Gli scritti di San Luca: uno sguardo introduttivo
Vangelo e Atti degli Apostoli


L’opera di uno storico e di un teologo

Il Vangelo attribuito a San Luca è il Vangelo canonico più lungo, e quello scritto nel greco migliore: il suo Autore è infatti un uomo colto (San Paolo lo chiama «caro medico») ed è anche, tra tutti gli scrittori del Nuovo Testamento, quello che dimostra più degli altri una particolare sensibilità storiografica, cioè una esplicita e singolare attenzione ai parametri attorno ai quali si costruisce un’opera storica.

Leggiamo il prologo del Vangelo:

«Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della Parola, così ho deciso anch’io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teòfilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto» (Vangelo secondo Luca 1, 1-4).

È un passo estremamente solenne. Si nota, già in queste righe iniziali, la cura dello storico:

1) gli avvenimenti compiuti sono attestati in una narrazione; inoltre, il bisogno di completare il racconto evangelico (i detti e i fatti della vita di Gesù di Nazaret) con quello degli Atti degli Apostoli (i detti e i fatti della vita di alcuni Apostoli, in particolare Pietro e Paolo) richiama la volontà di completezza;

2) il metodo di Luca si fonda su ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, in vista di una successione ordinata degli eventi: l’Evangelista sottolinea così l’affidabilità del suo scritto. Oltre a coloro che furono testimoni oculari e auricolari della vita di Gesù, e che poi sono diventati almeno in parte «ministri della Parola», Luca si rifà anche a chi ha cercato prima di lui di raccontare gli stessi fatti (si pensi a Marco, considerato una delle sue fonti). Luca è consapevole della distanza che lo separa dai fatti narrati, ma anche della possibilità di ricostruire la sostanza e la trama della storia vera di Gesù di Nazaret, nato e vissuto, morto e risorto in un preciso momento storico, e di quella degli Apostoli, continuatori della sua opera;

3) la dedica a Teòfilo: è un personaggio di cui non abbiamo altre menzioni, probabilmente un uomo economicamente agiato e di ceto elevato (l’appellativo «illustre» era usato per rivolgersi a persone con cariche importanti, come i procuratori romani, o di alto rango sociale). Potrebbe essere un Cristiano divenuto tale da poco tempo, oppure un pagano che ha manifestato una «simpatia» per il Cristianesimo e a cui Luca dedica il Vangelo per assicurarlo della solidità delle informazioni (o insegnamenti, il termine greco copre entrambi i significati) che ha ricevuto; alcuni pensano che Teòfilo sia stato il mecenate che fornì a Luca i mezzi per scrivere e diffondere la sua opera. Ma i commentatori precisano che ogni lettore è chiamato a diventare Teòfilo, nome che significa «amico di Dio»; in questo senso Teòfilo è un personaggio reale e allo stesso tempo anche «virtuale», riguardando chiunque legga il testo lucano;

4) la solidità: credibilità e fondatezza. Luca ha vagliato e ordinato in un resoconto ordinato le memorie storiche di Gesù tramandate dalla tradizione, da lui raccolte con ricerche accurate; si tratta di un metodo storiografico di altissimo valore. È interessante anche notare quanto scrive all’inizio del terzo capitolo: «Nell’anno decimoquinto dell’Impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto» (Vangelo secondo Luca 3, 1-2). In questo modo Luca obbedisce a un canone storiografico e a un uso profano degli scrittori greci, intendendo offrire al lettore un quadro storico e politico della Palestina di quei tempi.

Ma Luca non è solo uno storico, e non guarda alla storia in modo puramente cronistico o documentaristico: il suo sguardo è quello di un teologo e la storia raccontata è storia di salvezza. Dio, che nell’Antico Testamento ha offerto la salvezza al popolo di Israele, continua a realizzarla nel Nuovo Testamento attraverso l’opera di Cristo e della Chiesa animata dallo Spirito Santo. Così, la storia della salvezza, il mistero dell’incontro di Dio con l’uomo si inserisce in un dato momento della storia universale, in una concretezza spazio-temporale: «La Legge e i Profeti fino a Giovanni; da allora in poi viene annunziato il Regno di Dio e ognuno si sforza per entrarvi» (Vangelo secondo Luca 16, 16). Due epoche vengono citate: quella dell’Antico Testamento (promessa e profezia) e quella del Nuovo Testamento (compimento): e il compimento della salvezza ha anch’esso luogo in due momenti, il tempo di Gesù e il tempo della Chiesa; è lo Spirito che, effuso con abbondanza su Gesù (Vangelo secondo Luca 1-2), discende poi sulla primitiva comunità apostolica (Atti degli Apostoli 1-2) per «saldare» i due momenti e offrire nell’«oggi» la partecipazione alla salvezza in attesa della venuta del Figlio dell’uomo alla fine dei tempi.

Troviamo qui un procedimento tipicamente lucano, il parallelismo: nell’«oggi» Gesù va dal peccatore Zaccheo – figura di ognuno di noi – e la salvezza entra nella sua casa, l’«oggi» diventa l’esperienza viva che ognuno di noi può compiere. Per Luca la storia può essere paragonata a una linea retta continua ascendente, che conosce un inizio, un centro (la pienezza dei tempi di cui parla Paolo) e un punto finale, che dà il senso della provvisorietà, ma anche della provvidenzialità del periodo storico che stiamo vivendo: Luca concentra la sua attenzione sul presente, sull’«oggi».


Luca come «cantore» della misericordia di Cristo

Tutti i Vangeli sono dei veri e propri «ritratti» di Gesù. Riguardo a quello di Luca, possiamo raccogliere cinque tratti caratteristici, anche se non esclusivi:

1) Gesù è la manifestazione della misericordia sovrabbondante di Dio («Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”», Vangelo secondo Luca 15, 1-2. Vedremo più avanti anche la parabola del padre misericordioso);

2) Gesù è colui che riserva un posto privilegiato per i «poveri» di tutti i tipi (nel Vangelo secondo Luca 4, 16-30 viene descritto l’inizio della sua opera): abbiamo i poveri di beni («Alzati gli occhi verso i suoi discepoli, Gesù diceva: / “Beati voi poveri, / perché vostro è il Regno di Dio”», Vangelo secondo Luca 6, 20); i poveri secondo la «razza», i Samaritani (vedi la parabola del buon Samaritano – Vangelo Secondo Luca 10, 29-37 –, dove troviamo il modello della vera misericordia, o l’episodio del lebbroso samaritano che torna indietro a render grazie per la guarigione, presentato come esempio di una giusta relazione con Dio – Vangelo secondo Luca 17, 11-19 –); i poveri secondo la cultura, le donne (il Vangelo secondo Luca 1-2 presenta la figura di Maria; altri passi importanti sono il Vangelo secondo Luca 8, 1-3 dove cita alcune donne che seguivano Gesù e il Vangelo secondo Luca 10, 38-42: «Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: “Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Ma Gesù le rispose: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta”»);

3) Gesù è colui che appartiene all’umanità e universalità (Vangelo secondo Luca 3, 23-38: la genealogia risale fino ad Adamo) ed è destinato a tutti («Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!», Vangelo secondo Luca 3, 6; «Ma egli rispose: “Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!” Poi aggiunse: “Nessun profeta è bene accetto in patria. Vi dico anche: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il Paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro”», Vangelo secondo Luca 4, 23-37);

4) Gesù è la forza del perdono (Vangelo secondo Luca 7, 36-50: l’episodio della donna a cui sono perdonati i molti peccati perché ha molto amato Gesù; Vangelo secondo Luca 23, 34, dove Gesù chiede a Dio di perdonare coloro che lo stanno crocifiggendo);

5) Gesù è un Messia decisamente orientato verso la meta: il viaggio verso Gerusalemme – la cosiddetta «grande inserzione», con episodi che non hanno un parallelo negli altri Vangeli sinottici – occupa la spina dorsale del Vangelo di Luca (va da 9, 51 a 19, 27): per Luca, Gesù è davvero la Via, colui che traccia la Via.


Il ritratto del Cristiano sullo sfondo della comunità di Luca

Anche su questo aspetto si possono esaminare cinque tratti caratteristici:

1) l’importanza del presente in attesa della fine (vedi per esempio il Vangelo secondo Luca 19, 11): la fine del mondo è ritenuta imminente, ma il Signore tarda a venire e Luca spiega come vivere il presente senza guardare troppo al futuro;

2) il valore della quotidianità, del «giorno dopo giorno» (Vangelo secondo Luca 3, 10-14: «Le folle lo interrogavano [si parla di Giovanni il Battista]: “Che cosa dobbiamo fare?” Rispondeva: “Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto”. Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare, e gli chiesero: “Maestro, che dobbiamo fare?” Ed egli disse loro: “Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato”. Lo interrogavano anche alcuni soldati: “E noi che dobbiamo fare?” Rispose: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe”»; Vangelo secondo Luca 9, 23: «Poi, a tutti, [Gesù] diceva: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua”»);

3) alcuni problemi specifici sono la ricchezza e la preghiera. Sul primo argomento si veda per esempio il Vangelo secondo Luca 12, 13-34 o il capitolo 16: la cupidigia è il desiderio di possedere sempre di più; lo stolto è quello che sbaglia per tutta la vita, perché arricchire davanti a Dio vuol dire impostare l’uso dei beni in modo che li si possa condividere con chi non ne ha (Vangelo secondo Luca 12, 33: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma»);

4) la rilevanza dell’organizzazione della comunità e il ruolo degli Apostoli (vedi il Vangelo secondo Luca 6, 13 e gli Atti degli Apostoli 1, 21-26, dove si narra rispettivamente la scelta dei Dodici fatta da Gesù e la scelta di Mattia fatta dopo la Risurrezione);

5) la nota di sottofondo è la gioia: Luca è l’«Evangelista della gioia», e la gioia del Vangelo è la nascita e il mistero pasquale di Gesù (vedi per esempio il Vangelo secondo Luca 1, 41.44; 2, 10; 19, 6; 24, 41.52).


La parabola del padre misericordioso (Vangelo secondo Luca 15, 11-32): alla ricerca del volto di Dio

La parabola del padre misericordioso (conosciuta anche come parabola del figliol prodigo) è la più famosa parabola della Bibbia: essa è la manifestazione del volto di Dio, ci mostra come il Padre ci vede – è la prassi di Gesù che rende visibile l’amore del Padre. Anzi, si è detto che se di tutta la Bibbia ci rimanesse solo questa parabola, e gli strumenti per comprenderla, noi sapremmo tutto quello che c’è da sapere su Dio.

Cominciamo col leggerla integralmente, per poi soffermarci su alcuni punti:

«Disse ancora [Gesù]: “Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze.

Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso suo padre.

Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.

Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva entrare.

Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Dopo la partenza del racconto (versetti 11-12, dove compaiono già tutti i personaggi e inizia l’azione), possiamo dividere la parabola in quattro scene.

La prima scena (versetti 13-20a) riguarda l’avventura del figlio minore. Questi, che non ha neanche il riguardo di aspettare la morte del padre per avere l’eredità, si mette a condurre una vita «disordinata», «da folle» («asotos», cioè «senza salvezza»): è il baratro nel quale si precipita. Poi viene messo a pascolare i porci, animale immondo per gli Ebrei: è il fondo della degradazione. Vorrebbe mangiare le carrube, frutti dal sapore dolciastro usate soprattutto come foraggio per il bestiame ma mangiate dalle persone in tempi di carestia; neppure questo gli è permesso. Rinsavisce, ma la conversione è ambigua: si tratta di attaccamento al padre o di semplice interesse personale? Il testo è efficacemente reticente.

La seconda scena (versetti 20b-24) è stata definita «il Vangelo nel Vangelo». Lo svolgimento della scena mostra l’iniziativa del padre (20b), le parole del figlio troncate (21) e l’accoglienza (22-24). Il padre «lo vide quando era ancora lontano» perché non ha mai smesso di guardarlo (ossia di aspettarlo), «ebbe un fremito di compassione», «gli corse incontro» (gesto ritenuto «non confacente» a un adulto), «gli si gettò al collo» (impedendo al figlio di curvarsi e di umiliarsi), «lo baciò» (qui sta l’affetto manifestato). I versetti 22-24 contengono sette azioni che esprimono la pienezza e che sono segnate da un carattere di abbondanza e di eccesso: a essere prodigo, cioè generoso in sommo grado, è il padre! Da notare: la veste («di prima» o «la prima»); l’anello con il sigillo di famiglia, simbolo della dignità del figlio e della sua autorità ristabilita sulle proprietà domestiche e sui servi; i calzari, la tenuta dell’uomo libero in contrapposizione a quella degli schiavi; il vitello, animale di lusso, allevato a fatica; il far festa, che rimanda al banchetto dei ricchi. Questo è esattamente l’atteggiamento di Dio nei confronti dell’uomo peccatore: il padre della parabola è immagine di Dio! Il cuore della storia non è il perdono, ma la relazione ritrovata tra padre e figlio («questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»: in queste parole Gesù sembra annunciare anche la Risurrezione, la sua e quella che attende ogni uomo). Emblematica è la tela dipinta da Rembrandt: essa mostra tutto l’amore e la tenerezza del padre che ha una mano maschile e una femminile, a mostrare la totalità dell’affetto riversato sul figlio.

Il ritorno del figliol prodigo

Rembrandt Harmenszoon Van Rijn, Il ritorno del figliol prodigo, circa 1666, Museo dell'Ermitage, San Pietroburgo (Russia)

La parabola non termina con la festa: la terza scena (versetti 25-28a) presenta la figura del figlio maggiore. Questi si trova «nel campo», quindi è il responsabile, l’emblema del dovere compiuto alla perfezione ma anche la legalità rigida di una religiosità che non conosce la misericordia e le superiori esigenze dell’amore. Interrogato un servo sul perché della musica e delle danze, questi gli risponde che il padre ha riavuto il figlio minore «sano e salvo»: lo sguardo del servo è vero ma parziale, non considera la ripresa della relazione tra padre e figlio che è ciò che più conta. La reazione del figlio maggiore («si arrabbiò») è indice di un radicato risentimento.

La quarta scena (versetti 28b-32) mette in scena il padre e il figlio maggiore. L’iniziativa è quella del padre (28b), vero protagonista della parabola: di fronte al figlio che non entra, esce a pregarlo. La posizione del figlio maggiore (29-30) lo vede distante dal padre ma anche distante dal fratello (che non chiama così ma «questo tuo figlio»): le sue sono le parole tipiche di chi si sente a posto e non accetta un amore così largo, e riflettono il comportamento dei farisei che mormoravano contro Gesù e la sua generosità con i peccatori. Ma il padre vuole che questo figlio riscopra, anch’egli, la propria identità e si apra alla fraternità.


I discepoli di Emmaus (Vangelo secondo Luca 24, 13-35): come è possibile incontrare il Risorto

Leggiamo una delle pagine più belle e più famose mai scritte. L’episodio si colloca dopo la Risurrezione di Gesù: «Ed ecco, in quello stesso giorno [domenica] due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, e conversavano di tutto quello che era accaduto. Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. Ed egli disse loro: “Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?” Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: “Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?” Domandò: “Che cosa?” Gli risposero: “Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l’hanno visto”.

Ed egli disse loro: “Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino”. Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l’un l’altro: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone”. Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane».

Possiamo dividere questo testo in quattro momenti.

Il primo momento è l’incontro dei due discepoli con il Risorto (versetti 13-16): di uno dei due si dà il nome, Clèopa (abbreviazione di Cleopatro), mentre l’altro è un anonimo ed è figura di ogni lettore, chiamato a fare la stessa esperienza. Sono in cammino verso Emmaus, villaggio distante poco più di 10 chilometri da Gerusalemme e di difficile localizzazione (potrebbe essere Abu Gosh, El-Qubeibe o Qalunya, luogo quest’ultimo a cui parrebbe alludere Giuseppe Flavio chiamandolo Ammaus): quello verso Emmaus è il viaggio della delusione perché si abbandona Gerusalemme, ossia la salvezza; è un allontanamento dalla fede e insieme una fuga nel senso letterale del termine. Nel cammino «conversavano e questionavano», parlano di ciò che sta a cuore: Cristo resta il pensiero dominante, ma è causa di divisione tra i due, che si ributtano addosso l’uno all’altro il proprio malumore; sono stanchi, sfiduciati, impauriti. Gesù continuamente si mette al loro fianco; essi lo vedono «materialmente» ma non lo riconoscono, perché restano accecati gli occhi della fede.

Il secondo momento presenta la conversazione con il Risorto lungo il cammino (versetti 17-27). È Gesù a prendere l’iniziativa («Che cosa sono questi discorsi...») e sollecita i discepoli a far emergere la loro delusione. Questi sono uomini «statici» (non solo esteriormente) e il racconto dei fatti che espongono è una sintesi di tutto il Vangelo narrato fin qui tranne... la fede nella Risurrezione: senza questa fede, si può conoscere ogni cosa di Cristo ma la vita resta sotto la schiavitù della solitudine e dello sconforto («noi speravamo che fosse lui...», «lui non l’hanno visto»). I versetti 25-27 presentano la replica di Gesù. Innanzitutto, c’è un rimprovero: «sciocchi [senza testa] e tardi di cuore»; il loro nome è questo; la testa e il cuore sono impermeabili alla novità di Dio in Cristo, chiusi nei propri schemi e nelle proprie paure: è il peccato d’«incredulità», che fu del popolo di Israele e ora si applica anche ai discepoli. C’è poi la catechesi del Risorto: la sua morte non è una fatalità o solo una «brutta fine»; al contrario, rientra in un preciso disegno («bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze...»): è attraverso il dono totale di sé che Cristo giunge alla gloria, alla destra del Padre; la Pasqua illumina la croce: non è la sconfitta, ma la vittoria e la gloria del Figlio. Poi Gesù passa alla spiegazione di tutte le Scritture: non una parte o l’altra, ma tutte, nel loro insieme; è la lettura della storia dell’Alleanza narrata nelle Scritture che porta all’incontro con Cristo, e non si va al mistero di Cristo se non attraverso questa via (Ugo di San Vittore afferma giustamente che «tutta la Divina Scrittura costituisce un unico libro e quest’unico libro è Cristo, perché tutta la Scrittura parla di Cristo e trova in Cristo la sua pienezza»).

Il terzo momento riguarda la consumazione del pasto serale (versetti 28-32): gli occhi dei discepoli si aprono di fronte al gesto che richiama l’Ultima Cena, profezia della croce, alle parole che sono le stesse pronunciate da Gesù quando donò il suo corpo e il suo sangue per la salvezza dell’umanità. Per riconoscere il Risorto non basta l’esperienza fisica o la ragione: è necessario un altro canale di conoscenza, quello della fede, essenziale ai primi testimoni che hanno conosciuto Gesù in vita e a noi che non lo abbiamo potuto fare in misura eguale. Il discepolo si accorge della presenza del suo Signore quando si fa «visibile» la sua logica di donazione e condivisione. L’Eucarestia – questo è il significato dell’espressione «spezzare il pane» – è il vero e unico modo che abbiamo oggi per incontrare Gesù. L’abbondante «mensa della Parola» che precede il gesto (cioè il discorso lungo il cammino) è servita a farlo desiderare e comprendere in pienezza.

Il quarto momento è il ritorno a Gerusalemme (versetti 33-35): il verbo «ritornarono» può essere tradotto letteralmente con «si voltarono dietro di sé», che è il verbo della conversione. L’incontro con Cristo che si manifesta vivo e presente opera la «risurrezione» e la conversione del cuore dei discepoli; l’esperienza dell’incontro da parte dei due porta poi alla comunione con gli Undici, i quali fanno risuonare il grido di Pasqua. «Essi poi riferirono... e come l’avevano riconosciuto»: l’incontro/eucarestia si apre all’annuncio; l’esprerienza vissuta non tollera di essere circoscritta tra le mura di una casa, ma si apre da Gerusalemme agli estremi confini della terra. Questo sarà, esattamente, il tema del libro degli Atti degli Apostoli.

Quello dei discepoli di Emmaus, in definitiva, non è – come potrebbe sembrare a prima vista – un racconto di apparizione, ma una pagina che fornisce i criteri per riconoscere il Risorto: Gesù si incontra nella parola, nel gesto e nella comunità.


Apriamo il libro degli Atti degli Apostoli

Nonostante si sia portati a considerare il Vangelo secondo Luca e gli Atti degli Apostoli come due opere ben distinte, nell’intenzione del loro Autore si trattava di un progetto unitario, di un’unica opera: ne sono prove la dedica a Teòfilo all’inizio di entrambi i testi, l’ascensione di Gesù al Cielo (che chiude il Vangelo e apre gli Atti), il tema della salvezza (che apre il Vangelo e chiude gli Atti), il fatto che, come agisce Gesù nel Vangelo, così agiscono alcuni suoi testimoni negli Atti (miracoli, morte di Stefano – «E così lapidavano Stefano mentre pregava e diceva: “Signore Gesù, accogli il mio spirito”. Poi piegò le ginocchia e gridò forte: “Signore, non imputar loro questo peccato”. Detto questo, morì» – Atti degli Apostoli 7, 59-60...).

I versetti 6-8 del primo capitolo sono tutto un programma: «Così venutisi a trovare insieme gli domandarono [a Gesù risorto]: “Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il Regno di Israele?” Ma egli rispose: “Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra”». Possiamo fissare la nostra attenzione su alcuni punti.

«Non sta a voi conoscere i tempi e i momenti»: gli Atti degli Apostoli sono la storia della primitiva comunità cristiana. I primi Cristiani sono chiamati a investire nel presente: i segni di Dio non sono da aspettare al di là della Storia ma dentro la Storia, vista da Luca come lo spazio dove «l’umano e il divino si incontrano»; per questo l’Autore ci consegna un’opera a suo modo storica, cioè un’opera che racconta i fatti secondo le concezioni che della storia si avevano all’epoca. Il mondo, dove il vangelo (inteso come «buona notizia» e non come libro) si diffonde, è presentato nella sua concretezza e nelle sue strutture socio-politiche come il campo d’azione di Dio e viene descritto con interesse e simpatia. Il primo sommario del libro degli Atti è anche la prima fotografia della comunità cristiana: i Cristiani «erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli Apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli Apostoli. Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il Tempio [di Gerusalemme] e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati» (Atti degli Apostoli 2, 42-48). Quattro sono i punti cardine della comunità: l’ascolto dell’insegnamento degli Apostoli, testimoni diretti di Gesù; l’unione fraterna, segno di una condivisione efficace delle proprietà personali; la frazione del pane (l’Eucarestia), un dramma perché ha dentro di sé un sacrificio; la preghiera (il libro degli Atti è pieno di preghiere; vedi Atti degli Apostoli 1, 23-25, così pregavano i primi Cristiani). Luca mette in risalto la libertà e la franchezza dell’annuncio cristiano, ricorda la gioia e la fratellanza di chi si converte: è questa testimonianza forte e gioiosa ad attirare molti alla nuova religione.

«Avrete forza dallo Spirito che scenderà su di voi»: gli Atti degli Apostoli sono il libro dello Spirito (lo Spirito Santo). Dopo l’ascensione di Gesù al cielo, Dio comunica il soffio del suo Spirito. Lo vediamo all’opera a Pentecoste (Atti degli Apostoli 2, 1-11): si tratta dell’atto fondatore di questa nuova opera della salvezza; la Chiesa nasce universale e nasce per parlare di Dio. Lo Spirito è all’origine delle grandi svolte della storia degli Atti (per esempio, la diffusione della Parola in Samaria, tra i pagani e fuori della Palestina – capitoli 8, 10, 13 –), ma anima e guida anche le singole tappe (come il concilio di Gerusalemme, capitolo 15). Occorre ricordare che questo Spirito manifesta un Dio che ama tutti, un «Dio universale», un Dio che abbatte ogni discriminazione e ogni frontiera.

«Mi sarete testimoni»: gli Atti degli Apostoli sono il libro dei testimoni. Lo Spirito abilita dei credenti a comunicare le grandi opere di Dio e a farsi comprendere da ciascuno (vedi per esempio: Atti degli Apostoli 2, 14-36). L’agire di Dio non è magico né incontrollato, ma passa attraverso mediazioni umane, si impadronisce di individui che diventano testimoni di tutta la vita di Cristo. La testimonianza («sarete miei testimoni», ha detto Gesù) non è solo o prima di tutto una «testimonianza morale» (cioè una condotta morale coerente), ma l’annuncio di un fatto, la comunicazione di un’esperienza: per questo il libro degli Atti è attento a riportare lunghi discorsi nei quali si dà testimonianza della Risurrezione di Gesù. Due sono i grandi testimoni, Pietro e Paolo: l’opera di Luca è, in senso proprio, la storia di questi due Apostoli più che degli Apostoli (intesi come gruppo); insieme, ci vengono presentati un gran numero di quelli che, dal punto di vista del ritratto narrativo, sono detti «personaggi minori»: per esempio Stefano, Filippo, Anania, Tabità, Cornelio, Lidia, Aquila e Priscilla...

«A Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra»: gli Atti degli Apostoli sono la corsa della Parola in tutto il mondo. L’opera si divide in due grandi parti: i capitoli 1-12 si mantengono nell’orizzonte di Gerusalemme e Samaria (la Parola di Dio cresce); i capitoli 13-28 si spingono fino al viaggio di Paolo a Roma (la Parola di Dio si diffonde). È una storia fatta di opposizioni: l’avanzata della Parola non ha nulla di trionfalistico, il successo è magro e molto spesso la fuga è l’unica via di uscita (si vedano, ad esempio, i capitoli 13 e 14). Luca vuol trasmettere ai suoi lettori l’idea che Dio conduce i propri discepoli malgrado l’ostilità e il rifiuto che vengono loro opposti, perché quanto si annuncia è Parola di Dio e da qualche parte attecchisce; di più: Dio si serve di questa opposizione per far avanzare la sua Parola (emblematico è ciò che succede dopo la morte di Stefano – leggi Atti degli Apostoli 8, 1-4 –, quando la persecuzione obbliga i credenti ad andare in Giudea e Samaria, diffondendo ancora di più la Parola).

In Atti degli Apostoli 1, 8 si parla di una diffusione del messaggio cristiano «fino ai confini della terra» e il libro si conclude con la venuta di Paolo a Roma. Qualche commentatore annota che Roma rappresentava, in quel tempo, il centro del mondo: arrivare a Roma, cuore dell’Impero, significava garantirsi una diffusione del messaggio nella totalità del mondo allora conosciuto. Ma Luca è troppo ben informato di geografia per ignorare che, di fatto, Roma non è ancora l’estremità della terra (a Occidente, per esempio, questa sarebbe la Spagna). Luca o è incoerente con il suo programma narrativo (ma, essendo un abile narratore, parrebbe un’ipotesi da scartare), o vuole suggerire altro: in effetti, gli Atti degli Apostoli terminano con una sospensione, un programma aperto al suo completamento. Il finale è un’apertura: Luca non vuole scrivere una storia chiusa in se stessa, fosse anche chiusa sulla morte di Paolo (che non viene descritta: le ultime frasi mostrano un Paolo che, pur tenuto sotto sorveglianza, può parlare liberamente e senza impedimenti – la Parola continua a circolare). La missione continua, dall’antichità fino ai nostri giorni, ognuno deve occupare il proprio posto nella catena dei testimoni.


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(dicembre 2021)

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