Le mutazioni climatiche e l’espansione vichinga oltre oceano
Un innalzamento della temperatura permise ai Vichinghi di raggiungere le coste dell’America del Nord secoli prima di Cristoforo Colombo

Espansione vichinga

Tra la fine del X e l’inizio del XII secolo dopo Cristo, gran parte delle terre europee e nordamericane fu interessata dal più rimarchevole innalzamento della temperatura registrato in epoca post-glaciale. Tale situazione, chiamata dagli scienziati «optimum climatico medioevale», favorì non soltanto la ripresa della vita economica e culturale del continente, ma indusse anche popoli navigatori, come i Vichinghi, a spingere le loro piccole navi in pieno Oceano Atlantico Settentrionale e verso il Circolo Polare Artico, raggiungendo le Isole Fær Øer, l’Islanda, la Groenlandia, l’Isola di Terranova, e le Isole Svalbard. Ma a questo punto occorre fare un passo indietro per spiegare l’inizio di una mutazione climatica netta, importante ma, come si vedrà, di durata relativamente breve.

Stando agli studi più recenti, la costituzione dell’Impero di Carlo Magno non coincise con un periodo climatico particolarmente favorevole. E ciò è testimoniato dalle frequenti avversità meteorologiche che le armate del Sovrano cristiano dovettero affrontare nel corso delle campagne condotte tra il 770 e l’800 dopo Cristo. In quei trent’anni, l’Europa venne infatti investita da un’ondata di aria molto fredda di origine artica che procurò lunghi, gelidi e secchi inverni ed autunni e primavere molto piovosi. Anche se già da oltre trecento anni, cioè dalla metà del 400 dopo Cristo, quasi tutto il continente (soprattutto la parte Centro-Settentrionale e Occidentale) aveva risentito di un generalizzato peggioramento delle condizioni atmosferiche: congiuntura che, secondo alcuni scienziati, può avere contribuito, almeno in parte, al decadimento economico dello stesso Impero Romano d’Occidente. Certo è che a partire dall’anno 800, il clima iniziò lentamente a riscaldarsi, favorendo quella ripresa produttiva che verso l’anno Mille si consolidò, favorendo anche la lenta ma inarrestabile uscita del continente dalla tormenta della barbarie. Alla fine del primo millennio, in Europa si assistette, infatti, ad un sensibile aumento delle temperature medie, al moltiplicarsi di macchie arborescenti ad alto fusto e all’innalzamento altimetrico di determinate fasce di coltivazioni (nell’anno 1100 nelle regioni dell’Europa Centrale e Settentrionale la linea arborea era di 100/200 metri più elevata rispetto al XVII secolo). La registrazione dell’isotopo della lastra di ghiaccio della Groenlandia mostra che nell’anno 900 il clima era già entrato in una fase relativamente calda: tendenza iniziata, a quanto pare, nel 600 dopo Cristo sia in Norvegia che negli Stati Uniti Settentrionali (sulle cime della California, gli anelli degli alberi indicano che, tra il 1000 e il 1300, si verificò un analogo e simultaneo incremento della temperatura, più o meno come in Europa). Secondo gli studiosi il consolidamento dell’Impero Carolingio, la successiva rinascita degli scambi commerciali e culturali e l’esplosione del fenomeno «vichingo» (cioè dell’espansione via mare di questa popolazione scandinava) dipese inequivocabilmente dall’«optimum climatico» che per circa quattrocento anni interessò quasi tutto l’emisfero settentrionale del globo. La forte ripresa dei viaggi in mare aperto e dell’interscambio commerciale tra Mediterraneo e Mare del Nord e il fenomeno dell’espansionismo scandinavo ne sono la prova, anche se al riguardo, le avvisaglie di questo nuovo scenario possono individuarsi cronologicamente in un’epoca anteriore.

I primi ad intuire e ad approfittare del miglioramento delle condizioni climatiche furono infatti i monaci irlandesi alla ricerca di terre adatte ad insediamenti e lontane dal decadimento materiale e culturale provocato dalle invasioni barbariche che sconvolsero l’Europa nel V e VI secolo. Alcuni scienziati hanno sostenuto che furono le annuali migrazioni delle oche selvatiche da e per l’Islanda e l’Artico a suggerire ai monaci l’idea che esistessero nuove terre nel profondo Nord. Il famoso viaggio di San Brendano, compiuto forse tra il 520 e il 550 dopo Cristo, si snodò per l’appunto verso Settentrione, in direzione dell’Islanda e forse della Groenlandia. E a proposito di queste spedizioni, tutte effettuate con piccole e fragili imbarcazioni, nell’825 dopo Cristo il monaco irlandese Dicuil si dichiarò addirittura certo dell’esistenza «di molte altre isole nell’Oceano… Esse possono essere raggiunte dalle coste settentrionali inglesi in due giorni e due notti di navigazione, anche con favorevole vento leggero… Su queste isole approdarono e dimorarono [per circa cento anni] diversi eremiti partiti dalla nostra Scotia [cioè dall’Irlanda]… Oggi però, a causa dei pirati norvegesi, tutti gli insediamenti insulari sono stati abbandonati». Le isole in questione sembrerebbero essere le Fær Øer, colonizzate da monaci irlandesi a partire dal 700-725 dopo Cristo (Gwyn Jones: A History of the Vikings, Oxford University Press, 1968), ma poi abbandonate intorno all’800, quando apparvero per la prima volta i Vichinghi. La prima esplorazione vichinga di queste isole avvenne (sotto il capo Floki Volgerdason) intorno all’860, sebbene nel corso di due precedenti viaggi in alto mare gli Scandinavi avessero già avuto modo di raggiungere con i loro veloci drakkar questo arcipelago, accorgendosi che i monaci irlandesi li avevano preceduti. Dicuil riferisce addirittura di un incontro tra Vichinghi e monaci superstiti avvenuto addirittura nel 790. Sembra anche che alcuni religiosi si siano spinti ancora più a Nord-Ovest arrivando in vista dell’Islanda e forse della Groenlandia. Sempre secondo il resoconto di Dicuil «il mare, ad appena un giorno di vela, dalla costa settentrionale di quest’isola [l’Islanda] è cosparso di numerosi, giganteschi blocchi di ghiaccio galleggianti [iceberg]». Nonostante queste allarmanti segnalazioni, pare che il gruppo di esploratori agli ordini di Floki Volgerdason ebbe comunque l’ardire di proseguire (probabilmente a bordo di knorr, imbarcazioni più lente, ma molto più robuste e capaci dei sottili drakkar) verso Nord-Ovest raggiungendo i grandi fiordi dell’Islanda Nord-Occidentale (Arnarfjord), che trovarono completamente ostruiti dal ghiaccio. Floki (che diede il nome di Islanda – «terra del ghiaccio» – alla nuova isola) attese l’estate e alla fine riuscì a sbarcare e a fondare una colonia nel Breidafjord. Per la precisione, il primo esploratore vichingo a giungere sulla costa Sud-Orientale Islandese (ad Austurhorn: promontorio del Corno Orientale) fu un certo Gardar (che a terra trovò i resti di un insediamento di «papar», o monaci o anacoreti), seguito poi da tale Naddodd che raggiunse il Rejdarfjord, sempre sulla costa orientale dell’isola. Tuttavia, pochi anni più tardi iniziò a verificarsi un fenomeno del tutto nuovo e tale da consentire ai popoli europei non soltanto di insediarsi in quelle lontane terre, ma di spingersi addirittura ai confini settentrionali del Nuovo Mondo.

Dall’870 in avanti, quasi tutte le cronache scandinave e quelle redatte da religiosi irlandesi riportano osservazioni circa una sensibile e favorevole mutazione climatica che ebbe ad interessare sia le isole Fær Øer che l’Islanda e il Sud della Groenlandia. E d’altra parte è ormai scientificamente accertato che fu proprio l’avvento di un’era più mite a favorire tutte le migrazioni nautiche Nord-Transatlantiche da Est verso Ovest. Non a caso, proprio alla fine del IX secolo, l’Islanda, la Groenlandia, il Canada Nord-Orientale (compresa la grande Isola di Baffin) incominciarono a liberarsi dalla morsa dei ghiacci. E si trattò di un fenomeno che, naturalmente, non sfuggì ai cronisti dell’epoca. Il capo vichingo Ottar (o Othere), giunto nelle Isole Britanniche dalla Norvegia Settentrionale, riferì al Re Alfredo d’Inghilterra di un’esplorazione da lui compiuta tra l’870 e l’880 fino al Mar Bianco: esplorazione favorita «dalle migliori ed inusuali condizioni del clima e del mare». Stando ai diari del cronista tedesco Adamo di Brema, Harald Hardrade (che fu Re di Norvegia e Inghilterra) pare abbia esplorato l’Oceano Settentrionale tra il 1040 e il 1065 con una grossa flotta, spingendosi fino alle Isole Spitzbergen e arrivando in vista della Novaya Zemlya (terre fino ad allora assolutamente irraggiungibili data la presenza dei ghiacci durante gran parte dell’anno). A poche leghe dalle ultime isole nordiche Hardrade dovette però invertire la rotta «poiché la crosta ghiacciata risultava spessa oltre tre metri». Proprio in concomitanza con l’arretramento dei ghiacci andò consolidandosi la colonia vichinga islandese, tanto che nel 920 la popolazione raggiunse ben 30.000 unità che nel 1100, cioè dopo la conversione al Cristianesimo, salirono a 80.000. È da notare che in questo periodo, oltre che sulla pesca e sull’allevamento, gli abitanti dell’isola potevano contare su diverse coltivazioni «importate» dall’Europa, come quella del grano che una volta piantato – grazie al clima più mite – non ebbe difficoltà a crescere. Da ricerche condotte in questi ultimi anni risulta che in Islanda crescesse anche una particolare specie di betulla nana in seguito scomparsa non tanto per l’abbassamento della temperatura, ma per i tagli indiscriminati. Scavi archeologici condotti dal dottor G. S. Boulton e dagli scienziati della University of East Anglia e dell’Islanda sull’area di Kvisker nell’Islanda Sud-Orientale, hanno dimostrato che ancora verso il 1090 dopo Cristo, la zona era densamente abitata, come testimoniano i resti di numerosissime capanne e case in pietra dentro cui sono stati rinvenuti tronchi e oggetti in frassino (legno importato dall’Europa) e contenitori in terracotta contenenti discreti quantitativi di orzo e grano.

Grazie all’«optimum climatico», i navigatori e i cacciatori di balene norvegesi stanziatisi in Islanda iniziarono ben presto a spingersi più a Nord avvistando intorno al 970, per merito di un certo Ulfssonn, la costa meridionale della Groenlandia (il primo insediamento, realizzatosi nel 978, fu però opera di un altro colonizzatore: Snaebjord Galti). Nel 982, Eric il Rosso, esiliato dall’Islanda per un crimine, prese il mare e dopo una lunga navigazione toccò terra lungo la costa orientale della Groenlandia, ad Angmagssalik. Successivamente, grazie al continuo arretramento dei ghiacci (secondo le testimonianze dell’epoca era raro incontrare iceberg alla deriva a Sud del 70° parallelo, mentre il ghiaccio perenne lo si trovava soltanto all’80°) i Vichinghi spostarono i loro insediamenti groenlandesi (che nel 1100 contavano circa 3.000 abitanti) ancora più a Settentrione, oltre Umanak, cacciando foche, trichechi, balene e uccelli selvatici.

Tuttavia, a partire dal 1250, il ghiaccio incominciò a crescere nuovamente in seguito ad un repentino abbassamento della temperatura: inversione climatica che, secondo le cronache, «costrinse i coloni a ritirarsi verso Sud… A partire dalla metà del 1300 una nuova ondata di gelo interruppe le tradizionali rotte di collegamento tra la Groenlandia, l’Islanda e la Norvegia». Nella prima metà del XIV secolo, dunque, la navigazione in corrispondenza del 65° parallelo dovette essere abbandonata, costringendo i Vichinghi ad optare per tratte più meridionali. Più tardi, verso la fine del secolo, allorquando il ghiaccio fece la sua comparsa anche a Capo Farwell, tutte le comunicazioni con gli avamposti vichinghi in Groenlandia vennero a cessare completamente, provocando la morte per inedia dei coloni residenti (continuamente molestati dalle tribù eschimesi anch’esse in fase di spostamento verso Sud), ormai privi del legname e degli attrezzi agricoli che venivano loro forniti dalla Norvegia. Intorno al 1430, l’emisfero settentrionale si trovò nella morsa di una piccola «era glaciale» che fece abbassare le temperature della Groenlandia di ben 3/7 gradi, provocando il crollo di tutti gli stanziamenti, anche quelli ubicati più a Meridione. Oltre un secolo dopo, nel 1540, un certo Jon Greenlander a bordo di una nave partita da Amburgo alla volta dell’Islanda venne dirottato dai venti sulla costa groenlandese dove trovò i resti di un insediamento vichingo. Entrato in una capanna semi distrutta egli rinvenne il «corpo di un uomo morto da molto tempo, ma ben conservato dal freddo… Egli indossava un abito di tela di Frisia e un cappuccio di lana ben fatto. Vicino al cadavere trovai un vecchio coltello da caccia dalla lama molto rovinata… che presi per ricordo».

E veniamo ora alle ripercussioni climatiche sugli insediamenti Vichinghi in Nord America. Secondo la Groenlendinga Saga, nel 986 Bjarni Herjolfsson scoprì per caso, ad Occidente dell’Islanda e della Groenlandia Meridionale, «una terra – il Markland – molto boscosa e con verdi colline» (forse si trattava del Labrador o dell’isola di Terranova). Successivamente, altre spedizioni guidate dal figlio di Eric il Rosso di Brattahlid, Leif, suo fratello Thorwald e un certo Tirkir proseguirono le loro esplorazioni lungo la costa Nord-Orientale Americana scoprendo una terra molto dolce, il Vinland dove i Vichinghi approdarono fondando, a quanto pare, un insediamento e venendo a contatto con «strani selvaggi», gli Skraeling (Indiani appartenenti probabilmente alla tribù degli Innu del Labrador). Secondo i frammentari resoconti dell’epoca, sembra che quasi tutti i successivi viaggi condotti verso il Nord America da esploratori o avventurieri vichinghi fossero comunque caratterizzati da una notevole discontinuità, anche a causa delle lunghe distanze e dal peggiorare delle condizioni climatiche. Che all’epoca d’oro (890-1100) degli stanziamenti vichinghi in Groenlandia Orientale, Meridionale e Occidentale le acque del Nord Atlantico fossero più calde di quanto lo fossero nel XIV secolo è dimostrato dall’abbondanza di merluzzo che i coloni erano soliti pescare (quintali di lische vennero successivamente trovate nel letame utilizzato negli orti degli insediamenti groenlandesi e islandesi). Il Landnámabók, testo islandese del 1125, descrive uno dei primi villaggi della Groenlandia tra il 985 ed il 1000. Il libro narra che Thorkel Farserk, il fondatore della colonia, non avendo una barca a portata di mano, nuotò attraverso lo Hvalseyjarfjord per andare a prendere una pecora abbandonata sull’isola di Hvalsey e riportarla a casa. La larghezza del fiordo (oltre le due miglia) ha indotto il dottor Pugh del Medical Research Laboratories di Hampstead a stimare che la temperatura dell’acqua non potesse essere inferiore ai 10°, contro i 6° rilevabili in agosto e nella stessa area in epoca attuale: una prova in più degli effetti dell’«optimum climatico» verificatosi tra l’890 e il 1100. Un altro elemento a sostegno di questa tesi, ormai condivisa da tutti gli scienziati, è rappresentata dalle pratiche di sepoltura vichinghe. Durante il «periodo mite», i coloni groenlandesi erano infatti in grado di scavare tombe profonde anche due metri, cosa divenuta in seguito impossibile dato l’indurimento del suolo a causa del gelo. Lauge Koch cita poi un interessante documento medievale. Nel 1188 (cioè in concomitanza con l’abbassamento della temperatura e con l’avanzamento dei ghiacci verso la Groenlandia Meridionale) una nave norvegese, la Stangfolden (impegnata nella traversata dalla Norvegia all’Islanda) fece naufragio al largo della costa orientale dell’immensa isola. Un decennio più tardi, alcuni pescatori trovarono i cadaveri di sette uomini dell’equipaggio della suddetta nave in una caverna situata nei pressi della costa. Tra i corpi individuarono quello di un prete, tale Ingemond, che prima di morire era riuscito a riportare su una pergamena la cronaca del naufragio e il destino del disgraziato equipaggio. Il testo era vergato in caratteri runici. Il prete riferiva che lui e i suoi compagni si erano rifugiati nella grotta essendo impossibilitati – data l’enorme quantità di ghiacci che circondava la costa – a tentare una marcia in direzione Sud, cioè verso gli insediamenti norvegesi di Capo Farwell (Julianehab e Ivigtut). E tutto ciò dimostra come nell’ultimo ventennio del XIII secolo la temperatura fosse notevolmente calata, anche rispetto all’inizio del 1200 quando, stando alle cronache norvegesi, era ancora possibile per l’uomo addentrarsi nell’entroterra della Groenlandia Meridionale, almeno durante il periodo estivo. Nel 1250 dopo Cristo il King’s Mirror (Konungs Skuggsjá), un trattato storico e geografico norvegese, inizia a riferire circa la sempre più frequente «presenza di numerosi iceberg alla deriva lungo le coste meridionali della Groenlandia… È ormai impossibile per le navi di avvicinarsi agli insediamenti Sud [quelli della zona di Capo Farwell] senza correre il rischio di affondare… E d’altra parte in quelle terre è ormai molto difficile sopravvivere dato il clima sfavorevole e le continue tempeste di neve». Altri documenti dello stesso periodo riferiscono più o meno le stesse cose, riportando annotazioni inequivocabili circa il «peggioramento delle condizioni ambientali» nel Sud della Groenlandia e circa «le progressive difficoltà riscontrate dagli abitanti di questi insediamenti nel mantenere contatti con l’Islanda e la Scandinavia».


Bibliografia

Climate, History and the Modern World, 2nd edition, H. H. Lamb, Routledge, London and New York 1995

Antiche saghe islandesi, a cura di M. Scovazzi, Einaudi, Torino 1973

Leggende e miti vichinghi, a cura di G. Chiesa Isnardi, Rusconi, Milano 1977

Miti e leggende dei Vichinghi, a cura di G. Agrati e M. L. Magini, 2 volumi, Mondadori, Milano 1990

Saga di Erik il Rosso, a cura di S. Piloto di Castri, traduzione di M. Scovazzi, Sellerio, Palermo 1991

Articolo in media partnership con «Storia Verità»
(dicembre 2012)

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