La grande carestia del 1033
Rodolfo il Glabro descrive gli effetti, da lui personalmente osservati, della carestia che colpì la Borgogna nel 1033

Probabilmente, il 2020 sarà ricordato in futuro come l’«anno del coronavirus»; la sua rapida diffusione, favorita dalla mancanza di un vaccino, a fatto sì che in molti Paesi la gente sembri in preda a un’insopprimibile frenesia, accaparrandosi generi alimentari come in tempo di guerra e mascherine che – teoricamente – eviterebbero il rischio di contagio a prezzi quasi mille volte superiori a quelli di mercato.

Per quanto insidioso, anche se il virus dovesse colpire ogni parte del globo, ben difficilmente potrebbe provocare la fine del mondo: non ci sono riuscite né la Sars di recente, né la Peste Nera nel Medioevo, entrambe assai più pericolose del coronavirus.

Penso che certi episodi di «isteria collettiva» vadano ascritti non solo ai media, che spesso diffondono informazioni contrastanti, ma anche al fatto che – nei nostri Paesi Occidentali, e non solo – la malattia e la morte vengono viste in modo molto più drammatico che in passato, come qualcosa di estraneo alla natura umana, qualcosa da distruggere e, se proprio non lo si può distruggere, da negare. Ma negare una cosa non vuol dire eliminarla, e la morte è parte essenziale della nostra vita.

Vi furono epoche, nel corso dei secoli, caratterizzate da fluttuazioni incontrollabili dei raccolti, epidemie, carestie su scala continentale, o anche sovracontinentale. Le cronache del tempo abbondano di descrizioni apocalittiche e particolari raccapriccianti. Pensiamo a un periodo come il Medioevo: intorno all’anno Mille dell’Era Volgare, nonostante un certo numero di innovazioni tecniche avesse consentito il miglioramento della produttività, l’economia europea era basata ancora sull’agricoltura, praticata con mezzi rudimentali, orientata verso i cereali inferiori e largamente integrata dalla caccia e dall’allevamento brado. Le variazioni del clima, unite all’incapacità di mantenere le strutture produttive dell’età romana quali strade, canali e sistemazioni dei terreni, portavano le popolazioni ad abbandonare i fondovalle pianeggianti e a salire sulle colline per sfruttarne le terre ancora incolte (oltre che per esigenze difensive): si trattava, tra l’altro, di rese assai scarse, non superiori al doppio della semente anche in aziende tra le più avanzate dell’epoca (oggi arriviamo a rese venti o trenta volte maggiori); nel frattempo boschi e paludi si allargavano in zone prima coltivate, cosicché l’incolto e la foresta divennero elementi caratterizzanti del paesaggio medievale.

Non ci vuole un esperto per immaginare la proliferazione di vari tipi di malattie in un ambiente malsano e tra una popolazione per lo più malnutrita. A questo si possono aggiungere cause naturali, dovute all’instabilità del clima o all’inclemenza del tempo. Vediamo, a titolo di esempio, come la carestia che colpì la Borgogna nel 1033 viene descritta da un diretto osservatore degli eventi: si tratta del monaco cluniacense Rodolfo detto «il Glabro» (Raoul Glaber), che visse presso vari monasteri della Borgogna e a Cluny, intorno al 1048, condusse a termine una storia del mondo, dall’inizio del X secolo, in cinque libri. Noteremo come, fin dalle prime battute, il brano alterni – nella descrizione degli avvenimenti e nella loro spiegazione – i riferimenti ai fatti naturali con quelli agli interventi soprannaturali (le colpe degli uomini provocano la vendetta divina):

«Poco tempo dopo in tutto il mondo la carestia cominciò a far sentire i suoi effetti, e quasi tutto il genere umano rischiò di morire. Il tempo diventò in effetti così inclemente che non si riusciva a trovare il momento propizio per alcuna semina né il periodo giusto per il raccolto, soprattutto a causa delle inondazioni. Gli elementi sembravano essere in guerra tra loro: sicuramente invece essi erano lo strumento di cui Dio si serviva per punire l’orgoglio degli uomini.

Tutta la terra era stata talmente inzuppata dalle continue piogge che nell’arco di tre anni non si poterono preparare solchi adatti alla semina. Al tempo del raccolto le erbacce e l’inutile loglio avevano ricoperto tutta la campagna. Un moggio di semente [8,6 litri circa], quando rendeva tanto, dava al momento della mietitura uno staio [0,5 litri circa], e lo staio a malapena riempiva un pugno. Questo flagello vendicatore era iniziato in Oriente, e dopo aver devastato la Grecia si abbatté sull’Italia, da dove si diffuse nelle Gallie arrivando poi a colpire tutta la terra degli Angli.

Non vi fu chi non risentisse allora della mancanza di cibo, i grandi signori e la gente di media condizione alla pari dei miseri: tutti la fame aveva reso smunti. L’indigenza comune aveva avuto come effetto quello di far cessare la violenza dei potenti. Se qualcuno aveva del cibo, poteva venderlo al prezzo che voleva, anche il più elevato, sicuro di ottenerlo. In più di un caso il costo di un moggio di grano salì a sessanta soldi, in qualche altro un sestario fu venduto addirittura a quindici soldi.

Quando non vi furono più animali o uccelli da mangiare, gli uomini, spinti dai morsi terribili della fame, dovettero risolversi a cibarsi di ogni tipo di carogne e di altre cose che destano ribrezzo al solo parlarne. Alcuni per scampare alla morte fecero ricorso alle radici degli alberi e alle erbe dei fiumi, ma inutilmente, perché non vi è scampo contro la collera di Dio se non in Dio stesso.

C’è da inorridire a raccontare gli orrori commessi in quell’epoca dagli uomini. Ahimè! Come poche volte capitò di udire nel corso della storia, la fame rabbiosa allora spinse gli uomini a divorare carne umana.

I viandanti venivano aggrediti da gente più robusta di loro e i loro corpi, tagliati a pezzi, venivano cotti sul fuoco e divorati. Anche coloro che si spostavano da un paese all’altro nella speranza di sfuggire alla carestia, ospitati lungo il cammino, durante la notte venivano sgozzati e servivano di nutrimento a quegli stessi che avevano dato loro accoglienza.

Molti, poi, mostrando un frutto o un uovo ai bambini, li attiravano in disparte per poterli scannare e poi cibarsene. [È abbastanza credibile: nella seconda metà del secolo scorso i passeggeri di un aereo di linea precipitato sulle Ande furono costretti a cibarsi della carne dei loro compagni di viaggio morti per sopravvivere; e durante la carestia russa del 1921 molti bambini furono realmente mangiati – dai genitori, oltretutto –, così da dare origine al detto che “i comunisti mangiano i bambini”.]

In molti posti i cadaveri dei morti venivano disseppelliti e servivano anch’essi a placare la fame. Questa rabbia delirante arrivò a tali eccessi che le bestie rimaste sole erano più sicure degli uomini di poter sfuggire alle mani dei rapitori.

Quasi che il cibarsi di carne umana fosse ormai diventata una consuetudine alimentare, ci fu un tale che ne portò di già cotta al mercato di Tournus per venderla, come se fosse stata quella di qualche animale. Quando fu arrestato non negò il suo vergognoso crimine: fu allora legato e messo al rogo. Venne bruciato anche un altro uomo che di notte era andato a disseppellire quella carne nel luogo in cui l’avevano sotterrata e l’aveva mangiata.

A tre miglia da Mâcon, nella foresta di Châtenet, sorge una chiesa, isolata e senza cura d’anime, dedicata a San Giovanni. Lì vicino aveva costruito la sua capanna un uomo feroce che massacrava i passanti o i viaggiatori che si fermavano da lui, per preparare con le loro carni abominevoli banchetti. Un giorno venne un tale con sua moglie a chiedere ospitalità e si fermò un po’ a riposarsi. Volgendo però lo sguardo in ogni angolo della capanna, scorse teste mozzate di uomini, donne e bambini. Il volto gli si sbiancò, e cercò di uscire, ma il crudele proprietario della capanna lo bloccò cercando di trattenerlo dentro a forza. L’uomo, atterrito dalla trappola mortale, riuscì ad avere la meglio e con la moglie corse in gran fretta in città. Appena vi giunse andò a riferire al conte Ottone [Ottone conte di Mâcon dal 1026 al 1050, anno della morte] e agli altri abitanti la scoperta che aveva fatto. Essi mandarono subito a verificare il fatto parecchi uomini, che si avviarono rapidamente e al loro arrivo trovarono quel sanguinario individuo nella sua capanna con quarantotto teste di uomini che aveva sgozzato e le cui carni aveva divorato con la sua bocca bestiale. Condottolo in città, lo legarono a un palo in un granaio e poi, come noi stessi siamo stati testimoni, gli appiccarono fuoco. [Sembra che si parli dell’orco di qualche favola per bambini. L’inverosimiglianza del testo, per lo meno nei particolari, è evidente: se davvero vi fossero state nella capanna “quarantotto teste di uomini che aveva sgozzato”, la puzza di cadavere si sarebbe sentita a chilometri di distanza!]

In quella stessa regione si tentarono cose mai sperimentate prima da nessuna altra parte. Molti estraevano dalla terra una polvere bianca simile all’argilla che mescolavano a quel poco di farina o di crusca di cui potevano disporre; cuocevano quindi dei pani coi quali facevano conto di poter scampare alla morte. Questi tentativi servivano a dar loro almeno la speranza di poter sopravvivere, perché in realtà i benefici erano nulli.

Tutti avevano volti pallidi e scavati, e molti la pelle tirata per il gonfiore; la voce stessa degli uomini era diventata talmente fioca da sembrare il verso stridulo che fanno gli uccelli prima di morire.

I cadaveri dei morti, che per il loro gran numero giacevano del tutto insepolti, attiravano i lupi che poi per lungo tempo continuarono a cercar preda tra gli uomini. E proprio perché, come si è detto, il gran numero dei morti non rendeva possibili sepolture singole, alcune persone timorate di Dio scavarono in certi luoghi delle fosse, comunemente chiamate carnai, nelle quali venivano gettati cinquecento e anche più cadaveri, fino a quanti ce ne stavano, alla rinfusa, senza alcun ordine, seminudi o addirittura senza alcun indumento. Anche gli incroci delle strade e i bordi dei campi venivano trasformati in cimiteri. Alcuni sentivano dire che, trasferendosi in altre terre, si sarebbero trovati meglio, ma molti morivano d’inedia durante il viaggio.

Per tre anni il flagello di questa carestia infierì in tutto il mondo, per punire i peccati degli uomini.

Per provvedere alle necessità di chi non aveva nulla, si misero in vendita gli ornamenti delle chiese e si distribuirono i tesori, accumulati un tempo proprio a questo scopo, come si legge nei decreti dei Padri. Ma per i tanti peccati che rimanevano ancora da punire, l’enorme numero dei bisognosi superò in molti posti le possibilità dei tesori delle chiese. [Si riprende qui l’immagine della carestia come flagello voluto da Dio per punire gli uomini dei loro peccati: ma ancora molti delitti andavano puniti, dunque la carestia continuò.]

Succedeva poi anche che gli affamati, stremati da un digiuno troppo prolungato, qualora capitasse loro l’occasione di saziarsi, si gonfiavano e subito dopo morivano. Altri cercavano in qualche modo di afferrare il cibo con le mani per portarselo alla bocca, ma venivano meno senza essere neppure capaci di compiere ciò che desideravano.

Non c’è descrizione che possa dare l’idea del dolore, della tristezza, dei singhiozzi e dei gemiti di coloro che si trovavano a dover assistere a simili avvenimenti, soprattutto uomini di Chiesa, Vescovi, Abati, monaci e monache e in genere tutti coloro che, uomini e donne, laici ed ecclesiastici, custodivano nel loro animo il timore di Dio. Si temeva che la successione delle stagioni e l’ordine degli elementi, che da sempre avevano regolato lo scorrere dei secoli precedenti, fossero caduti nel caos perpetuo segnando così la fine del genere umano.

Ma ciò che maggiormente appariva sorprendente e lasciava stupefatti, era che in mezzo a questi flagelli misteriosi del castigo divino molto raramente si trovavano uomini che di fronte a questi mali con cuore contrito e col corpo umiliato, come si doveva fare, alzassero le loro anime e le loro mani a Dio invocando il suo aiuto. Si vide dunque compiersi nel nostro tempo quanto aveva profetizzato Isaia: “Il popolo non è tornato verso chi lo percuoteva” (Isaia, IX, 13).

In realtà c’era negli uomini una durezza di cuore pari alla cecità della loro mente. È infatti Dio, giudice supremo degli uomini, autore di ogni bene, a suscitare il desiderio della preghiera, poiché conosce quando è il momento della misericordia».

Forse, ripensando a tutto questo, riusciremo a vedere il coronavirus nelle giuste proporzioni, e smetteremo di considerarlo una minaccia per la sopravvivenza futura dell’intera stirpe umana, a prescindere dalle vittime che possa fare.

(maggio 2020)

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