Costantino: Imperatore pagano o cristiano?
Tra politica, religione ed un concetto di Stato e di Chiesa diverso da quello moderno

Una questione assai dibattuta, specialmente quest’anno in cui ricorre il millesettecentesimo anniversario dell’Editto di Milano, riguarda la figura di Costantino e, in specifico, la sua fede religiosa: Costantino era Cristiano o pagano? I suoi atti in favore della Chiesa erano fondati sulla fede o su calcoli prettamente politici?

I manuali di storia di qualche tempo fa (e in verità anche alcuni manuali moderni largamente usati nella scuola dell’obbligo) riportano che Costantino si convertì al Cristianesimo dopo la battaglia di Ponte Milvio contro il rivale Massenzio (312); in realtà, messa in questo modo, l’affermazione è sbagliata. Oggi si tende a considerare Costantino come un Imperatore pagano che guardasse da pagano alla Chiesa… anche questa, però, è un’indebita semplificazione. Ma allora, come stanno le cose?

Proviamo innanzitutto a dare un’occhiata alla vita di Costantino, riassumendola per sommi capi.

Costantino nacque tra il 272 e il 285 (il 27 febbraio) a Naisso (Nis) nell’Illirico da Elena, la cui professione era di addetta alle stalle nella stazione di cambio a Drepanum in Bitinia (attuale Turchia), dove era nata nel 248. Elena si era unita non legalmente con Flavio Valerio Costanzo detto Cloro (cioè «Pallido»), uomo di modesta famiglia ma ufficiale dell’esercito romano con una brillante carriera, nato intorno al 250 nell’Illirico. Nel 288 Costanzo venne nominato prefetto del pretorio da Massimiano, allora Augusto dell’Occidente. Per motivi politici sposò Teodora, figlia di Massimiano, ed Elena fu messa da parte. Costantino rimase alla corte di Diocleziano e fu tenuto sotto stretta sorveglianza da Galerio… forse come ostaggio. Nel 293 Costanzo venne nominato Cesare per l’Occidente da Massimiano, mentre Diocleziano nominò suo Cesare per l’Oriente Galerio.

Nella persecuzione dei Cristiani del 303, Costanzo si dimostrò tollerante. Nel frattempo, il figlio Costantino sposò Minervina da cui nacque Crispo (fu un parto difficile, durante il quale Minervina spirò).

Il 1° maggio del 305 Costanzo Cloro divenne Augusto, dopo le dimissioni di Massimiano, ma morì l’anno dopo ad Eboracum in Britannia; quello stesso giorno, il 25 luglio 306, Costantino fu acclamato Imperatore dai suoi soldati a York e subito sposò sua zia Fausta, figlia di Massimiano: era evidentemente un’alleanza politico-matrimoniale. Durò poco: intorno al 310, a Marsiglia, Costantino uccise o indusse al suicidio il suocero Massimiano, che voleva ritornare Imperatore d’Occidente e gli era stato denunciato proprio dalla moglie Fausta. Iniziò così lo scontro con il cognato, Massenzio (circa 280-312), figlio di Massimiano, eletto Imperatore dalle truppe nel 306: Costantino lo sconfisse prima a Verona, poi a Roma nella battaglia di Ponte Milvio (28 ottobre 312); Massenzio, tentando la fuga, annegò nel Tevere, lasciando Costantino Imperatore d’Occidente.

Costantino

Statua di Costantino di fronte alla basilica di San Lorenzo, Milano (Italia); fotografia di Simone Valtorta, 2013

Iniziò, allora, la lotta con l’Augusto d’Oriente, Licinio, fino a quel momento suo alleato (aveva con lui firmato l’Editto di Milano) e suo cognato, poiché gli aveva dato in moglie – come segno della loro alleanza – la sorellastra Costanza (anche questo era un matrimonio politico). Licinio fu definitivamente sconfitto nel 324: si arrese con la promessa di aver salva la vita per sé e per i suoi figli, e fu esiliato a Tessalonica. Costantino fu proclamato anche Imperatore d’Oriente, e subito dopo tradì la parola data: nel 325 Licinio – con l’accusa di aver complottato contro di lui – fu messo a morte, insieme al figlio undicenne Liciniano, nipote di Costantino. Dopo pochi mesi (nello stesso 325 o nel 326) Costantino fece uccidere in Istria sua moglie Fausta e suo figlio Crispo, accusandoli di incesto, ed ordinando la loro «damnatio memoriae»: ma sulla questione dell’incesto non si è mai appurata la verità.

Questo trono insanguinato, lo fu sino all’ultimo: appena Costantino morì a Nicomedia (22 maggio 337), furono messi a morte tutti i parenti prossimi: i suoi nipoti (Dalmazio e Annibaliano), figli di Flavio Dalmazio, suo fratellastro, poiché figlio di Costanzo Cloro; mentre si salvarono fortunosamente gli altri due (Gallo e Giuliano), figli dell’altro fratellastro, Giulio Costanzo, secondo figlio di Costanzo Cloro.

È difficile dire che fosse Cristiano un uomo così, o che per lo meno le verità del Vangelo fossero penetrate nella sua vita, anche se forse agitavano il suo cuore. Va detto, infatti, che Costantino si fece iscrivere tra i catecumeni e fu battezzato solo «in articulo mortis». Oltretutto, l’iscrizione tra i catecumeni non comportava alcun impegno: la si potrebbe paragonare all’adesione di solidarietà e di simpatia ad un’istituzione, come sono soliti fare molti potenti.

Possiamo anche fare qualche confronto più approfondito: Costantino fece costruire le grandi basiliche cristiane – a Roma, San Giovanni in Laterano (324), San Paolo fuori le Mura (324), San Pietro (326-333); in Palestina fece erigere le basiliche di Nicomedia, della Natività a Betlemme (326) e del Santo Sepolcro a Gerusalemme (325); ed anche in Africa, per esempio a Cirta –; ma costruì anche i templi a Cibele, la Madre degli Dèi, ai Dioscuri, a Tyche, e la «basilica» di Treviri, quale «sala del trono». Come nota Braschi (Francesco Braschi, La «conversione» di Costantino. Riflessioni a partire dai criteri di letture delle fonti antiche, «La Scuola Cattolica», 135, anno 2007), dopo la vittoria di Ponte Milvio, Costantino ordinò al prefetto dell’Africa Settentrionale, terra che aveva appena sottratto al nemico, di restituire i beni confiscati alla Chiesa; inviò personalmente una forte somma di denaro al Vescovo Cattolico di Cartagine, Ceciliano, perché la usasse per il sostentamento del suo clero, ma non viene meno il pensiero che Costantino da una parte sia alla ricerca della Verità, dall’altra sia ben conscio della valenza politica dei suoi atti. Questa impressione di comportamento politico si accentua, se ricordiamo che la madre, Elena, continuò nel suo palese appoggio al Cristianesimo, mentre il figlio «dovette» rimanere sommo sacerdote del culto pagano e restauratore dei templi degli dèi: Costantino non rinunciò al titolo di Pontifex Maximus né intaccò i possessi ed i contributi statali al culto degli dèi (i templi erano sovvenzionati dallo Stato, e i sacerdoti pagani erano finanziati dallo Stato). Il 29 ottobre 312, entrando in Roma, Costantino accettò che il Senato (pagano) gli offrisse una statua (un Colosso), immagine della sua divinità imperiale, che lo rappresentava con le fattezze di Apollo.

È vero che nel 318 o 319 vietò i sacrifici per l’arte divinatoria nelle case private, pena il rogo per l’aruspice e per chi l’aveva invitato: ma il divieto di squartare animali nelle città derivava da motivi puramente igienici.

Così pure rimaniamo incerti se guardiamo le monete del suo periodo imperiale: nel 315 egli fece coniare su un lato il Sol Invictus – la divinità cui era legato – e sull’altro lato la croce, mentre nel 321 abbiamo su retto le insegne militari e sul verso il crismon («XP») cristiano… ma le monete venivano coniate localmente e le immagini erano di competenza delle autorità locali, che certo ne informavano il governo centrale, ma non più di questo: lo informavano e non chiedevano autorizzazioni, quindi possono essere state coniate da ambienti che cercavano di tenere insieme le due religioni, senza impegnare la volontà imperiale.

Nell’Arco di Costantino (eretto tre anni dopo la battaglia di Ponte Milvio) c’è il Sol Invictus e si celebra la vittoria «instinctu divinitatis», ma non compare il labaro con il crismon; però Costantino non offrì il tradizionale sacrificio di ringraziamento a Giove sul Campidoglio.

Ancora: il 21 marzo 315 o 316 Costantino (insieme a Licinio) proibì di marchiare a fuoco le persone sul volto: «Se qualcuno sarà stato condannato al carcere o alle miniere per la gravità dei crimini di cui è colpevole, non venga marchiato sul volto, mentre sarà possibile che una volta sola la pena possa comportare un marchio sulle mani o sulle gambe. Questo affinché il volto, che è stato fatto a somiglianza della bellezza celeste, non venga sfigurato» (Codex Theodosianus 9.40.2). Nel 320 proibì la condanna a morte per crocifissione, ma solo per sostituirla con l’impalatura: pena non certo migliore, anzi (a volte si buttava acqua salata sul condannato per impedire le emorragie e lo si nutriva per farlo vivere – e di conseguenza soffrire – più a lungo)!

L’anno dopo – tra il marzo e il luglio del 321 – proibì l’esposizione dei bambini appena nati e la proibizione di «omnia opera forensia et servilia» fu trasferita al «dies solis», istituendo così, di fatto, la regolare scansione settimanale della domenica e cambiando per i secoli futuri il calendario.

Per quanto concerne il clero cattolico, Costantino nel 318 assimilò i Vescovi ai magistrati e concesse ai membri del clero l’esenzione dall’obbligo di assumere cariche ed altre prestazioni pubbliche, equiparandoli ad altre categorie (professori, medici, atleti) e con una legge del 333 riconobbe valore civile alle sentenze pronunciate dai Vescovi.

Nel 321 e nel 323 stabilì che le chiese potessero ricevere l’affrancamento degli schiavi (cioè, garantì i loro diritti); che le chiese potessero ricevere legati testamentari (321); decretò che il clero fosse giudicato dal Vescovo e questi dal Metropolita, che il clero celibe fosse esonerato dalle tasse di Augusto contro i celibi (estese il diritto romano anche ai Cristiani: questo fu l’unico vero privilegio) ed ebbe gesti di attenzione come quello di dedicare Costantinopoli al Dio di Gesù Cristo.

Tuttavia quanto detto ci lascia un poco incerti: possiamo pensare che Costantino esercitasse verso le due religioni (Cristianesimo e paganesimo) lo stesso stile di benevolenza imperiale; sta di fatto che i Cristiani, certamente, si sentirono finalmente emancipati.

Un altro segnale per comprendere meglio la politica religiosa di Costantino può essere colto nelle modalità con cui affrontò la questione donatista (313-316) e quella ariana (325): l’Imperatore considerò le questioni religiose principalmente dal punto di vista dell’ordine pubblico ed ebbe come obiettivo quello di ristabilire la pace; per questo, nel 321 invitò i Cattolici a tollerare i donatisti, sollevando il sospetto che da una parte volesse controllare la Chiesa, dall’altra guardasse ad essa da pagano, da Romano, abituato a non considerare la fede e la religione «altre» rispetto allo Stato ed alle norme che regolano il convivere civile: dovevano passare quasi due millenni, perché potesse diventare accettato patrimonio comune la sua intuizione, che nell’unica res publica potessero convivere in collaborazione reciproca ed in reciproca indipendenza governo degli uomini e vita di fede. Del resto, dopo la pace di Milano, anche da parte dei Cristiani si cercò di coinvolgere l’Imperatore in questioni religiose: anche i Cristiani tendevano a ragionare da Romani, a chiedere che fosse il potere politico a normare la vita ecclesiale. Costantino, pur cercando di lasciare la questione ai Vescovi, espresse chiaramente i suoi desideri, le sue intenzioni, le sue attese e la divisione che colse tra i Cristiani evidentemente lo colpì e lo impensierì. Di fatto, a spingere Costantino ed i Vescovi fu la convinzione che religione e Stato sono intrinsecamente uniti, che la religione è «una» delle espressioni dell’essere cittadino romano: è la mentalità pagana (romana) ancora imperante.

Sia Baus che Marrou fanno notare come la politica di Costantino abbia favorito i Cristiani (Baus: «L’Imperatore è sotto l’influsso di idee cristiane; la sua premura per la celebrazione del culto cristiano scaturisce da un’intima partecipazione personale e in qualche caso allude ad una preferenza per la religione cristiana»; Marrou: «Come principio di tolleranza, la libertà dei culti costituisce la dottrina ufficiale, ma in effetti tra paganesimo e Cristianesimo la bilancia è ben lungi dall’essere tenuta in pari… La politica imperiale, che in tanti modi tende a favorire la nuova religione, l’esempio stesso offerto dall’Imperatore… tutto spinge alla cristianizzazione dell’intero Impero Romano»): ma che il mondo romano comprendesse da che parte si ponevano le «preferenze» dell’Imperatore non significa che queste «preferenze» prevalessero sulla «mentalità corrente», non apparissero «compatibili» con il comportamento di un Sovrano, di un Romano. L’anelito personale di Costantino alla fede rimane intatto: cogliamo nel cuore di un uomo, di un Imperatore, il desiderio del giusto e del vero, e il tentativo di perseguirli, con gli inevitabili ostacoli che incontra chiunque, non solo chi governa.


Il segno di Ponte Milvio

Una vivace discussione si accende ogni volta che si arriva a trattare della «visione» che ebbe Costantino prima della battaglia di Ponte Milvio contro il rivale Massenzio, quando fece apporre le iniziali di Cristo (XP in greco) sullo scudo dei suoi soldati. Di lì a poco, avrebbe emanato il celebre Editto di Milano, col quale concedeva a tutti i sudditi dell’Impero (e quindi anche ai Cristiani) la libertà di professare la religione in cui credevano. Ma qual è, esattamente, il segno che Costantino ha visto in sogno e fatto apporre più tardi sugli scudi dei suoi soldati?

La più antica versione è quella di Lattanzio, redatta due anni dopo l’avvenimento: «Costantino fu avvertito durante il sonno di segnare sugli scudi il segno di Dio e di ingaggiare così la battaglia. Egli obbedisce e segna il nome di Cristo sugli scudi, con una X messa di traverso e ricurvata verso l’alto. Munito di questo segno, l’esercito estrae la spada. […] La lotta è aspra e la mano di Dio si stende sul combattimento. L’esercito di Massenzio viene preso dal panico; lui stesso fugge e corre al ponte, ma viene colpito. Trascinato via dalla folla dei fuggitivi, è precipitato nel Tevere. Così ha finalmente termine questa guerra atroce».

Quali che fossero le sue credenze personali, e pur continuando a far rappresentare sulle monete la quadriga di Apollo, a giudicare da questa testimonianza Costantino dovette obbedire ad una triplice intenzione: usare un segno magico, una sorta di talismano benefico; promettere, in caso di vittoria, di riconoscere il Dio dei Cristiani; far passare al suo campo questo Dio, di cui conosceva l’influenza su una parte della popolazione romana e che anche Massenzio aveva cercato di accattivarsi. Sarebbe però troppo esagerato parlare di conversione di Costantino per quella, forse mai avvenuta, visione.

Eusebio di Cesarea, che diverrà amico di Costantino, racconta questo evento due volte: una visione «personale» in Gallia, mentre Costantino tornava a Roma, molto prima della battaglia con Massenzio; una visione «pubblica» presso il Ponte Milvio, quando verso mezzogiorno tutto l’esercito con lui vide una croce di luce sovrimpressa al sole, con la scritta: «In hoc signo vinces». Lo stesso Eusebio riferisce il racconto alle confidenze di Costantino, che glielo confermò anche con giuramento, e commenta: «Avesse raccontato questa storia chiunque altro, non sarebbe stato facile accettarla» (noi non abbiamo avuto la fortuna di conoscere Costantino di persona e siamo perciò liberi di far nostra l’obiezione dello storico Ramsey MacMullen, che su questo punto commenta con un pizzico di ironia: «Se la scritta in cielo fu vista da 40.000 uomini, il vero miracolo risiederebbe nel loro silenzio sull’accaduto»).

Leggiamo il brano per intero, anche se è un po’ lungo, poi faremo alcune considerazioni. È tratto dalla Vita di Costantino I, 27-32 passim:

«Ben consapevole, a causa delle malefiche arti magiche [malocchio, stregoneria, maledizioni, bamboline che raffigurano il nemico da consacrare agli dèi inferi] messe in opera dal tiranno [Massenzio], di come gli fosse necessario ottenere un aiuto più potente di quello che le sole forze militari riescano a garantire, ricercava la protezione di un Dio, perché riteneva di secondaria importanza gli eserciti e il numero dei soldati (credeva che questi nulla potessero senza l’assistenza divina), sostenendo, invece, l’insuperabilità e l’invincibilità dell’aiuto che proviene da Dio. Pensava, dunque, a quale Dio dovesse scegliersi come protettore, e mentre rifletteva su questo problema gli venne in mente il seguente pensiero: dei molti che nel passato avevano rivestita la suprema carica dello Stato, tutti avevano riposto le loro speranze in una pluralità di divinità, che avevano venerate con libagioni, sacrifici ed offerte; ma, se all’inizio si eran lasciati ingannare da vaticinii a bella posta favorevoli e da oracoli che annunciavano gli eventi più fausti, avevano poi trovato una fine tutt’altro che felice, senza che nessuna di quelle divinità fosse intervenuta in loro favore per evitare che soccombessero sotto i colpi delle sciagure inviate dal cielo. Soltanto suo padre aveva intrapreso la strada opposta e aveva condannato l’errore che quelli avevano commesso, trovando nel Dio che è Signore assoluto dell’Universo, e che egli aveva venerato per l’intera durata della vita, il Salvatore e il Custode dell’Impero, oltre che il Dispensatore di ogni bene.

Tali riflessioni faceva tra sé e sé, ponderando attentamente sul fatto che gli altri, pur avendo confidato in moltissimi dèi, erano ugualmente caduti in una grande quantità di sventure, al punto che non solo non si eran creata né una famiglia, né una discendenza, né una radice alcuna, ma non avevano lasciato tra gli uomini neppure il retaggio del loro nome o del loro ricordo; il Dio paterno, al contrario, aveva dato al padre suo numerosissime ed evidenti prove della propria esistenza… Raccogliendo le fila di tutte queste considerazioni, giudicava una vera follia perder tempo con quelle divinità inesistenti e lasciarsi trarre in errore dopo tante prove negative, e pensava che soltanto il Dio paterno meritasse di essere venerato.

Cominciò allora ad invocarlo, pregando e supplicando di mostrargli chi mai Egli fosse e di porgergli il soccorso della Sua destra nelle circostanze attuali. Mentre l’Imperatore era assorto in questa preghiera e rivolgeva in tutta sincerità la sua supplica, gli apparve un segno divino veramente straordinario, al quale non sarebbe certo facile credere se fosse stato un altro a parlarne. Ma poiché il vittorioso Imperatore in persona, molto tempo dopo, quando cioè fummo onorati della sua amicizia e della sua familiarità, rivelò l’accaduto direttamente a noi, che siamo gli autori della presente opera, e poiché egli stesso confermò con solenni giuramenti le sue parole, chi mai potrebbe nutrire tanti dubbi da non prestar fede all’intera vicenda? Soprattutto se si considera che anche i fatti successivi testimoniarono la veridicità di quanto venne riferito.

Nell’ora in cui il sole è a metà del suo cammino, quando il giorno comincia appena a declinare, disse di aver visto con i propri occhi, in pieno cielo e al di sopra del sole, il segno luminoso di una croce, unita alla quale c’era un’iscrizione che diceva: “Con questa vinci!”. A causa di tale visione un grande sbigottimento si impadronì di lui e di tutto l’esercito, che lo seguiva nel corso di un suo viaggio e che fu spettatore del miracolo. Raccontava che molta era la sua incertezza sulla natura di quella apparizione. Mentre rifletteva, e pensava a lungo all’accaduto, sopraggiunse veloce la notte. Allora gli si mostrò in sogno Cristo, Figlio di Dio, con il segno che era apparso nel cielo e gli ingiunse di costruire un’immagine simile a quella del segno osservato in cielo e di servirsene come difesa nelle battaglie contro i nemici. Non appena spuntò l’alba, si levò e raccontò agli amici tutto l’arcano. Convocò poi presso di sé orefici e artigiani esperti in pietre preziose, si mise a sedere in mezzo ad essi ed illustrò la forma del segno, che ordinò di riprodurre in oro e pietre preziose. Un giorno, per volere dell’Imperatore, oltre che per concessione divina, anche noi avemmo l’onore di vedere questo oggetto con i nostri stessi occhi. La sua foggia era la seguente. In un’asta d’oro s’innestava un braccio trasversale in modo da formare una croce; in cima a tutto era fissata una corona intessuta di pietre preziose ed oro; su questa corona due segni, indicanti il nome di Cristo, mostravano, per mezzo delle prime lettere (con il “rho” che si incrociava giusto nel mezzo), il simbolo della formula salvifica: l’Imperatore prese poi l’abitudine di portare anche in seguito questo monogramma inciso sul suo elmo. Al braccio trasversale, che era infisso nell’asta, si trovava sospesa una tela di gran pregio: si trattava di un manto regale ricoperto di una grande varietà di pietre preziose, intrecciate tra loro e sfavillanti come i raggi della luce, tutto trapunto d’oro, che a quanti lo osservavano offriva uno spettacolo di una bellezza indescrivibile. Questo tessuto, legato al braccio trasversale, aveva uguale misura sia in lunghezza che in larghezza; l’asta verticale, che alla base si allungava di molto verso l’alto, proprio sotto il segno della croce, lungo l’orlo superiore del [variopinto] drappo, recava disegnato in oro il busto dell’Imperatore caro a Dio, insieme con quello dei suoi figli. Di questo segno salvifico l’Imperatore si servì sempre come difesa contro tutte le forze avversarie e nemiche, e ordinò che altri oggetti simili ad esso fossero messi alla testa di tutti i suoi eserciti.

Ma ciò avvenne un poco più tardi. Nella circostanza suddetta, colpito dalla straordinarietà della visione, decise di non venerare nessun altro Dio all’infuori di quello che aveva visto con i propri occhi. Convocò i sacerdoti depositari della Sua dottrina e chiese loro chi mai fosse [questo] Dio e che cosa volesse significare il segno che gli era apparso in visione. I sacerdoti dissero che si trattava del Dio Figlio Unigenito dell’unico e solo Dio, e che il segno che gli si era manifestato rappresentava il simbolo dell’immortalità, raffigurante il trofeo della vittoria sulla morte, vittoria che Cristo aveva un tempo ottenuta durante il Suo passaggio sulla terra; illustrarono i motivi della Sua venuta e gli diedero una chiara spiegazione circa l’Incarnazione.

Egli si lasciava istruire da questi discorsi ed era pieno di stupore per la divina apparizione concessa al suo sguardo, e quando, grazie alle delucidazioni che gli furon fatte, ebbe chiaro il significato della visione celeste, si rinsaldò nel suo proposito, pensando che fosse Dio in persona a trasmettergli la conoscenza di quelle verità. Decise così di dedicarsi alla lettura dei libri sacri. Collocò inoltre al suo fianco, in qualità di consiglieri, i sacerdoti di Dio, stabilendo che si dovesse onorare con la massima venerazione il Dio che gli si era mostrato in visione. Soltanto allora, munito delle buone speranze che aveva riposte in Lui, si mosse per estinguere il minaccioso incendio appiccato dal tiranno».

Il brano è stato scritto molto dopo gli eventi che racconta. La Vita di Costantino ci trasmette comunque il punto di vista di Costantino verso la fine del suo regno; mescola insieme degli avvenimenti e delle interpretazioni successive a quegli avvenimenti, ma il nucleo essenziale, quello che possiamo accettare senza problemi come una trasmissione tendenzialmente fedele dei fatti, è: Costantino cerca un segno – Costantino riceve un segno – Costantino segue quel segno e vince.

Costantino deve capire qual è, tra i tanti, il Dio che lo protegge. Il padre Costanzo Cloro venerava un monoteismo solare (un Dio unico identificato col sole), il cui simbolo era la croce uncinata – un sole stilizzato le cui listarelle finali (gli «uncini») simboleggiano il proseguo delle vita; agganciato ai labari, muovendosi poteva in effetti dare l’idea del simbolo di una croce, ed Eusebio può aver interpretato questa scelta come il risultato di una visione. Costantino si rivolge all’inizio all’Apollo «gallico», ma la ricerca non lo soddisfa. La conversione al Dio dei Cristiani deriva dal fatto che Costantino identifica questo Dio col Dio di suo padre; ma dobbiamo pensare che Costantino è un soldato del IV secolo, e che la conversione è basata semplicemente sul senso di lealtà, aiuto, onore: Costantino si converte come un soldato del IV secolo, cioè rimanendo fedele alla divinità – tra le tante – che si è scelto. Null’altro. È questo il Cristianesimo – o meglio, è questo il concetto di Cristianesimo – a cui aderisce Costantino.


Il giudizio di Sant’Ambrogio su Costantino

È interessante, per concludere questo lungo discorso su Costantino e sulla visione religiosa di Costantino, analizzare un passo su di lui, scritto da Sant’Ambrogio.

Ambrogio ha una formazione giuridica, viene da una famiglia della nobiltà senatoria ed ha una visione cristiana del potere: anche l’Imperatore è sottoposto alle leggi! La grandezza di Costantino, secondo lui, sta nell’avere accettato Cristo come il primo dei Sovrani. La Croce di Cristo redime il potere: bisogna riconoscere come Imperatore Cristo, e come trono la Croce (si tratta di una visione nuova del potere). Considerare l’Imperatore come un uomo significa averne a cuore l’anima e la salvezza: l’Imperatore ha come primo compito la salvezza della propria anima.

Ecco qual è il giudizio di Sant’Ambrogio su Costantino, tratto da De obitu Theodosii, 40-51 passim, anno 395:

«Ora Teodosio di augusta memoria sa di regnare veramente, poiché è nel Regno del Signore Gesù e ne contempla il tempio. Ora si sente veramente Re, perché ha riavuto il figlio Graziano e Pulcheria, creature a lui carissime… poiché non si separa da Costantino. E sebbene a costui la grazia del battesimo abbia rimesso tutti i peccati solo in punto di morte, tuttavia, siccome fu il primo Imperatore a credere e lasciò dopo di sé ai suoi successori l’eredità della fede, ottenne un posto degno dell’insigne suo merito. Ai suoi tempi si adempì la nota profezia: “In quel giorno ciò che sta sopra il morso del cavallo sarà sacro al Signore Onnipotente” (Zaccaria 14, 20 LXX). Lo rivelò sua madre Elena di santa memoria, illuminata dallo Spirito di Dio.

Beato fu Costantino per una tale madre, che volle assicurare al figlio Imperatore l’aiuto della protezione divina, perché potesse prendere parte persino alle battaglie in piena sicurezza senza temere i pericoli. Grande donna, che trovò molto di più da offrire all’Imperatore di quello che ricevette da lui! Madre in ansia per il figliuolo, nelle cui mani era venuta la sovranità del mondo romano, si recò frettolosa a Gerusalemme e cercò il luogo della Passione del Signore. Dicono che dapprima ella fosse una locandiera, conosciuta per la sua professione da Costanzo I, divenuto poi Imperatore. Buona locandiera davvero, poiché cercò con tanta diligenza la stalla dove era nato il Signore. Buona locandiera, poiché non ignorò l’albergatore che aveva curato le piaghe dell’uomo ferito dai briganti. Buona locandiera, perché preferì essere stimata spazzatura per guadagnare Cristo. Perciò Cristo la elevò dal letame all’Impero, conforme a quello che sta scritto: “Solleva dalla terra il bisognoso e dal letamaio rialza il povero” (Salmi 112, 7).

Venne dunque Elena, cominciò a passare in rassegna i luoghi santi e dallo Spirito Santo ebbe l’ispirazione di cercare il legno della croce… Fa scavare il terreno, sgombra il materiale, trova tre patiboli alla rinfusa che le macerie avevano coperto e il Nemico aveva nascosto. Ma il trionfo di Cristo non poteva essere dimenticato… Trovò dunque l’iscrizione, adorò il Re, non il legno, naturalmente, perché questo è un errore dei pagani e una stoltezza degli empi, ma adorò Colui che, nominato nell’iscrizione, era stato appeso su quel legno… Cercò i chiodi con i quali era stato crocifisso il Signore, e li trovò. Da un chiodo fece fare un morso, un altro fu inserito in un diadema [sappiamo che esistevano, e che erano a Milano perché vengono nominati alla Corte Imperiale alla fine del IV secolo: ci si sarebbe sbellicati dalle risa se gli oggetti non fossero stati presenti e ben conosciuti da tutti]; ne impiegò uno per ornamento, un altro per devozione. Maria fu visitata perché liberasse Eva, Elena fu visitata perché fossero salvati gli Imperatori. Mandò dunque a suo figlio Costantino il diadema tempestato di gemme, tenute insieme dalla gemma più preziosa della croce della divina redenzione, connessa al ferro; gli mandò anche il morso. Costantino usò entrambi gli oggetti e trasmise la fede ai suoi successori. Il principio degli Imperatori Cristiani è “una cosa santa che sta sul morso”: da esso venne la fede, perché cessasse la persecuzione e ne prendesse il posto la devozione.

Agì con saggezza Elena, che ha posto la croce sulla testa dei Re, affinché nei Re sia adorata la croce di Cristo. Questa non è superbia, ma devozione, perché si rende omaggio alla redenzione santa. Prezioso è dunque un tale timone dell’Impero Romano, che governa il mondo intero e riveste la fronte dei Principi, affinché siano banditori della fede quelli che solevano perseguitarla. Giustamente il timone sta sul capo, perché, dove ha sede l’intelligenza, ivi sia la tutela. Sul capo la corona, nelle mani le briglie: la corona è formata dalla croce, perché risplenda la fede; anche le briglie sono formate dalla croce, affinché l’autorità governi usando una giusta moderazione, non un’imposizione ingiusta. Anche i Principi per concessione della generosità di Cristo ottengano che, ad imitazione del Signore, si dica dell’Imperatore Romano: “Hai posto sul suo capo una corona di pietre preziose” (Salmi 20, 4).

Domando però: per quale motivo “una cosa santa sul morso” (Zaccaria 14, 20), se non perché frenasse l’arroganza degli Imperatori, reprimesse la dissolutezza dei tiranni, che, come cavalli, nitrivano smaniosi di piaceri, perché potevano impunemente commettere adulteri? Quali turpitudini conosciamo dei Neroni e dei Caligola e di tutti gli altri che non ebbero una cosa santa sul morso. Quale altro risultato ottenne l’intervento di Elena per guidare il morso se non quello che sembrasse dire per divina ispirazione agli Imperatori: “Non siate come il cavallo e il mulo” e stringesse invece “col morso e la museruola” (Salmi 31, 9) le loro mascelle perché governassero i loro sudditi, mentre prima non si riconoscevano responsabilità di governanti? Il potere, infatti, si abbandona senza ritegno al vizio e, come bestie, i Sovrani si contaminavano in sfrenate libidini e ignoravano Dio. La croce del Signore li frenò e li distolse dalle cadute dell’empietà, fece loro alzare gli occhi perché cercassero in cielo Cristo. Deposero la museruola dell’incredulità, accolsero il morso della devozione e della fede, seguendo Colui che dice: “Prendete sopra di Me il Mio giogo; il Mio giogo, infatti, è dolce e il Mio carico leggero” (Vangelo secondo Matteo 11, 29 e seguenti). Perciò abbiamo avuto gli altri Principi Cristiani – con l’eccezione di Giuliano, che lasciò l’Autore della sua salvezza abbandonandosi all’inganno della filosofia –, perciò abbiamo avuto un Graziano e un Teodosio».

Vi sono in questo brano paralleli con la conversione di San Paolo: Costantino si è lasciato afferrare da Cristo come San Paolo, e per questo fu considerato Santo dalla Chiesa indivisa, quella che tale rimase almeno fino al 1054, tanto che viene riportato – sia pure con punto di domanda – nella Bibliotheca Sanctorum. Poi i calendari liturgici si diversificarono, privilegiando Santi delle diverse aree ecclesiali e determinando diverse procedure di canonizzazione. Costantino è considerato Santo e «simile agli Apostoli» ancor oggi dalla Chiesa Orientale: è celebrato il 21 maggio, insieme alla madre Elena (ella fu effettivamente ed inequivocabilmente cristiana).

Il Cristianesimo con Costantino non arrivò al trionfo, ma solo alla libertà, a giustapporsi ad altri culti, in un contesto di pluralismo, ma anche di monostatalismo. Ed è qui un grave principio di dissoluzione: Costantino pensava che fosse possibile un’unità civile in una pluralità religiosa, ove ogni forma religiosa, per se stessa totalizzante, doveva concorrere a creare l’unità della romanità. Ma il fine del Cristiano non era – non è – la «romanitas», bensì Gesù Cristo!

(luglio 2013)

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