ricco mercante.

Nel 1202, l’esercito di Assisi marciò contro la città di Perugia. Francesco andò in guerra, ma due anni dopo venne fatto prigioniero a Collestrada e, passato un anno in carcere (dove ebbe modo di leggere il Vangelo), fu rimpatriato.

Riprese le armi al servizio del Papa, ma mentre si recava a combattere fu colto da una malattia. Ricoverato nella città di Spoleto, mentre era a letto con la febbre alta udì una voce che gli chiedeva: «Perché hai abbandonato il Signore per obbedire agli ordini degli uomini? Ritorna a casa, là ti verrà detto quello che devi fare».

Tornato ad Assisi, Francesco si interessò sempre meno agli affari paterni. Spesso si recava in una povera cappella appena fuori città, dedicata a San Damiano. Fu lì che, mentre era immerso nella preghiera, sentì la voce di Gesù che gli parlava dal crocifisso: «Francesco, va’, ripara la Mia casa che, come vedi, è tutta in rovina!». Era il mese di febbraio del 1207.

Fu questo il primo dei due eventi che lo indussero a rinunciare a tutto ciò che fino ad allora aveva sempre cercato: potere, onori, ricchezze. Il secondo fu l’incontro con un uomo col volto e le mani sfigurate dalla lebbra, che gli chiese l’elemosina. Francesco dapprima si scansò, disgustato dalla vista e dal fetore che emanava dal malato; ma subito dopo smontò da cavallo, andò verso l’uomo, gli diede dei soldi, lo abbracciò e lo baciò: sentì una grande gioia e una grande pace invadergli l’anima. «Essendo io in peccato, troppo amaro mi sembrava vedere i lebbrosi, ma lo stesso Signore mi condusse fra loro ed io esercitai misericordia con loro. E partendomene, ciò che mi era apparso amaro mi fu convertito in dolcezza nell’animo e nel corpo. E poi tardai poco e uscii dal secolo»: egli stesso descrisse così la sua «conversione», che consistette nel trovare fonte di gioia spirituale e materiale in quello che la debolezza umana ritiene fonte di vergogna e di dolore.

Francesco lasciò quindi la casa di suo padre e si ritirò a vivere nella vecchia chiesa di San Damiano. Si mise a riparare quella e le altre chiese dei dintorni improvvisandosi muratore, andò a servire in un lebbrosario improvvisandosi «infermiere», tutto senza chiedere un soldo. Quando suo padre venne a sapere che Francesco svolgeva lavori umili, chiedeva l’elemosina e vestiva un rozzo saio stretto alla cintola da una ruvida corda, non riuscì a contenere la propria rabbia (suppongo perché il figlio lo metteva in imbarazzo): gli ordinò di tornare subito a casa, arrivò addirittura ad imprigionarlo con una catena ai piedi. Ma ormai Francesco era deciso: «Ora desidero servire Dio».

Davanti al Vescovo restituì al padre i pochi soldi che ancora aveva con sé, si spogliò dei suoi vestiti e li gettò ai suoi piedi. Allora il Vescovo lo coprì con il proprio mantello. Francesco rimase a San Damiano e ricominciò a restaurare la cappella che era in rovina. Molti suoi concittadini, ammirati, venivano ad aiutarlo, lavorando e cantando insieme.

Due anni dopo, durante la Messa ascoltò il brano del Vangelo che dice: «Va’ e annuncia che il Mio Regno è vicino». Francesco cominciò ad andare nelle piazze delle città, parlando del Vangelo, della povertà e di Gesù. Povero, scalzo, sotto la pioggia, nel freddo, senza un tetto, girava predicando la Parola di Dio e facendo penitenza. Il suo ideale era di vivere il Vangelo alla lettera, soprattutto la perfetta povertà.

Bernardo, Silvestro, Egidio ed altri cittadini di Assisi decisero di ritirarsi con lui a vivere in povertà e in preghiera. Francesco li accolse con gioia, chiedendo loro di dare tutto agli altri, senza chiedere nulla in cambio. «Se possedessimo beni» diceva, «avremmo bisogno di armi per difenderli». Viaggiavano spesso, camminando a piedi scalzi, vivendo del cibo che donava loro la gente, senza accettare denaro; andavano a predicare e dormivano nei granai, nei lebbrosari o sotto i portici delle chiese.

Ben presto, migliaia di persone, trascinate dall’esempio di Francesco, vollero mettersi alla sua sequela e calcarne le orme. Tutto il Duecento era percorso da questo ideale della povertà, da questo ascetismo, e dalla vita a contatto con la natura.

Francesco e i suoi compagni decisero di chiamarsi «Frati penitenti» o «Frati Minori». «Frati» perché si consideravano fratelli di tutti. «Minori» perché volevano essere i più umili fra i seguaci di Gesù. Talvolta erano presi in giro dalla gente ed anche malmenati. Francesco diceva allora che la cosa più bella era sopportare il dolore con pazienza e gioia, pensando alle sofferenze che Gesù aveva sopportato morendo sulla croce per salvarci.

Le sue buone qualità divennero eccelse virtù: la generosità istintiva si trasformò in carità fervente ed intenso amore per tutti (spesso si toglieva di dosso gli abiti per darli ai poveri che incontrava per la strada) e la sua allegria si convertì in intima gioia e in serena, lieta partecipazione alla bellezza del creato, alle cose semplici e pure della vita. L’allegro stornellatore delle brigate chiassose diventò così «il giullare di Dio», come egli amava definirsi e, nel nome di Dio, amava tutti e tutto, gioiva di ogni piccola cosa.

Cominciò a spargersi la voce che Francesco fosse un Santo: lui negava, e più negava, più la gente si convinceva che fosse davvero un Santo. Si raccontò che compisse miracoli, guarigioni ed esorcismi; a Siena, le sue parole posero fine ad una guerra civile che da tempo insanguinava la città.

Francesco amava molto Dio e tutto ciò che Egli aveva creato: si sentiva fratello di ogni creatura. Amava soprattutto gli uccelli. Voleva supplicare l’Imperatore Federico II, gran falconiere, di emanare una legge che impedisse a chiunque di prendere o far del male alle allodole; raccomandava ai signori di spargere, il giorno di Natale, del grano fuori dai castelli e dalle città, perché le allodole e gli altri uccelli avessero da mangiare; fece costruire dei nidi che presto si riempirono di tortore.

All’inizio del 1210, Francesco e i suoi frati decisero di recarsi a Roma per chiedere al Papa il riconoscimento del loro nuovo Ordine religioso. Dapprima il Pontefice sembrò maldisposto nei loro confronti; narra però una leggenda che, la notte seguente il loro arrivo, il Papa fece un sogno: la Chiesa era scossa dalle fondamenta e stava per crollare, quand’ecco che Francesco si avvicinò e la sostenne col suo fragile corpo. Il Papa lo interpretò come un segno del Cielo e concesse a Francesco la tanto desiderata approvazione.

Francesco amava molto sua madre, donna Pica, e di conseguenza Maria, la Madre del Signore. A Lei si rivolgeva con tenerezza e confidenza, la onorava e la circondava di rispetto perché aveva permesso a Dio di farsi uomo nel suo grembo, le dedicava canti, preghiere e lodi. Anzi, chiedeva ai suoi frati che si rivolgessero anche a lui con l’appellativo di «madre».

I Benedettini regalarono a Francesco ed ai suoi frati la Cappella di Santa Maria degli Angeli, un luogo solitario vicino ad Assisi: si chiamava Porziuncola («piccola parte») e intorno ad essa i Francescani fondarono il loro primo convento.

Tra le persone che ammiravano Francesco c’era anche una ragazza di nome Chiara degli Sciffi. Come Francesco, voleva amare Dio con tutto il cuore e fondò un Ordine simile al suo per le donne. Le Clarisse (così si chiamavano) tessevano e filavano, curavano gli ammalati e soccorrevano chiunque avesse bisogno di aiuto. Chiara divenne la «coscienza forte» di Francesco, la persona a cui lui chiedeva consiglio – tra i due, era Chiara l’elemento di gran lunga dominante.

In seguito, venne fondato un nuovo Ordine francescano: i Terziari. Erano uomini e donne che vivevano nelle città, svolgendo le loro normali attività e aiutando i frati nel loro lavoro e nelle loro opere di carità.

I Francescani erano missionari: a due a due come gli Apostoli, portarono il Vangelo nelle città di tutta Italia, invitando la gente a lodare e benedire Dio, ad onorare il Signore, a fare sempre tutto il bene possibile. Il loro arrivo era annunciato con giorni d’anticipo nelle chiese, e la gente correva loro incontro, li accoglieva con fiori, stendardi e canti. Tutti s’inginocchiavano al passaggio di Francesco, alcuni cercavano di prendergli un pezzo di tunica per farne una reliquia.

Un grande desiderio di Francesco era quello di portare il Vangelo anche ai non credenti. Decise così di seguire i Crociati e andare in Egitto per convertire il Sultano al-Malik al Kāmil, musulmano. Insieme a frate Illuminato, attraversò il terreno che stava tra l’accampamento cristiano e le mura di Damietta gridando «Soldàn! Soldàn!» alle guardie che sostavano sugli spalti, e che probabilmente stavan già prendendo la mira per crivellare di frecce quei due «folli».

Non sappiamo quali e quanti frutti raccogliesse Francesco da questa sua missione. Le fonti agiografiche dicono ch’egli «convertì tutta Babilonia», ma si tratta di un’evidente esagerazione. Quel che è certo, è che il Sultano, colpito dalla personalità di Francesco e dalla sua mitezza, lo lasciò predicare liberamente ai suoi sudditi, anzi gli consegnò un salvacondotto col quale poté visitare indisturbato la Palestina; nelle fonti islamiche del tempo viene ricordata la visita «di quel famoso monaco». Molti anni dopo, in punto di morte, il Sultano fece chiamare due frati ai quali chiese di ricevere il battesimo.

Tornato in Italia, Francesco riprese la sua opera di diffusione del Vangelo. Si avvicinava il Natale e nel paese di Greccio, vedendo un bambino appena nato, ebbe l’idea di rappresentare la nascita di Gesù. La notte di Natale gli abitanti di Greccio e dei paesi vicini si vestirono da pastori, portarono ceri e fiaccole, parteciparono con gioia alla sacra rappresentazione. Le foreste risuonarono di voci e di cori festosi. Fu così che, secondo la tradizione, nacque il presepio!

Ormai, Francesco era stanco e malato. Nel 1224 lasciò Assisi con tre frati e si stabilì sul Monte della Verna, vicino a Chiusi: viveva in una capanna al di là di un profondo burrone, dedicandosi alla preghiera e alla penitenza. Solo frate Leone aveva il permesso di andarlo a visitare, e solo due volte al giorno. Era sempre più inquieto, convinto di aver fallito tutto; arrivò addirittura a pensare di suicidarsi, gettandosi giù da quella che ancor oggi è indicata come la «roccia del suicidio».

Il 14 settembre di quello stesso anno, dopo un lungo digiuno e una notte passata in preghiera, Francesco vide un angelo scendere dal cielo verso di lui: era Gesù crocifisso!

Quando la visione svanì, sentì strani dolori e vide che sui piedi, sulle mani e sul fianco erano comparsi neri chiodi carnosi e nel petto si era prodotta una ferita sanguinante – le stigmate, cioè i segni delle ferite provocate sul corpo di Gesù dai chiodi con cui fu crocifisso e dalla lancia che lo trafisse. Tommaso da Celano usa una bellissima espressione: «l’amante si fa come l’Amato». Fu questa l’autentica, la definitiva conversione di Francesco; da questo momento in poi, sappiamo pochissimo della sua vita.

Di certo, si sa che tornò ad Assisi: la sua vista si era indebolita ed era divenuto quasi cieco. Assistito con amore da Chiara, compose il Cantico di Frate Sole o Cantico delle Creature, la prima opera interamente scritta non in latino, ma nella lingua parlata dal popolo (il volgare umbro); inventò anche una musica per poterlo cantare, melodia che purtroppo non ci è stata conservata:

«Altissimu, onnipotente, bon Signore,
Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad Te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu Te mentovare.
Laudato sie, mi’ Signore cum tucte le Tue creature,
spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora Luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le Tue creature dài sustentamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’Aqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore
et sostengo infirmitate et tribulatione.
Beati quelli ke ’l sosterrano in pace,
ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai acquelli ke morrano ne li peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ’l farrà male.
Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate».

Nel Cantico, il Signore è lodato in quanto creatore degli elementi naturali, definiti con tratti essenziali nelle loro caratteristiche e nella loro funzione in rapporto all’uomo. In una fase di espansione della società urbana (e quindi di mestieri, traffici, scuole, gruppi intellettuali…), Francesco proponeva un rapporto elementare e diretto dell’uomo con l’ambiente. La natura era il tema scelto per esprimere il rifiuto della città e di quel che essa favoriva, come la concentrazione e lo sviluppo del lavoro umano, lavoro che non a caso è assente dal quadro di valori che il Cantico presenta. A Francesco non stava a cuore la trasformazione del mondo fisico per opera dell’uomo, ma l’accettazione del «naturale» nella sua totalità – compresa la morte – in quanto manifestazione di Dio.

Poco dopo riacquistò un po’ la vista, e partì a dorso di mulo per un nuovo viaggio di predicazione: ma ben presto la stanchezza e le malattie lo costrinsero a tornare ad Assisi. Qui, il Vescovo insistette per farlo ricoverare nel suo palazzo, nonostante le proteste di Francesco che preferiva rimanere in una povera capanna.

Quando il Vescovo dovette partire, Francesco si fece riaccompagnare alla Porziuncola, circondato dai frati che amava. Disse loro di accontentarsi di «chiese povere e abbandonate» e di non trasferirsi nelle ricche case che volevano donar loro i cittadini di Assisi, di rimanere fedeli ai voti di povertà, di obbedire sempre al Papa e alla Chiesa.

Poi, quando sentì che la fine era ormai vicina, chiese di spogliarlo della tunica e di deporlo sulla nuda terra, ricoprendolo di cenere e di polvere. Quindi intonò il Salmo 141, che dice: «Libera la mia anima dalla sua prigione perché io possa benedire il Tuo nome».

Francesco morì a quarantaquattro anni, il 3 ottobre del 1226: morì cantando un salmo, in un ultimo gesto di lode a Dio. Migliaia di persone accorsero da tutta la regione per onorarne le spoglie. Quelli che lo avevano conosciuto avevano avuto l’impressione di trovarsi di fronte non un discepolo di Cristo, ma Cristo stesso tornato sulla terra; due anni dopo la sua morte, Papa Gregorio IX lo proclamò Santo: il più Italiano dei Santi e il più Santo degli Italiani.

I Francescani si diffusero presto in tutto il mondo, mentre la vita di Francesco colpiva sempre di più le folle ed anche i poeti, fino ad assomigliare ad una leggenda. Molti Francescani divennero Santi, altri scienziati, filosofi, educatori, oppure furono Vescovi, Arcivescovi, Papi, e cominciarono a riformare la Chiesa. Moltissimi, seguendo l’esempio di San Francesco, si misero in viaggio per portare il Vangelo in terre lontanissime, affrontando ogni genere di pericoli; a metà del Duecento, anche Pechino aveva una comunità francescana.

La vita predicata da San Francesco consiste nel vivere in obbedienza e in carità, nello spogliarsi di tutto, nel non ritenersi primi tra i fratelli, nell’andare raminghi a predicare la conversione in vista del Regno di Dio, nel domandare i mezzi del proprio sostentamento al lavoro, anche il più umile, e all’elemosina; ma senza accettare denaro, per seguire la povertà di Cristo che pose il suo volto sulla pietra durissima. I fratelli si devono considerare sempre come ospitati, pellegrini e stranieri, e devono essere pronti a cedere il loro giaciglio a chi lo richiede. Devono accogliere tutti, anche i nemici, i ladri e i masnadieri. Diano a chi chiede, non richiedano il tolto. Chi digiuna non giudichi chi mangia e a tutti sia lecito mangiar tutto. Quando si è malati non si desideri alleviare il tormento del corpo prossimo a morire.

Per questo il movimento francescano investiva tutti gli aspetti della vita, nell’Europa agitata da una terribile crisi (la Chiesa impegnata nella lotta contro l’Impero; l’affermarsi dei Comuni Italiani, con le loro lotte interne e il conseguente enorme spostamento di interessi economici e sociali). Anche il movimento valdese, l’umiliato, l’arnaldista ed altri si erano presentati quali tentativi di compiere la purificazione della società con la predicazione dell’autentica povertà evangelica; ma laddove questi movimenti erano animati tutti da una netta opposizione alla Chiesa di Roma, ritenuta fonte di ogni male, San Francesco professò sempre verso la Chiesa rispetto e sottomissione: essa era per lui l’unica fonte di disciplina e di dottrina, centro di tutta la vita religiosa!


Giotto di Bondone

Il Santo era morto da poco e già sorgeva ad Assisi una grande basilica che portava il suo nome. I Francescani volevano celebrare nel modo più degno il fondatore del loro Ordine e, per affrescarne le pareti, chiamarono Cimabue e Cavallini, i più grandi pittori di quel tempo; ma affidarono l’opera più importante, e cioè la decorazione della navata centrale della basilica, ad un giovane pittore: Giotto di Bondone.

Di lui sappiamo poco. Nato a Vespignano di Mugello (Firenze) nel 1267 o nel 1276, si formò alla bottega di Cimabue. Narra un aneddoto che fu proprio Cimabue a scoprire l’abilità del giovane: un giorno stava camminando per le montagne del Mugello quando, giunto in un prato, vide diverse pecore intente a pascolare e, poco discosto da esse, un giovane pastore che se ne stava seduto su di un sasso e aveva davanti a sé una pietra liscia, sulla quale sembrava intento a disegnare con un pezzetto di legno bruciato o con un sasso «un poco apuntato», scrive il Vasari. Cimabue, preso da curiosità, si avvicinò e vide che il piccolo pastore aveva copiato una delle sue pecorelle; il disegno era di grande bellezza e realismo, anche se fatto con un «pennello» tanto rozzo.

Cimabue chiese allora al fanciullo come si chiamava.

«Mi chiamo Ambrogio» rispose il ragazzino. «Ma i miei in casa mi chiamano Ambrogiotto e più spesso Giotto».

Cimabue gli chiese poi se desiderava perfezionarsi nell’arte del disegno e se voleva imparare a diventare pittore. Il piccolo Giotto disse di sì, pieno di entusiasmo.

Cimabue andò allora dal padre del fanciullo, un contadino di quelle terre (alcuni studiosi dicono ch’era invece un fabbro fiorentino), e ottenne di poter condurre con sé a Firenze il piccolo pastorello.

Lo condusse nella sua bottega come aiutante, e Giotto divenne ben presto il suo migliore allievo. Anzi, superò il suo maestro, come riconoscevano i suoi contemporanei: lo stesso Dante, nella Divina Commedia, ricordando questi due pittori, canta che «credette Cimabue nella pintura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui oscura».

Nella bottega di Cimabue, Giotto rimase per dieci anni, dal 1280 al 1290 circa. Diventò ben presto abilissimo nella sua arte e cominciò a dipingere a Firenze, in alcune chiese. Ma nessuna sua opera ci è rimasta di quegli anni.

Si avvicinava intanto il 1300, l’anno del Grande Giubileo, e il Papa aveva deciso di abbellire le chiese di Roma perché molti pellegrini avrebbero visitato la città.

Chiamò un suo cortigiano e lo incaricò di recarsi in Toscana, per chiedere ai migliori pittori di quella terra un saggio della loro arte. L’incaricato del Papa andò naturalmente anche nella bottega dove lavorava Giotto, ma questi non aveva nulla da dargli. Prese però un pennello, lo intinse nel colore e disegnò su di una tavoletta… un cerchio, soltanto un cerchio. Ma era così preciso, tracciato con una torsione del polso perfetta, che pareva fatto col compasso.

L’incaricato del Papa rimase sorpreso: aveva quasi vergogna di portare al Pontefice un disegno così semplice. Invece il Papa, quando esaminò i vari dipinti, guardò con il maggiore interesse proprio quel cerchio. Solamente un pittore abilissimo poteva fare a mano libera un disegno così perfetto…. e, per dipingere le chiese di Roma, scelse proprio l’autore di quel disegno, Giotto. Questi dipinse nella chiesa di Santa Maria Maggiore alcune figure di profeti.

Ma si rivelò insuperabile nella decorazione della basilica di Assisi: vi dipinse ventotto grandi tavole che illustrano i fatti più straordinari della vita di San Francesco: la rinuncia ai beni paterni, la predica agli uccelli, il lupo di Gubbio, la sorgente miracolosa, eccetera. La sua pittura è umana, i suoi ritratti hanno una grande dolcezza, i volti – alcuni dei quali di maestà classica – commuovono per il loro naturalismo, così diverso dalla ieraticità della tradizione bizantina: curatissimi sono i particolari, l’esattezza geometrica del disegno a cui si unisce la precisione dello studio della luce (con un esatto gioco di chiari e di scuri, di oggetti in luce e di oggetti in ombra); gli edifici sono disegnati in prospettiva e perfettamente riconoscibili ancor oggi, come avviene nell’episodio raffigurante l’Omaggio di un semplice, ambientato nella Piazza Maggiore di Assisi, ove campeggia la facciata della chiesa ricavata dal tempio di Minerva, a lato il Palazzo e la Torre del Popolo nella forma che aveva fino al 1305. Con Giotto inizia una pittura italiana che avrà punte di genialità per tre secoli – una pittura «moderna» nel senso letterale del termine; senza di lui, lo sviluppo della pittura fino ad oggi sarebbe stato sicuramente assai diverso.

Nonostante avesse lavorato volentieri per i Francescani e fosse un ammiratore del Santo, Giotto non voleva esser povero come lui: anzi, contro quella che per San Francesco era «Madonna Povertà», Giotto scrisse una poesia, forse l’unica che compose in vita sua. Ma ai suoi figli (ne ebbe otto!) lasciò dei nomi tipicamente francescani: due li chiamò col nome del Santo, ed una figlia chiamò Chiara. Si dimostrò un buon padre, amava teneramente i suoi figlioli e li volle far crescere sani ed agiati: per loro, e per la sua buona moglie, Ciuta di Lapa del Pera, egli acquistò dei terreni e una grande casa nel Mugello.

Tra il 1303 e il 1305, Giotto fu a Padova, chiamato dai Francescani che in quella città avevano costruito una grande chiesa in onore di Sant’Antonio, un altro famoso Santo del loro Ordine.

Purtroppo il tempo ha distrutto o gravemente danneggiato i dipinti che Giotto fece per questa chiesa. Si sono invece conservati perfettamente i dipinti che fece a Padova per la Cappella degli Scrovegni.

Cappella degli Scrovegni

L'interno della Cappella degli Scrovegni con la controfacciata e parte del ciclo pittorico delle pareti, Padova (Italia)

Questa chiesetta era di proprietà di Enrico Scrovegni (un usuraio reso celebre da Dante che nella Divina Commedia lo mise all’Inferno), che volle affidare a Giotto l’incarico di ornare le pareti con dipinti a fresco. Sulle pareti laterali Giotto dipinse in trentotto scene la vita di Gesù e di Maria, e sulla controfacciata il Giudizio Universale che, pur legato all’iconografia tradizionale, mostra la mano del maestro nella sconvolgente drammaticità e violenza della composizione dell’Inferno e nell’invenzione delle varie e crudelissime pene alle quali sono sottoposti i dannati, che portano ancora le insegne dei loro ruoli terreni, una sacra rappresentazione che è il parallelo figurativo dell’Inferno dantesco.

Entrare nella Cappella è un’emozione intensissima, sembra quasi di addentrarsi in un enorme scrigno ricolmo dei tesori più preziosi. Ogni minimo particolare delle pitture ha un preciso significato, tanto che si è definito il ciclo di affreschi come il «Vangelo secondo Giotto» (c’è anche una pubblicazione con questo titolo): le pecore che si incamminano verso la grotta della Natività, per esempio, hanno sul dorso un curioso segno a forma di croce… per secoli si è pensato ad un vezzo fantasioso dell’artista, finché un pastore illetterato, vedendo la riproduzione dell’affresco in una fotografia, le ha riconosciute come pecore realmente esistenti, ne aveva anche lui alcune così; e le pianticelle su cui Gesù, appena risorto da morte, poggia i piedi piagati dai chiodi, ad un esame botanico sono risultate piante realmente esistenti, le cui foglie servono ad alleviare il dolore delle ferite!

Resurrezione di Gesù

Giotto, Resurrezione di Gesù, 1304-1306, Cappella degli Scrovegni, Padova (Italia)

Quando Giotto compì quest’opera meravigliosa (che già preannunciava gli sviluppi della pittura del Masaccio), aveva circa quarant’anni; era piccolo di statura e, pare, piuttosto bruttino, ma anche un uomo gioviale e allegro, e le sue facezie divertivano gli amici. Visse altri trent’anni e continuò a lavorare a Napoli, a Bologna, a Milano, ed ancora ad Assisi, accolto dovunque con grande onore; in Santa Croce, affrescò le Cappelle Bardi e Peruzzi. Ma enumerare tutte le sue opere è impresa ardua. (Per chi desiderasse sapere di più su di lui, propongo due testi, entrambi corredati di un ottimo apparato iconografico: Francesca Flores d’Arcais, Giotto, Federico Motta Editore, 2001; Autori Vari, Giotto, Rizzoli, 2004).

L’ultimo lavoro fu un’opera di architettura: il campanile per la cattedrale di Firenze; il 12 aprile 1334 era stato nominato dal Comune fiorentino «magister et gubernator» dell’Opera di Santa Reparata, cioè del Duomo, e architetto delle mura e delle fortificazioni cittadine, carica che mantenne fino alla morte. Ma già in precedenza, a giudicare dalle fonti trecentesche, doveva essersi cimentato nella costruzione di qualche edificio, anche di costruzioni impegnative – il Vasari lo definì «scultore et architetto», oltre che pittore. Suo, per esempio, era il ponte della Carraia a Firenze, una costruzione straordinariamente moderna e tecnicamente perfetta, purtroppo distrutta durante l’ultima guerra e di cui ci restano solamente le fotografie.

Finalmente, nel 1334, già vecchio, Giotto poteva costruire un vero campanile, di pietra viva. Si pose subito con entusiasmo al nuovo lavoro, e, come tutto ciò che usciva dalle sue mani, anche il campanile fu un capolavoro: un edificio assolutamente nuovo e singolare, a base quadrata, serrato agli angoli da quattro robusti pilastri ottagonali e tutto rivestito di marmi policromi, bianchi, rosa e verdi.

Purtroppo Giotto non poté vedere ultimato questo suo capolavoro, perché la morte lo colse, l’8 gennaio del 1337, quando il campanile si levava da terra appena di pochi metri. Fu sepolto nella cattedrale fiorentina di Santa Reparata, con grandi onori e a cura del Comune.

(novembre 2012)

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