La figura di Gesù nel cinema
La figura di Gesù è stata oggetto di una vasta fioritura in campo cinematografico, spesso di buon livello

Gesù Cristo è stato uno dei più grandi personaggi della Storia, sia per il messaggio che diede, sia per le opere che compì. Di fronte a una tale figura, tanto affascinante da esser quasi temibile, sono tanti i modi di porsi: c’è chi crede di aver fede in Lui, e c’è chi invece pensa di non averla; c’è chi gli consacra tutta la vita, e chi passa tutta la vita a combatterlo; c’è chi rimane sgomento dal suo messaggio ed ostenta indifferenza; c’è chi lo accoglie con entusiasmo ma poi, come nella parabola evangelica, le difficoltà e le preoccupazioni della vita soffocano quest’«anelito all’Infinito». Di certo, una vita non basta per poter dire l’ultima parola su di Lui.

Un modo interessante per accostarci alla figura di Gesù potrebbe essere usare uno dei mezzi più comunicativi di questi tempi: il cinema, che al Cristo ha dedicato centinaia di pellicole, generalmente di buon livello artistico. E che lo leggono da differenti punti di vista, appoggiandosi da un lato al testo biblico, dall’altro allo sterminato e secolare patrimonio iconografico cristologico. Il testo biblico è un testo che chiede a tutti, laici e credenti (perché è un patrimonio comune), rispetto, che a tutti chiede di non fare degli esercizi di «bella scrittura»: non si tratta mai semplicemente di riprodurre la Bibbia in pellicola, ma di provare a ri-capire, ri-sentire, ri-leggere quel testo all’interno di un orizzonte di senso assolutamente nuovo.

Ogni generazione ha usato gli strumenti comunicativi a propria disposizione per riscrivere la Scrittura: parola, architettura, scultura, pittura, teatro, musica si sono incessantemente «accordati» nel tentativo di dare nuova risposta agli interrogativi suscitati da quella Presenza di cui la Bibbia vuole dare testimonianza. Oggi, ad essi si è affiancato anche il cinema!


Le Passioni (la cinematografia-attrazione, 1897-1914)

Già nel periodo del muto il cinema, nazionale ed internazionale, realizza numerosissime pellicole sulla vita di Cristo, o concernenti figure di Santi e personaggi biblici; questo dato indica sia l’impegno del cinematografo ad inserirsi a pieno titolo tra gli spettacoli d’intrattenimento popolare (teatro, varietà, spettacoli itineranti, «burlesque»…), sia la sua volontà di distinguersene per elevata qualità artistica e morale: la figura di Cristo, e in generale la presenza di un soggetto religioso, conferisce al nuovo mezzo di comunicazione l’opportunità sia di conquistare un’ampia fascia d’utenza e di avere il consenso della Chiesa (spesso diffidente verso la «nuova diavoleria del secolo» e propensa a forme di controllo e di censura), sia di ottenere un vasto successo popolare.

Il filone principale della filmografia religiosa internazionale degli anni Dieci è costituito dalle Passioni di Cristo. Caratteristica peculiare delle Passioni è la loro struttura: una serie di quadri indipendenti, che narrano la vita di Gesù secondo l’ordine cronologico indicato dai Vangeli, puntando sull’integrazione narrativa e sulla qualità artistica delle singole vedute. Questa struttura a «tableaux vivants» è possibile poiché un argomento di portata universale come la vita di Cristo riesce ad essere compreso e fruito con successo dal pubblico nonostante l’assenza di nessi temporali tra un quadro e l’altro, proprio in quanto privo della necessità di esplicitare passaggi cronologici o dialoghi tra i protagonisti; il pubblico, infatti, non deve preoccuparsi di scoprire una nuova storia, ma solo di apprezzarne la rappresentazione. Per di più non risulta fondamentale, in questo tipo di pellicole, una netta caratterizzazione psicologica del Salvatore, quanto piuttosto una semplice, elegante, talvolta ascetica, presentazione della sua figura.

Per questi motivi il filone delle Passioni dà vita ad un’iconografia cristologica nuova e al tempo stesso tradizionale: nuova in quanto filtrata dal cinematografo, ma tradizionale a seguito degli elementi rappresentativi che definiscono la figura di Cristo. Risulta, infatti, semplice ed immediato paragonare alcuni «tableaux» a note opere d’arte pittorica, soprattutto quelle inerenti i soggetti canonici dell’iconografia sacra (ad esempio l’Annunciazione, la Natività, l’Ultima Cena, la Crocifissione). Le Passioni, porta d’accesso del sacro nel cinema, rimangono il genere più diffuso della cinematografia-attrazione; il loro fascino colpisce soprattutto il sentimento religioso dei semplici, tanto che i missionari dell’epoca acquistano queste opere per mostrarle nei diversi territori di evangelizzazione.


Christus (1916)

Il film Christus, di Antamoro, ripercorre la vita di Gesù di Nazaret dall’Annunciazione all’Ascensione al Cielo, ed è diviso in tre parti, denominate «Misteri»: il Primo Mistero (Mistero della Natività), il Secondo Mistero (Vita Adulta e Predicazione), il Terzo Mistero, a sua volta suddiviso in tre parti (Passione, Morte e Resurrezione). La scelta di frammentare il racconto in una serie di episodi indipendenti collega inevitabilmente Christus alla tradizione delle Passioni; sicuramente la superiorità di questo lungometraggio risiede e affonda le sue radici nel rifiuto da parte di Antamoro di un racconto in sequenze concatenate. La frammentazione in Misteri permette il massimo della concentrazione sui singoli episodi, stimola la contemplazione e l’esaltazione del quadro, sia da parte del regista, sia da parte del pubblico; il gusto compositivo per ogni singola ripresa rende questo lungometraggio un’opera pregevole e induce lo spettatore ad un atteggiamento devozionale, che richiama alla mente e al cuore la popolare ed antica preghiera del Rosario. L’inserimento, consapevole ed esplicito, di minuziose riproduzioni di celebri opere d’arte (quasi tutte di autori italiani), non solo esprime l’intenzione di nobilitare la pellicola con preziosismi figurativi che stupiscono lo spettatore e lo rendono cosciente della qualità artistica del lungometraggio, ma conferma la tesi iniziale della presenza di una vera e propria iconografia cristologica all’interno della produzione cinematografica muta. La figura di Cristo viene riportata alla mente e agli occhi dello spettatore in tutta la sua dignità e statura morale, sicura di una tradizione artisticamente più che valida, capace di associare la divinità di Cristo alle più sublimi manifestazioni della creatività umana.

Elemento fondamentale per il riscontro positivo che ebbe l’opera, soprattutto a livello popolare, è l’interpretazione degli attori protagonisti: Alberto Pasquali incarna con misura e capacità mimica la figura tradizionale del Redentore, conferendogli un’aura di umile divinità; Leda Gys, soprattutto nei drammatici momenti della Crocifissione, trova accenti di verità inusuali nello stile recitativo del cinema italiano dell’epoca, unanimemente riconosciuti dalla critica.

I pregi della pellicola finora elencati sono ovviamente affiancati da inevitabili difetti: la scelta di una struttura a quadri comporta un ritmo rallentato e, a volte, una certa discontinuità; l’esplicito riferimento alle opere d’arte, non nascendo da una necessità interna al racconto cinematografico, può risultare un freddo inserto, volto a fare sfoggio di una mera erudizione estetica.

Nonostante tali inevitabili debolezze stilistiche, Christus risulta una vera opera cinematografica capace di offrire un contributo nel passaggio progressivo dalla cinematografia-attrazione al cinema come arte.


Gesù e il kolossal (anni Venti-Cinquanta)

La rappresentazione di Cristo, in questi anni, risulta spesso frutto dell’intersezione tra contesto storico e intenzione registica, ai fini di realizzare un ritratto sempre diverso ed originale del Figlio di Dio, tramite il quale poter esprimere una visione personale della fede e della vita. La cifra stilistica delle pellicole di questo trentennio è la libera interpretazione di tradizione iconografica e Sacre Scritture, inserita nello stile e nel fasto tipico dei kolossal storici.

Per maggiore chiarezza, segue un breve elenco di alcuni film dell’epoca:

1925: Ben Hur (F. Niblo)

1927: Il Re dei Re (C. B. De Mille)

1935: Golgota (J. Duvivier)

1951: Quo vadis? (M. Le Roy)

1953: La tunica (H. Koster)

1959: Ben Hur (W. Wyler)

1961: Il Re dei Re (N. Ray)


Il Vangelo secondo Matteo (1964)

Nel pieno della riflessione legata al Concilio Vaticano II e nel pieno di un periodo di passioni e contrapposizioni ideologico-politiche, la Bibbia torna al cuore del mondo cattolico, e di questo rinnovato atteggiamento di attenzione il cinema biblico non può non risentirne, tanto più nel momento in cui lo stesso Concilio riconosce ai mezzi di comunicazione di massa un nuovo ruolo come strumenti per diffondere la conoscenza della fede cristiana (decreto sui mezzi di comunicazione Inter Mirifica, 1967). E di questa influenza del Concilio in sé, come evento storico che riguarda tutti, è testimonianza evidente l’esplicita dedica del Vangelo secondo Matteo di Pasolini «alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII» e il suo sforzo di riprendere gran parte del testo matteano nel parlato, con un atteggiamento di fedeltà traspositiva che resterà nella storia del cinema biblico una sorta di «unicum». Destò scandalo la realizzazione di questa pellicola da parte di un regista dichiaratamente ateo, omosessuale e di ideologia marxista, che affermò di aver affrontato quest’opera a seguito di una crisi religiosa.

Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini è una trasposizione estremamente fedele del testo dell’evangelista Matteo, scelto dal regista per il suo essere una semplice e scarna cronaca e perché qui risalta l’umanità del Cristo, il suo essere uomo tra gli uomini: si ripercorre così la nascita, Erode, il battesimo da Giovanni Battista fino ad arrivare alla morte e alla Resurrezione; non vi sono variazioni nella storia, né cambiamenti anche testuali apportati dal regista alla versione di San Matteo. Girato tra i sassi di Matera, in Lucania, il Vangelo si riallaccia nello stile semplice, ma anche ostico e ben poco attraente, alle Passioni del cinema delle origini. Anch’esso si rifà alle sacre rappresentazioni popolari nella scelta di rappresentare la vicenda ricorrendo ad attori non professionisti affinché il vero centro dell’attenzione dello spettatore diventino non la bellezza estetica dell’immagine quanto piuttosto le parole pronunciate da Gesù, doppiato dalla voce pulita e impostata di un vero attore, Enrico Maria Salerno. L’immagine stessa di Cristo viene spogliata da tutta l’iconografia classica in favore di una scelta del tutto nuova: Pasolini trova il suo Gesù nel volto del Catalano Enrique Irazoqui, scelto per i suoi tratti somatici molto vicini alla ieraticità della pittura bizantina e ai volti allungati dei dipinti di El Greco. Interessantissima è anche l’insistenza di soffermarsi sui volti e le espressioni degli improvvisati attori, indispensabile per «sopperire» all’assenza dei dialoghi – indimenticabile lo sguardo della giovane Maria all’inizio del film, uno sguardo duro e deciso di fronte al volto sbigottito di Giuseppe, che apprende la sua promessa sposa essere incinta. Proprio la Vergine appare come una figura molto bella e nitida, e in quella sequenza, non appena la macchina da presa si allontana, appare sullo sfondo un mezz’arco di pietra che le fa da cornice, come l’ovale di una medaglietta del Rosario.

Vangelo secondo Matteo

Una giovane Maria Vergine nel film Vangelo secondo Matteo di Pasolini

Pasolini lesse il Vangelo, per sua stessa ammissione, per la prima volta nel 1942, e la seconda ad Assisi nel 1962. In quest’ultima occasione Pasolini ebbe l’idea di un film sul Vangelo. Il regista non è un Cattolico, e proprio questo suo distacco lo convincerà a terminare questo ambizioso e rischioso progetto: «Io ho potuto fare il Vangelo così come l’ho fatto proprio perché non sono Cattolico» spiegherà, «nel senso restrittivo e condizionante della parola: non ho cioè verso il Vangelo né le inibizioni di un Cattolico praticante (inibizioni come scrupolo, come terrore della mancanza di rispetto), né le inibizioni di un Cattolico inconscio (che teme il Cattolicesimo come una ricaduta nella condizione conformistica e borghese da lui superata attraverso il marxismo)».

La critica di Sinistra risponde freddamente all’uscita del Vangelo, per questioni meramente ideologiche («l’Unità» scrive che «il nostro cineasta ha soltanto composto il più bel film su Cristo che sia stato fatto finora, e probabilmente il più sincero che egli potesse concepire. Di entrambe le cose gli va dato obiettivamente, ma non entusiasticamente atto»). Pasolini risponde alle critiche esaltando la comune avversione del Cattolicesimo e del comunismo verso il materialismo borghese, unico vero nemico di Cristo. Lui intravede nell’ateismo di un comunista una certa religiosità in quanto «si possono sempre ritrovare quei momenti di idealismo, di disperazione, di violenza psicologica, di volontà conoscitiva, di fede – che sono elementi, sia pur disgregati, di religione».

Se le interpretazioni politiche della pellicola si sono sprecate, è forse la modalità semplice e povera attraverso cui sono rappresentati i miracoli che può fornire la chiave per comprendere l’ottica attraverso cui il regista si accosta a Gesù: Pasolini non comprende la dinamica degli eventi prodigiosi narrati da Matteo, tuttavia non può fare a meno di constatare che qualcosa è effettivamente accaduto nell’incontro con quell’Uomo; l’intero film, rispettando fino in fondo la verità storica dell’esistenza di Cristo, constata che a un certo punto nella Storia è avvenuto che un Uomo si è detto Dio, semplicemente riproponendo quei fatti così come conservati dalla tradizione. Si tratta di un avvenimento la cui portata sfugge alla piena comprensione del regista, ma non per questo può essere demistificato; e in questa onestà assoluta risiede tutta la straordinarietà del film, ma probabilmente anche il suo stesso limite, perché esso si ferma decisamente un passo prima dell’adesione libera e consapevole alla Verità fattasi carne. Dice Pasolini del suo Vangelo: «Avrei potuto demistificare la reale situazione storica, i rapporti fra Pilato e Erode, avrei potuto demistificare la figura di Cristo mitizzata dal Romanticismo, dal Cattolicesimo e dalla Controriforma, demistificare tutto, ma poi, come avrei potuto demistificare il problema della morte? Il problema che non posso demistificare è quel tanto di profondamente irrazionale, e quindi in qualche modo religioso, che è nel mistero del mondo. Quello non è demistificabile». L’idea pasoliniana del Vangelo si riferiva in primo luogo all’idea della morte, uno dei temi fondamentali dell’impegno intellettuale del Poeta: «È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità…».

Non casualmente Pasolini affida ad un linguaggio sonoro raffinato tutte le vicende più significative narrate nel film; ed è straordinario l’accostamento delle ultime immagini del film (Maria – che è qui la stessa madre di Pasolini – si reca alla tomba del Figlio; il sepolcro si apre e Cristo non è più avvolto nel sudario: è Risorto!) al Gloria di una Messa cantata congolese: nel canto, il testo è in latino e la musica ha tutti gli accenti, gli strumenti e i ritmi del folclore africano, quasi a sottolineare l’universalità di un profondo sentimento religioso.

Il film – è bene ricordarlo – non è una ricostruzione storica fedele, ma una trasposizione cinematografica della versione di Matteo, ossia del modo in cui ha inteso la vita di Cristo. Non vi è nel film una ricostruzione storica, ma, come lo stesso Pasolini definisce, «una specie di ricostruzione per analogie. Cioè ho sostituito il paesaggio con un paesaggio analogo, le regge dei potenti con regge e ambienti analoghi, le facce del tempo con delle facce analoghe; insomma è presieduto alla mia operazione questo tema dell’analogia che sostituisce la ricostruzione». Il film non vuole essere una ricerca illustrativa, ma vuole dare il senso della poesia che c’è nel Vangelo: «La mia idea è questa: seguire punto per punto il Vangelo secondo Matteo, senza farne una sceneggiatura o riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o un’aggiunta il racconto. Anche i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo, senza nemmeno una frase di spiegazione o di raccordo: perché nessuna immagine o nessuna parola inserita potrà mai essere all’altezza poetica del testo. È quest’altezza poetica che così ansiosamente mi ispira. Ed è un’opera di poesia che io voglio fare. Non un’opera religiosa nel senso corrente del termine, né un’opera in qualche modo ideologica. In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia Figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in Lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità. Per questo dico “poesia”: strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo».


Jesus Christ Superstar (1973)

Jesus Christ Superstar di Norman Jewison traspone sul grande schermo il fortunato musical di Andrew Lloyd Webber (autore delle musiche) e Tim Rice (autore delle parole). Di successo immediato e planetario, la pellicola racconta le vicende che caratterizzano gli ultimi sette giorni della vita di Gesù Cristo, dal suo ingresso in Gerusalemme fino alla Crocifissione. In essa dominano tre figure: Gesù Cristo, che sembra una star del rock ormai in declino e abbandonata dai suoi stessi seguaci, appare come una figura che ha molto di umano e poco di trascendente, con il dubbio e la paura di morire; Maria Maddalena, seducente e ambigua, ma anche dolce ed investita da un amore che lei stessa non sa comprendere; e infine Giuda, il traditore, figura cardine del film e qui rappresentato come vittima per l’umanità, un uomo costretto suo malgrado a portare fino in fondo il tradimento del suo Maestro.

Norman Jewison iniziò a girare in Israele il film, e i paesaggi tipici della Palestina (l’infuocato deserto che spinge le sue sabbie ocracee fin sulle rive del lago, il giardino degli Ulivi, le rovine delle città romane) riescono con la loro stessa bellezza a coinvolgere lo spettatore in questa sorta di «sacra rappresentazione filmica» messa in scena a ritmo di rock da un gruppo di hippy riunitisi nel deserto.

La pellicola (che alla sua prima uscita fu subissata da un coro di proteste per il carattere irriverente e dissacratorio con cui sembrava descrivere il Cristo) tenta un approccio diretto, adeguato ai giovani ed alle nuove generazioni, nei confronti dell’enigmatica figura di Cristo, tanto che il tema centrale, sia narrativo che musicale, è proprio la domanda sulla sua identità: «Jesus Christ, who are you? What have you sacrificed?» («Gesù Cristo, chi sei tu? Che cosa hai sacrificato?»). Gesù, interpretato da Ted Neeley, è per i giovani un grande uomo che sfida il mondo intero e le sue regole con un messaggio rivoluzionario; ma a un certo punto, senza un apparente motivo, comincia a fare la «superstar» dicendo addirittura di essere Dio, e allora le cose cominciano ad andar male, nonostante Giuda, da sempre il suo braccio destro, cerchi in ogni modo di farlo recedere da questa sua strana pretesa destinata a portarlo alla morte.

Il merito di questo coinvolgente film, sorretto da un’ottima musica, è quello di aver tentato di proporre in maniera diretta ai giovani la pretesa di Cristo di essere Dio (interessantissima, a questo proposito, la figura di Erode, vera e propria «macchietta», ritratto come un regista hollywoodiano che – esibendosi in un pittoresco balletto con la sua corte di transessuali – tenta di convincere Gesù a fare un piccolo miracolo, giusto per fargli vedere che è davvero il Figlio di Dio… la spettacolarizzazione della Fede). Ma questa domanda iniziale finisce per diventare un’assurda pretesa nel momento stesso in cui sono gli stessi giovani ad avere l’ultima parola e a darsi da soli una risposta: è emblematica la sequenza finale nella quale, dopo la Crocifissione, tutti se ne vanno mentre il personaggio che ha interpretato Cristo rimane ancora inchiodato alla croce, come ad affermare che quel sacrificio è stato grande ma in fin dei conti incomprensibile.

Ma ecco che nell’ultima inquadratura si nota un uomo andarsene verso l’orizzonte, come se fosse appena uscito dal sepolcro…


Gesù di Nazaret (1977)

Variamente vilipeso e deriso (è stato persino giudicato un «filmetto da oratorio» per la sua narrazione piana e scorrevole e l’assenza di tecniche cinematografiche di particolare innovazione), il Gesù di Nazaret di Franco Zeffirelli è in realtà una pellicola di tutto rispetto, una perla assolutamente perfetta per quelli che erano gli intenti del regista: raccontare la vita di Gesù Cristo così come ce la tramandano i Vangeli; si potrebbe infatti vedere il film con i Vangeli aperti a fianco, nonostante alcune libertà tratte anche dagli apocrifi; si può, anzi, dire che è il film più «completo» sulla vicenda di Cristo. Zeffirelli imbastisce una messa in scena enorme e sfavillante, arricchita dall’uso di riferimenti iconografici a secoli di pittura cristiana (tra cui un Gesù con capelli lunghi ed occhi azzurri), attraverso la quale suggerisce il senso del sacro, trovando la sua sintesi nella figura di Gesù, interpretato da Robert Powell in una delle sue migliori interpretazioni: persino il suo sguardo a volte un po’ «perso» e «spento» è quello di chi non è più sulla terra, ma è già proteso verso le cose del Cielo. Gesù di Nazaret è destinato ad essere uno dei film biblici più fortunati presso il mondo cattolico per la ricostruzione degli ambienti, la fluidità del ritmo narrativo, la partecipazione di grandi attori, le immagini di grande bellezza, e per l’indubbia capacità di rinnovare la spettacolarità classica del cinema biblico. Ulteriore caratteristica della pellicola è quella dell’attenzione alla riflessione politica e civile, evidente nella scena della flagellazione (punto di vista dell’inquadratura coincidente col punto di vista del potere). La vera forza della pellicola risiede comunque nei ritratti degli Apostoli, resi con uno straordinario senso di realismo mai visto prima: nel mostrare la quotidianità dei rapporti tra uomini comuni, diversi per carattere, la sapienza visiva di Zeffirelli colpisce nel segno, soprattutto nella figura di Pietro, interpretato da James Farentino, certo rude e scontroso, ma indubbiamente reale nel dramma della sua umanità di fronte a Cristo – un dramma nel quale siamo tutti immersi. Quelli che Zeffirelli mette in scena nel loro rapporto quotidiano con quella Presenza certo fuori dal comune, sono uomini ritratti di fronte al Mistero, nei quali anche lo stesso regista si gioca personalmente come credente, invitando tutti noi – sia Cristiani che atei – a fare lo stesso.


L'ultima tentazione di Cristo (1988)

Nel 1988 Martin Scorsese realizza L’ultima tentazione di Cristo, tratto dal romanzo omonimo dello scrittore greco Nikos Kazantzakis, un film collocabile sulla scia dei grandi kolossal hollywoodiani. La pellicola, attaccata come «scandalosa» alla sua uscita per una scena in cui Gesù farebbe l’amore con la Maddalena (scena che in realtà è poco più di un abbraccio), rivalutata solo nel 2003, è il coronamento di un progetto tenacemente portato avanti da Scorsese, ossessionato dai temi della morte e del destino opprimente, che qui riversa «in toto» sul protagonista del suo film. Scelto da Dio perché porti a termine la Sua opera di salvezza, Gesù – un modesto falegname costruttore di croci per conto dei Romani – non vorrebbe sobbarcarsi questo peso perché, come l’uomo di oggi, è carico di dubbi e di incertezze, incapace di decidere da solo come reagire a questa voce interiore che lo chiama, tanto da aver bisogno del tradimento dell’amico Giuda per poter essere crocifisso secondo il volere di Dio. Ma sul Calvario si innesta l’ultima tentazione, o meglio l’ultima allucinazione: come Abramo con Isacco, così un angelo di Dio toglie Gesù dalla croce perché il suo sacrificio non occorre più a Dio Padre. Tornato ad essere un uomo come tanti, può sposarsi e avere dei figli, vivendo una vita normale fino a diventare vecchio. Ma sul letto di morte, mentre Gerusalemme viene distrutta dai Romani, i discepoli tornano da Lui e il suo vecchio amico Giuda lo accusa di essere il vero traditore perché ha rinunciato ad essere il Messia, per aver dato ascolto alla voce di un angelo che si rivela essere nient’altro che Satana stesso. Di fronte alla sconfitta, Gesù chiede al Padre di poter tornare su quella croce: un’improvvisa carrellata in avanti ed eccolo nuovamente sul Calvario dove tutto può compiersi e finalmente può morire per il disegno di Dio, mentre sullo schermo segni di luce colorata simili a una pellicola cinematografica avvisano gli spettatori che il film è finito e che la finzione ormai è terminata.

Pur ambiziosa nello scopo e certamente non scontata, almeno dal punto di vista visivo, questa Ultima tentazione di Cristo resta un’opera profondamente ambigua e in molti punti irrisolta; ma il limite più grande sta nel fatto che rimane del tutto insoluta la pretesa iniziale di scandagliare le due anime di Gesù, quella umana e quella divina, alla quale Scorsese non riesce a dare una risposta precisa, finendo più che altro per ridurre Gesù al solo fattore umano, caratterizzandolo come un uomo di oggi, lacerato dalle incertezze, ai limiti della schizofrenia, irriconducibile ad una unità che ne sappia cogliere il Mistero profondo.

«Questo film», spiega il Cattolico di origini siciliane Martin Scorsese «non è basato sui Vangeli. È solo una riflessione fantastica sugli eterni conflitti dello spirito». Queste le parole che compaiono puntuali ad inizio pellicola: la frase può essere letta come un invito a predisporsi al contatto con una raffigurazione sicuramente meno canonica, ma comunque sensata e rispettosa, della persona di Gesù Cristo. Chiunque abbia mai pensato al Figlio di Dio «semplicemente» come ad un uomo, non può non aver ipotizzato almeno una volta che Egli possa aver tenuto comportamenti in qualche maniera simili a quelli mostratici in questo film, che possa essere stato attraversato da pensieri prettamente «umani» che lo hanno fatto vacillare più di quanto si pensi comunemente.

L’ultima tentazione di Cristo opera un’indagine non tanto mirata ad analizzare particolari aspetti divini di Gesù, quanto piuttosto a riflettere su quanto di «terreno» ci fosse in Cristo stesso, sino ad arrivare al momento della Crocifissione allorché Gesù, una volta accettato il massimo sacrificio, viene tentato dal pensiero di una vita tranquilla al fianco di Maria Maddalena.

Il film procede lentamente, con passo riflessivo e solenne, attraversando via via i molteplici eventi definitori, soffermandosi non tanto sulla straordinarietà del singolo episodio in sé, quanto piuttosto su come lo stesso accadimento possa aver influito sulla spiritualità e sulla psicologia di Gesù, la cui figura e relativa complessità ricoprono sempre un ruolo predominante rispetto alla grandezza e alla solennità delle sue azioni.

La parte migliore di questa pregevole pellicola è proprio quella dell’ultima tentazione «vissuta» da Cristo sulla croce, quella che sublima tutto il percorso preparatorio che la precede, rendendolo effettivamente più apprezzabile di quanto non appaia in prima istanza.


Gesù nell’epoca della secolarizzazione (dagli anni Novanta ad oggi)

Gli anni posti a cavallo tra il Ventesimo ed il Ventunesimo secolo sono gli anni del «cinema dei buoni sentimenti», desideroso di proporre figure positive al grande pubblico, soprattutto ai giovani, sempre più protagonisti di episodi di violenza non di rado terminanti in tragedia. Le figure religiose hanno una parte preponderante in questo progetto: Papi, Santi, grandi interpreti della Fede appaiono sempre più di frequente sia sul grande che sul piccolo schermo, in film nei quali il messaggio è predominante sugli effetti speciali e la buona riuscita del film è legata principalmente alla bravura degli attori. La storia di Cristo tende a seguire un’ottica prettamente umana, destinata in special modo al pubblico laico di oggi che di Gesù vuole indagare l’anima umana, con le passioni e le paure proprie di un uomo.

Il Jesus di Young (1999), prodotto per la televisione e che rientra nel Progetto Bibbia della Lux Vide, vuole presentarsi come riscoperta fedele e completa, per un successo internazionale e un consenso popolare. Si avvale di uno stile visionario ed effetti speciali per le scene in cui Gesù si confronta con Satana (anche con precisi riferimenti ai mali della Storia), omaggia i Vangeli del cinema (Scorsese ed altri), può contare su di un cast internazionale.

Con The Passion di Mel Gibson (2004) sembra vi sia un «ritorno» alle Passioni: il film racconta le ultime dodici ore della vita di Cristo, dall’Orto degli Ulivi dove Gesù si è recato per pregare, fino alla sua morte. «È un film a proposito di fede, speranza, amore e perdono» ha detto il regista, «è un film sul sacrificio di Cristo». E ancora: «Gesù Cristo è stato pestato per le nostre colpe, è stato ferito per le nostre trasgressioni e dalle sue ferite noi veniamo guariti. Questo è il punto del film, non quello di attribuire responsabilità». Stando alle dichiarazioni del regista, Gibson ha steso la sceneggiatura della sua Passione attingendo principalmente a due fonti: i quattro racconti evangelici della Passione e la storia della Passione contenuta nelle «visioni» della mistica tedesca dell’Ottocento Emmerick. Si tratta di due fonti di diverso valore (il Vangelo è sicuramente più affidabile) e soprattutto di diverso stile: i racconti evangelici sono scarni ed essenziali, il racconto della Emmerick invece, molto più lungo, dettagliato, si sofferma con insistenza sulle sofferenze del Redentore. Il tutto è filtrato e riletto dalla Fede propria del regista e dalla sua sensibilità artistica. Gibson ha presentato il film con queste parole: «Non è puramente documentaristico, né puramente artistico. Io lo considero un’opera contemplativa, nel senso che si è costretti a ricordare (non dimenticare) con una spiritualità che non può essere descritta, ma solo vissuta». Nel film il male è presente, concreto e seducente; la violenza esplicita ed insistita, dicono i critici, non è fine a se stessa: Gesù compie la volontà del Padre e questo sacrificio comporta violenza.

Quale sarà il futuro dell’«indagine» intorno a Gesù, nessuno lo può sapere. Ma sembra che, cinematograficamente parlando, essa sia destinata a proseguire ancora a lungo.

(marzo 2010)

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