La restaurazione religiosa di Giuliano, detto l’Apostata
Uomo di grande levatura, assetato di spiritualità, sognò un ritorno alla religione dei padri che doveva costargli la vita

L’Imperatore Romano Giuliano, passato alla storia con l’epiteto spregiativo di «Apostata» per la sua abiura al Cristianesimo, è un personaggio singolare nell’affresco del Tardo Impero Romano. Un uomo d’altri tempi, lo si potrebbe definire, che aveva tutte le virtù di quegli antichi personaggi che avevano fatto grande il nome di Roma: era casto, frugale, asceta come un monaco, liberale, resistentissimo alla fatica e – in guerra – fin troppo temerario. Ma aveva anche un carattere incostante, sebbene aperto alle correzioni da parte di amici e conoscenti, un eccesso di loquacità, la vanità di essere lodato da tutti e, cosa che doveva portarlo a una morte prematura, uno spirito più superstizioso che sinceramente religioso (soprattutto aveva la fissazione dei sacrifici animali).

Giuliano nacque, si può dire, al di fuori del suo tempo: fosse vissuto un paio di secoli prima, sarebbe stato probabilmente ricordato come Giuliano il Grande. Invece, ebbe il torto di perseguitare il Cristianesimo e di appoggiare il paganesimo in un’epoca in cui quest’ultimo non avrebbe mai potuto vincere. Esecrato dai Cristiani suoi contemporanei, non c’è oggi nessun vero Cristiano che non guardi a lui con compassione ma anche con ammirazione.

In questo contributo, focalizzeremo l’attenzione principalmente sul suo tentativo di restaurazione della religione pagana.


Gli anni della formazione

La vicenda di Giuliano inizia nel sangue e nel sangue finisce. È il giorno di Pentecoste, 22 maggio 337 dopo Cristo, che muore l’Imperatore Costantino, dopo aver ricevuto il battesimo sul letto di morte da Eusebio, Vescovo ariano di Nicomedia. Quella che segue è una notte di massacro: i soldati (con il probabile consenso di Costanzo II, il figlio emergente di Costantino) eliminano tutti i discendenti maschi collaterali dell’Imperatore appena defunto, per impedire troppe aspirazioni imperiali e lasciar posto così ai soli nipoti di Elena, ovvero Costantino II, Costanzo II e Costante. Sfuggono alla morte solo due fanciulli, Gallo e il fratellastro Giuliano, figli di Giulio Costanzo, fratello di Costantino per parte di padre: Gallo è gravemente malato e se ne prevede imminente la morte naturale; Giuliano, di appena sei anni, si salva perché la madre Basilina, una nobile cristiana, gli fa scudo col proprio corpo e viene trucidata sotto i suoi occhi.

Mentre Gallo viene inviato a Efeso per attendere allo studio, Giuliano è portato a Nicomedia, dove viene scelto come suo maestro per la formazione religiosa il già ricordato Vescovo Eusebio. Non è una scelta felice: Eusebio è un ambizioso, troppo impegnato a tessere intrighi contro i suoi avversari per trovare il tempo da dedicare alla formazione religiosa di Giuliano.

A Makellon, Giuliano si iscrive prima fra i catecumeni, poi fra i «competentes», infine riceve il battesimo e l’Eucaristia; in seguito viene iscritto tra i lettori, uno dei gradini del «cursus» ecclesiastico. La segregazione in Makellon dura sino all’usurpazione di Magnezio, verso il 350, quando Gallo è chiamato da Costanzo II, creato Cesare e inviato ad Antiochia; Giuliano lascia Makellon e si reca a Costantinopoli, dedicandosi allo studio della retorica sotto la guida di Ecebolio, che non brilla per coerenza (passa con molta disinvoltura dall’essere cristiano all’essere pagano e al tornare cristiano a seconda degli Imperatori e delle loro idee religiose). In pratica, ha i precettori peggiori a cui potrebbe aspirare. È probabilmente in questo periodo (anno 351) che Giuliano passa al culto idolatrico in privato, mentre in pubblico si comporta ancora da cristiano.

Nel 354 Gallo, dopo aver compiuto non poche crudeltà ad Antiochia, è richiamato da Costanzo II a Corte e condannato a morte. Giuliano riceve l’ordine di recarsi a Milano, per difendersi egli stesso dall’accusa di tramare contro il cugino Imperatore. Verso la fine del 355, cedendo alle istanze dell’Imperatrice Eusebia, Costanzo II lo nomina Cesare e gli dà in moglie la sorella Elena, facendolo diventare anche suo cognato. Poi lo invia in Gallia con il compito di respingere le frequenti scorrerie dei Franchi e degli Alamanni da oltre il Reno: qui Giuliano dimostra doti non comuni di stratega militare, coniugando coraggio, rapidità e astuzia; due anni dopo l’esercito degli Alamanni è praticamente annientato ad Argentoratum (Strasburgo), i Franchi sono colti di sorpresa e costretti alla fuga e alla sottomissione; il Reno viene passato tre volte, 20.000 prigionieri romani sono liberati e viene ristabilita la linea di frontiera del Reno. Giuliano potrebbe aspettare tranquillo la successione al trono, perché Costanzo II non ha eredi, ma sul finire del 359, quando l’Imperatore gli chiede alcune legioni per muovere guerra ai Persiani, le truppe insorgono e proclamano Giuliano nuovo Augusto. Questi si mette in marcia contro il cugino e, dopo essere giunto a Naisso, sicuro del proprio potere, offre apertamente e davanti a tutti sacrifici agli dèi, facendo così della sua nuova fede un elemento di contrapposizione al cugino e cognato; in realtà, continua a comportarsi pubblicamente da cristiano fino all’Epifania del 361, quando a Vienne in Gallia partecipa ancora, per l’ultima volta, alla Liturgia cristiana – è questo il segno di quanto sia radicata la fede cristiana nell’Impero e nell’esercito e di come ci si debba comportare con astuzia. Lo scontro con le truppe di Costanzo II non è destinato ad avvenire perché l’Imperatore muore il 3 novembre per un improvviso attacco di febbre in Cilicia, dopo aver ricevuto sul letto di morte il battesimo. Giuliano, acclamato Imperatore dai suoi soldati, entra in Costantinopoli l’11 dicembre dell’anno 361, presenzia ai solenni funerali decretati dal Senato a Costanzo II, ne fa seppellire il cadavere nella Basilica degli Apostoli e gli decreta l’apoteosi.

Rimasto così unico Imperatore, Giuliano si trattiene a Costantinopoli fino al maggio del 362, dedicandosi agli affari di governo. L’Impero è un disastro: confini non sicuri, campagne abbandonate, commerci quasi inesistenti se non a livello locale, calo demografico ma brulicare di eunuchi, adulatori, professionisti di delazioni. Giuliano si butta anima e corpo a riordinare lo Stato: caccia dal palazzo la moltitudine di parassiti, intriganti, profittatori ed eunuchi; riduce le tasse fondiarie per ridare respiro all’agricoltura; ha una cura particolare per i poveri, ricostruisce città e villaggi, ripristina le comunicazioni sia per i commerci sia per un contatto più diretto fra il potere centrale e gli organi periferici. Nel contempo, manifesta ormai senza alcun dubbio le sue idee, anche con la pubblicazione del Discorso contro i Galilei. Poi si trasferisce in Asia, per preparare la guerra contro i Persiani.


Il tentativo di restaurazione religiosa

Fermiamoci un attimo. Ci si può chiedere le ragioni dell’apostasia di Giuliano. Potremmo a questo proposito riprendere alcune delle indicazioni di Vincenzo Monachino, in un saggio non recentissimo ma ancora attuale (Vincenzo Monachino, Il Cristianesimo da Costantino a Teodosio, PUG, Roma 1983, pagine 166-173):

1) la religione cristiana è la religione di Costanzo II, che Giuliano non può non odiare come massacratore della propria famiglia, per il suo arresto per sei mesi e per l’uccisione del fratello Gallo;

2) l’educazione cristiana gli è stata impartita da Vescovi e sacerdoti ariani o semiariani, i quali non solo gli instillano una concezione piuttosto razionalistica del Cristianesimo, ma soprattutto danno scandalo con i loro intrighi e le loro cospirazioni contro altri membri della medesima Chiesa;

3) alcune caratteristiche della personalità di Giuliano sono una tendenza al misticismo e all’estetismo e una ricerca dell’arcano, che gli sembra possano essere meglio soddisfatte dai misteri pagani della scuola neoplatonica, piuttosto che dal Cristianesimo. Raffinatissimo per cultura, assetato di spiritualità, nella ricerca della verità scopre il platonismo. Riflette che la religione pagana è la religione della Roma del passato, che trionfa sul nemico: la grandezza di Roma è legata alla devozione verso gli dèi dei suoi cittadini. Inoltre egli è imbevuto di ellenismo, e trova la religione cristiana troppo severa e fredda, e anche troppo rozza per potersi paragonare all’ellenismo e alla sua cultura;

4) l’apostasia di Giuliano dal Cristianesimo si comprende meglio se si tiene presente il neoplatonismo del IV secolo, che differisce molto da quello di Plotino e di Porfirio: più che una scuola filosofica, il platonismo è diventato una setta filosofico-religiosa. Infatti prima Giamblico e Soprato, che hanno insegnato ad Apamea di Frigia al tempo di Costantino, e poi Edesio di Pergamo e Massimo di Efeso, hanno unito alla dottrina filosofica le speculazioni dei sofisti e i simboli e i riti dei misteri orientali; i neoplatonici del IV secolo, oltre che filosofi speculativi, sono anche, e forse più, mistagoghi e ierofanti, che iniziano i propri discepoli ai culti segreti e si sforzano di portare le anime a diretto contatto con gli dèi per mezzo di visioni simboliche e di evocazioni divine. Giuliano si fa iniziare ai diversi «misteri», da Mitra in avanti. Nell’Inno a Helios Re, da lui composto, supplica: «Prego Helios Re universale di donarmi la sua grazia, una vita buona, una sapienza più perfetta, una mente ispirata e nel modo più lieve e al momento opportuno il distacco dalla vita stabilito dal destino. Possa io salire a lui e stargli accanto per l’eternità, ma se ciò fosse troppo per i miei meriti, almeno per molti e lunghi periodi di anni!».

Riassumendo, possiamo ritenere che da una parte l’esempio (negativo) dei Cristiani, dall’altra parte la sua formazione, abbiano spinto Giuliano all’apostasia.

Per comprendere meglio l’animo di Giuliano, possiamo leggere qualche passo di una lettera scritta al sacerdote pagano Teodoro (o Teodosio): «Noi onoriamo Giove ospitale e siamo più inospitali degli Sciti […] L’indifferenza e l’insensibilità dei nostri sacerdoti suggerì l’esercizio della filantropia ai Galilei […] Fa’ che si aprano diversi ospizi nelle città, affinché siano partecipi della nostra umanità non solo i bisognosi appartenenti alla nostra religione, ma chiunque, di qualsiasi religione […] Mentre nessun Giudeo chiede l’elemosina, mentre gli empi Galilei nutrono i propri poveri e i nostri, è vergognoso sapere che i nostri poveri sembrino sprovvisti di ogni aiuto da parte nostra» (Epistola 89b).

In questa lettera si coglie subito come, paradossalmente, Giuliano rifiuti il Cristianesimo ma ne assorba di fatto la prassi, lo spirito: di qui la sua insistenza sulla «carità», parola ben lungi dall’insegnamento del culto pagano. La scelta di questa categoria da parte dell’Imperatore rende testimonianza della penetrazione del Cristianesimo, la rivoluzione che esso ha già apportato nella società: la carità, i valori positivi diventano patrimonio comune dell’umanità e lo scandalo diventa il tradimento di questi valori, che lo stesso Giuliano (forse senza averlo chiaro) vuole introdurre nella sua religione. Lui stesso è asceta, pudibondo, incurante nel vestire, abituato a dormire poco e per terra, indefesso nel lavoro e, nella pratica di vita, paradossalmente più vicino a Cristo di chiunque altro. La sua vicenda mostra il trionfo del Cristianesimo: se Costantino è stato un Imperatore «cristiano» che ha guardato con occhi pagani al Cristianesimo, Giuliano è stato un Imperatore «pagano» che ha guardato con occhi cristiani al paganesimo. D’altra parte egli, almeno agli inizi, proclama la libertà religiosa per tutti, quasi a dare realtà al progetto di Costantino e al contenuto dell’editto di Milano, tornando anche in questo alla grande tradizione romana di fedeltà al diritto: in molte lettere dichiara di concedere libertà di culto anche ai «Galilei», ma è più facile dirlo che eseguirlo e inoltre l’Impero tende a modellarsi sui desideri dell’Imperatore.

Non bisogna dimenticare che Giuliano è stato un persecutore della Chiesa: anche se non ha ucciso nessuno e ha cercato di limitare le violenze contro i Cristiani, ha comandato che si riaprissero i templi che erano stati chiusi, che si restaurassero quelli che erano andati in rovina e si riedificassero quelli che erano stati distrutti, e tutto questo a spese dei distruttori stessi. Anzi, i suoi ordini sono di restituire ai templi tutti gli oggetti che sono stati asportati, compresi marmi e colonne utilizzate nella costruzione di altri edifici. Questo provoca violenze e ritorsioni: ad esempio, la città di Cesarea in Cappadocia ha distrutto, ai tempi di Costanzo II, i templi di Giove e di Apollo perché ormai inutili alla città; Giuliano ordina che siano ricostruiti e, dato che i Cristiani si rifiutano e distruggono anche l’altare della Fortuna, fa infliggere alla città una punizione esemplare (Sozomeno, Historia Ecclesiastica V, 4; Gregorio Nazianzeno, Oratio IV, 32). Tali disordini spingono gli stessi governatori pagani delle province ad applicare il volere di Giuliano in modo blando, per non mettere a repentaglio l’ordine pubblico, anche se in qualche luogo vi sono dei pagani che uccidono quelli che si rifiutano di eseguire tali ordini, come tocca per esempio al Vescovo Marco di Aretusa.

La riparazione e la riedificazione dei templi è soltanto uno degli aspetti della restaurazione pagana, che Giuliano ha in animo di attuare: egli intende la restaurazione non tanto come un semplice ripristino dell’antico paganesimo, quanto come una riforma e un rinnovamento dello stesso, come dimostrano le sue lettere – tra le quali quella citata poco sopra –, chiamate non a caso Lettere pastorali.

Questo progetto di riforma punta a una nuova organizzazione della gerarchia e del culto pagani, a un miglior comportamento dei sacerdoti (il cui compito principale, se non esclusivo, è stato fino a ora quello di «ammazzare i buoi»), all’esercizio delle opere di carità: l’Imperatore vuole dei sacerdoti pagani che siano simili e possibilmente migliori di quelli cristiani, comunque normati sul modello cristiano. Si pensi ad esempio alla predicazione: Giuliano pretende che i suoi sacerdoti spieghino i «dogmata hellenica», ispirandosi a Omero ed Esiodo, come se nel paganesimo vi siano o vi siano stati dei testi di riferimento normativo per dottrine dogmatiche e morali. Ma si spinge ancora più in là: esige dai sacerdoti una vita esemplare, che mostri quanto essi esercitino ogni virtù, come la moderazione, la giustizia, la carità fraterna anche nei pensieri, grande diligenza nelle cerimonie del culto, frugalità nel cibo, nei vestiti e nei costumi; inoltre essi devono astenersi dal frequentare spettacoli e taverne, dagli affari pubblici, dalla lettura di libri «cattivi», dal visitare i magistrati, dal foro, dalla piazza del mercato (Epistole 84a, 88, 89a).

Il primo requisito di ogni sacerdote deve essere la moralità, senza alcuna preclusione di origine e di censo, in quanto «ministri e servitori degli dèi, perché compiono, in nostra vece, i doveri verso gli dèi ed è a loro che dobbiamo gran parte dei doni che riceviamo dagli dèi. Essi infatti pregano e sacrificano in nome e per conto dell’intera umanità. Perciò è giusto onorarli ancor più dei magistrati dello Stato e anche se vi è chi ritiene che si debbano tributare onori eguali a sacerdoti e a magistrati, essendo questi i custodi delle leggi e perciò in qualche modo servitori degli dèi, tuttavia al sacerdote spetta maggior considerazione […] poiché celebra sacrifici per conto nostro, reca offerte e si trova di fronte agli dèi, noi dobbiamo rispettare e temere il sacerdote come la cosa più preziosa appartenente agli dèi».

Il secondo requisito di un sacerdote consiste nel possedere la virtù della conoscenza e la capacità dell’ascesi, poiché sapienza e santità fanno dell’uomo un sacerdote-filosofo, come sosteneva Porfirio: «L’ignorante contamina la divinità, pur offrendo preghiere e sacrifici. Solo il sacerdote è saggio, egli solo è amato dal dio, egli solo sa pregare. Chi pratica la saggezza pratica la conoscenza del dio, non dilungandosi in litanie e sacrifici interminabili, ma esercitandosi nella “pietas” divina nella vita di tutti i giorni».

Il terzo requisito è la pratica della carità: «Gli dèi non ci hanno donato una così immensa ricchezza per rinnegarli, trascurando i poveri che sono tra noi […] dobbiamo dividere i nostri averi con tutti, ma più generosamente con i buoni, i poveri, i derelitti, in modo che possano soddisfare le loro esigenze. E posso aggiungere, senza timore di apparire paradossale, che dovremmo dividere cibo e vestiti anche con i malvagi. Poiché è all’umanità che è in ognuno che noi dobbiamo dare, non al singolo individuo». Per questo, Giuliano fa costruire ricoveri per mendicanti, ostelli per stranieri, asili per donne e orfanotrofi.

Ovviamente, tutto ciò non può non accompagnarsi a una precisa intenzione anticristiana, con precisi provvedimenti. Indichiamo quelli più significativi:

1) Giuliano fa subito costruire nel palazzo imperiale di Costantinopoli molti altari agli dèi e un Mitreo (un tempio a Mitra);

2) nell’esercito viene ripristinato subito il culto degli dèi. L’Imperatore comanda che tutti i soldati offrano sacrifici e partecipino alle cerimonie pagane; per coloro che vi si rifiutano, ci sono – progressivamente – promesse, minacce, licenziamento. Ciò vale anche per i magistrati dell’Impero. Oltre a questo, provvede a migliorare le condizioni dei soldati sia al campo che in marcia, vigila sulla qualità delle vivande, sul pagamento puntuale degli stipendi, sulla fornitura delle armi e del vestiario, e mette a capo delle coorti giovani che in battaglia hanno dato prove non ingannevoli di coraggio, valore e sagacia militare;

3) Giuliano ricrea quella separazione tra Chiesa e Stato che è stata solo avviata da Costantino e per questo revoca le immunità concesse ai chierici da Costantino e Costanzo II, obbligando tutti i chierici agli offici municipali e curiali. Allo stesso modo revoca la giurisdizione che Costantino ha concesso ai Vescovi per le cause civili, così essi tornano a svolgere le sole loro funzioni religiose, senza alcuna (pericolosa) commistione politica. Inoltre priva i chierici, le vedove e le vergini di ogni sussidio statale, e li obbliga alla restituzione del denaro che hanno ricevuto;

4) Giuliano ricorre alle pressioni tipiche del potere per «convincere» alla sua volontà. Così ricolma di favori le città che hanno restaurato il culto agli dèi (come Emesa, Aretusa, Eliopoli, Gaza, Cizico) e priva di qualsiasi aiuto e favore quelle che vi si rifiutano (come Pessino, Edessa, Nisibi). Non mancano violenze della folla, sempre pronta a scatenarsi, tanto più se alcuni pensano che ciò possa far piacere al potente di turno; forse il caso più grave, che colpisce la mente dei Cristiani, accade a Eliopoli di Siria, dove Costantino ha fatto chiudere e distruggere alcuni templi (in cui forse si praticavano riti di prostituzione sacra): qui alcuni fanatici massacrano un diacono, strappano le vergini cristiane dal loro ritiro, le spogliano e le gettano nude alla folla, che le violenta e poi le fa a pezzi, gettandone i resti ai porci;

5) Giuliano accentua i gesti di benevolenza alla religione degli avi, come hanno fatto a suo tempo i suoi predecessori a favore del Cristianesimo. Per cui, quando il popolo pagano di Alessandria, insorgendo contro il Vescovo Giorgio che ha preso a burla i riti mitriaci, lo taglia a pezzi, insieme ad altri due funzionari imperiali, Giuliano si limita a rimproverare gli assassini, mentre si preoccupa che si raccolgano e custodiscano i libri della biblioteca di Giorgio, che egli conosce bene (Epistola 60);

6) infine, Giuliano accentua la sua derisione del Cristianesimo, colpendo quel fenomeno che è ormai di vasta portata al suo tempo, cioè il culto dei martiri, le cui tombe chiama «sepolcri degli atei». Per esempio, nell’agosto del 362, ad Antiochia, col pretesto che la fonte Castalia sia stata ridotta al silenzio e Apollo non dia più i suoi responsi nel famoso tempio presso Dafne perché contrariato dalla vicinanza delle reliquie del martire Babila (deposte nella basilica che sorge nei paraggi), fa esumare le reliquie del martire e le fa trasportare al cimitero cristiano, in spregio ai pellegrinaggi assai diffusi. Il 22 ottobre, di notte, il tempio di Apollo è distrutto da un incendio, in tutta evidenza doloso. Giuliano per rappresaglia ordina la chiusura della basilica cristiana di Antiochia e l’incendio delle cappelle di Mileto in onore dei martiri; inoltre manda ordini in Egitto perché il Vescovo Atanasio, che da sette mesi è tornato ad Alessandria (da dove era dovuto fuggire nel 356), sia espulso subito dalla città, dato che la sua presenza pregiudica l’ordine pubblico.

Si tratta di interventi legali, perché l’ordinamento imperiale prevede che, nonostante vi sia libertà di culto per i Cristiani, l’Impero e l’Imperatore devono professare il culto pagano.


La Legge scolastica

Di diversa intonazione e con diverso effetto dovrebbe essere l’atto forse più significativo e carico di conseguenze di Giuliano: la Legge scolastica (17 giugno 362).

Leggiamone il testo: «È necessario che tutti gli insegnanti abbiano una buona condotta e non professino in pubblico opinioni diverse da quelle intimamente osservate. In particolare, tali dovranno essere coloro che istruiscono i giovani e hanno il compito di interpretare le opere degli antichi, siano essi retori, grammatici e ancor più sofisti, poiché questi ultimi, più degli altri, intendono essere maestri non di sola eloquenza ma anche di morale, e sostengono che a loro spetta l’insegnamento della filosofia civile. […] Io li lodo perché aspirano a elevati insegnamenti, ma li loderei di più se non si contraddicessero e non si condannassero da soli, pensando una cosa e insegnandone un’altra. Ma come? Per Omero, Esiodo, Demostene, Erodoto, Tucidide, Isocrate e Lisia, gli dèi sono guida e norma dell’educazione: forse che costoro non si reputavano devoti, chi a Hermes, chi alle Muse? Trovo assurdo che coloro che spiegano i loro scritti disprezzino gli dèi che quelli onoravano. Ma, anche se a me pare assurdo, non dico con questo che essi debbano dissimulare le loro opinioni di fronte ai giovani. Io li lascio liberi di non insegnare ciò che non credono buono ma, se invece vogliono insegnare, insegnino prima con l’esempio […] Finora, si avevano molte ragioni per non frequentare i templi e la paura, ovunque avvertita, giustificava la dissimulazione delle vere opinioni sugli dèi. Ora, poiché questi dèi ci hanno reso la libertà, mi sembra assurdo che si insegni ciò che non si crede giusto. Se i maestri cristiani considerano saggi coloro di cui sono interpreti e di cui si dicono, per così dire, profeti, cerchino prima di rivolgere la loro pietà verso gli dèi. Se invece credono che questi autori si siano sbagliati circa le entità da venerare, vadano allora nelle chiese dei Galilei a spiegare Matteo e Luca. Voi affermate che bisogna rifiutare le offerte dei sacrifici? Bene, anch’io voglio che le vostre orecchie e la vostra parola, come dite voi, si purifichino astenendosi da tutto ciò a cui io ho sempre desiderato partecipare insieme con coloro che pensano e fanno quello che io amo» (ripreso dal Codex Theodosianus XIII, 3, 5).

La legge discende da una logica convinzione dell’Imperatore: che la coerenza sia la prima qualità da richiedersi ai maestri. Pensare in un modo e insegnare in un altro denota mancanza di sincerità e onestà; nasconde un vero inganno per gli scolari. E questo vale per i retori, i grammatici e i sofisti. Gli dèi sono tenuti in grande onore presso Omero, Esiodo, Demostene, Erodoto, Tucidide, Isocrate, Lisia. Ma allora è assurdo che i maestri cristiani spieghino questi autori, perché inevitabilmente li insultano, così come deridono gli dèi di cui questi autori parlano. Di conseguenza, i maestri cristiani debbono scegliere: o non insegnare ciò che non ritengono essere buono, oppure, se vogliono insegnare, devono credere e insegnare che quegli autori dicono il vero sugli dèi. E se i Cristiani persistono nelle proprie convinzioni, «vadano nelle chiese dei Galilei e lì spieghino Matteo e Luca».

Giuliano, dunque, provoca anche un pericoloso principio: la cultura classica di per sé non può essere assunta da un Cristiano; essa diventa espressione di paganesimo e un Cristiano che coltivi interesse per gli scrittori classici greci e latini è praticamente pagano. Di qui il rischio di rifiutare tutto il passato: il Medioevo (o, meglio, un «certo» Medioevo) ha qui le proprie radici. D’altra parte Giuliano spinge i Cristiani a cercare di elaborare una propria letteratura, una propria riflessione filosofica, artistica, giuridica – in altre parole, li stimola a ricercare un’emancipazione culturale, a esprimere la loro fede con categorie proprie. Il cammino teologico della Chiesa, che caratterizzerà i Grandi Concili, i grandi Padri e lo stesso Sant’Agostino, può essere meglio capito in questo contesto.


Riflessioni sull’opera di Giuliano

L’opera di Giuliano è destinata a rimanere incompiuta, una parentesi di venti mesi nella storia del cammino cristiano. Così lo descrive Angelo Paredi (confronta Angelo Paredi, Sant’Ambrogio, Rizzoli, Milano 1985, pagine 50-52): «Giuliano, con la sua ispida barba di filosofo e con le sue abitudini di vita severa e studiosa, fu impopolare. Anche i pagani lo trovavano noioso e troppo devoto». Mentre Giuliano marcia incontro ai Persiani, nel marzo 363, a Roma, dove egli ha permesso che si ricollocasse in Senato l’altare della Vittoria, il tempio di Apollo sul Palatino è rovinato da un incendio che per poco non brucia anche i libri della Sibilla Cumana. Cattivo augurio per la spedizione. Massimo di Efeso, filosofo e retore insuperabile ma anche uomo corrotto e dissipatore di ricchezze, che più di ogni altro ha spinto Giuliano ai misteri di Mitra, gli predice invece: «Tu vincerai sempre, finché marcerai verso la mia culla [(a parlare è il Sole)], cioè fin tanto che avanzerai verso l’Asia». Pessimo consiglio: in pratica l’Imperatore viene tradito proprio per bocca di quegli dèi che ha tanto amato e venerato... un amore mal riposto. Il 26 giugno, 100 chilometri a Nord di Ctesifonte, presso l’attuale Baghdad nell’Irak, durante una violenta battaglia Giuliano è trafitto da una lancia scagliata non si sa da qual parte. La notte seguente muore dissanguato nella sua tenda. Ha 32 anni. I suoi migliori biografi oggi chiedono per lui e per il suo tragico destino non certo approvazioni o rimpianti, ma rispetto, tanto sincera sembra loro la nobiltà morale di quell’uomo. Nell’estate del 363, però, la notizia della sua morte dà luogo a esplosioni incontenibili di gioia da parte dei Cristiani e nelle città d’Oriente non mancano rivolte, tumulti popolari, rappresaglie talvolta feroci. A Roma il Senato gli decreta l’apoteosi. Per molti pagani quella morte è un monito. Gerolamo, scrivendo nel 392 il commento al profeta Habacuc, ricorda che egli alla notizia della morte di Giuliano era studente in Roma e che allora poté sentire un pagano che esclamava scherzando: «E poi dicono i Cristiani che il loro Dio è paziente!». Frase, quest’ultima, che ci dice molto sulla mentalità del tempo e sulla fede che i Cristiani professavano.

Resterebbe da chiedersi chi scagliò la lancia che avrebbe portato Giuliano alla morte: i Persiani o i Romani? Ovvero, detto in termini più crudi, è stato ucciso dal nemico, ucciso dai suoi per errore, o assassinato da un legionario cristiano per le sue idee religiose? Fin da subito, c’è stato chi propendeva per quest’ultima ipotesi. Ma la verità, probabilmente, resterà sepolta nell’ignoto. L’Imperatore era senza corazza, protetto solo dallo scudo; stava inseguendo i nemici in rotta, e tanta era la sua foga che si era lasciato alle spalle la sua guardia del corpo. Le lance volavano da una parte e dall’altra, e l’unica risposta sensata alla questione è che non sappiamo chi l’abbia colpito e se l’abbia fatto di proposito, prendendo la mira, o si sia trattato di una tragica fatalità. Propendere da una parte o dall’altra non è più storiografia: è pettegolezzo, per di più di bassa lega!

Giuliano è stato un forbito scrittore in lingua greca e le sue opere costituiscono una ricca fonte di informazioni sull’uomo e la sua politica: oltre all’Inno a Helios Re, al Discorso contro i Galilei e alle Lettere patorali (già citati), scrisse due satire, (il Misopogone, in difesa del suo operato, e il Covivium o Caesares, sugli Imperatori che l’avevano preceduto), alcuni panegirici e altre opere che costituirono una teologia pagana unificata, fondata su un monoteismo neoplatonico e solare. Sebbene guastata da un rigido fanatismo (per esempio, l’austerità e il disprezzo ostentato per i piaceri popolari del teatro e delle corse dei cavalli, che irritarono enormemente la plebe), la sua intensa e in molti punti «ingenua» spiritualità fece di lui un pagano mistico; e l’intelligenza, l’idealismo e l’energia che dedicò a una rinascita senza speranza delle glorie del passato ne hanno fatto una figura romantica agli occhi della posterità. Giuliano fu, in definitiva, un sognatore, un uomo che di fronte all’enorme caos del suo tempo ha voluto rivolgersi al passato, con l’illusione che questo fosse migliore: questo, semplicemente perché del passato sopravvive soprattutto ciò che vale, con una lenta purificazione di tutto il negativo; quello che Giuliano non ha capito è che il paganesimo è spiritualmente morto, che non offre più stimoli alla giovinezza, né conforto per la fatica di vivere, né speranze per l’oltretomba. D’altra parte, Giuliano esprime il bisogno di chiarezza, di risolvere le confusioni culturali e politiche che il «fatto cristiano» ha introdotto proprio perché non è stato assimilato nella sua novità, ma si è cercato di leggerlo con occhi vecchi e, quindi, di ridurlo, di incamiciarlo. Ma il Cristianesimo non è un altro culto, più alla moda o più funzionale degli altri alla vita e alla struttura dell’Impero: è qualcosa di più!

La morte di Giuliano il 27 giugno dell’anno 363 porta a un’inevitabile fase di instabilità che in breve tempo annullerà tutto il suo operato.

Sullo stesso campo militare che ha visto la morte dell’Imperatore viene eletto come successore Gioviano, un militare mediocre, cristiano, quasi a significare il motivo del (presunto, mai provato) assassinio di Giuliano. Egli si appoggia ai Cristiani, conferendo di nuovo al clero quei privilegi che erano stati ritirati da Giuliano.

Nei pochi mesi di regno si rivela un inetto, in condizioni disperate: rispetto a Giuliano che ha vinto tutte le battaglie anche durante la ritirata, Gioviano accetta la sconfitta senza aver mai incrociato le armi col nemico. Per avere dai Persiani le vettovaglie per la ritirata e la garanzia di non essere attaccato, rinuncia al controllo dell’Armenia, che riconosce come «foederata» (cioè alleata) dell’Impero e cede alla Persia cinque province e 15 piazzeforti della Mesopotamia, tra cui Nisibi e Lingara, punti chiave per il controllo dell’Impero stesso – in pratica, perde tutte le conquiste orientali fatte dal tempo di Traiano fino a Diocleziano.

Graziano muore avvelenato il 10 febbraio 364 e l’Impero viene diviso tra Valentiniano, che ha l’Occidente, e il fratello Valente, che ha l’Oriente. Entrambi sono Cristiani: cattolico il primo, ariano il secondo. Vengono colpiti i pagani, restaurata la libertà d’insegnamento abolendo la legge scolastica di Giuliano, controllato il clero. È tempo: il 28 febbraio del 380, meno di 20 anni dopo la scomparsa di Giuliano, Teodosio pubblica a Tessalonica – in nome degli Imperatori allora regnanti, Graziano e Valentiniano II – il decreto che rende legge imperiale la fede della Chiesa Cattolica; il 10 gennaio dell’anno successivo, quella stessa fede è dichiarata «religione dell’Impero»!

Per chi volesse approfondire la conoscenza di Giuliano, singolare e affascinante personaggio, uno studio recente è: Ignazio Tantillo, L’Imperatore Giuliano, Laterza, Bari 2001. Altre opere capitali sono: J. Bidez, Vie de l’Empereur Julien (seconda edizione, 1965); R. Browning, The Emperor Julian (1975); G. W. Bowersock, Julian the Apostate (1978); Bowder, Age of Constantine and Julian (1978); Furio Sampoli, Costantino il Grande e la sua dinastia (Newton & Compton Editori, 1955; recentemente ripubblicata come supplemento de «Il Giornale»), pagine 180-314. Gli scritti di Giuliano sono raccolti in: Giuliano Imperatore, Alla Madre degli dèi e altri discorsi, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 1987.

(luglio 2020)

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