L’Ultima Cena
Una lettura in chiave storiografica

Uno degli eventi centrali della vita di Gesù è l’istituzione dell’Eucarestia, il sacrificio offerto per la Nuova Alleanza tra Dio e gli uomini; anzi, si può dire che l’Eucarestia è «la sintesi del Cristianesimo» (Johannes Betz, la voce «Eucarestia» in Mysterium Salutis, Queriniana, Brescia 1970, pagina 384, opera alla quale rimando per chi volesse approfondire l’argomento. Sotto il profilo storico, le pagine più interessanti vanno dalla 230 alla 258). L’istituzione dell’Eucarestia avvenne, storicamente, durante l’Ultima Cena, ovvero l’ultimo pasto che Gesù consumò con gli Apostoli, prima del suo arresto, il processo e la morte, il 6 aprile dell’anno 30 secondo la cronologia giovannea. Da allora, il banchetto del Signore è stato posto al centro della vita cristiana come oggetto della pratica liturgica e dell’esperienza di fede: la liturgia e la teologia della Chiesa non sono altro che lo sviluppo delle fondamentali asserzioni neotestamentarie.

Possediamo quattro racconti di quest’istituzione.

Prima Lettera ai Corinzi, 11, 23-26: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il Mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di Me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la Nuova Alleanza nel Mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di Me”. Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché Egli venga». L’autore della lettera è Paolo di Tarso.

Abbiamo poi tre brevi racconti evangelici.

Vangelo secondo Marco, 14, 22-25: «E, mentre mangiavano, [Gesù] prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro [agli Apostoli], dicendo: “Prendete, questo è il Mio corpo”. Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: “Questo è il Mio sangue dell’Alleanza, che è versato per molti. In verità Io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel Regno di Dio”».

Vangelo secondo Matteo, 26, 26-29: «Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai discepoli, disse: “Prendete, mangiate: questo è il Mio corpo”. Poi prese il calice, rese grazie e lo diede loro, dicendo: “Bevetene tutti, perché questo è il Mio sangue dell’Alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati. Io vi dico che d’ora in poi non berrò di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi, nel Regno del Padre Mio”».

Vangelo secondo Luca, 22, 14-20: «Quando venne l’ora, prese posto a tavola e gli Apostoli con Lui, e disse loro: “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della Mia Passione, perché Io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel Regno di Dio”. E, ricevuto un calice, rese grazie e disse: “Prendetelo e fatelo passare tra voi, perché Io vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il Regno di Dio”. Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il Mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di Me”. E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: “Questo calice è la Nuova Alleanza nel Mio sangue, che è versato per voi”».

Il Vangelo secondo Giovanni non c’è fra i racconti elencati, perché non contiene l’istituzione dell’Eucarestia, anche se quando racconta la moltiplicazione dei pani (capitolo 6) utilizza le parole che gli altri Vangeli utilizzano nell’Ultima Cena.

Il racconto dell’Ultima Cena fatto da Paolo è molto antico, risale con tutta probabilità agli inizi degli anni Quaranta del I secolo, quindi ad una condizione della comunità molto vicina all’episodio dell’evento di Gesù. I Vangeli sinottici sono più tardi, Marco scrive tra il 60 e il 70, Luca (che dipende da Paolo) e Matteo scrivono probabilmente tra il 70 e il 90: anche loro, però, non fanno altro che accogliere un patrimonio già fissato.

Diamo ora uno sguardo ai racconti: già a prima vista si nota che – nonostante le differenze, dovute al fatto di appartenere a diverse correnti di tradizione, alla cui base sta comunque un’unica tradizione primitiva – tutti e quattro si riferiscono ad un unico e medesimo avvenimento, l’Ultima Cena di Gesù prima della Sua Passione, e devono essere considerati una tradizione liturgica della comunità, il modo in cui la prima Chiesa celebrava – non è soltanto l’ultimo gesto di Gesù quello raccontato, ma è anche il gesto della Chiesa. I racconti sull’Ultima Cena ci descrivono l’ultima cena di Gesù in maniera non storiografica perché è tradizione liturgica, è già confessione di fede: elencano tutti i particolari degni di essere conosciuti, ma operano una semplificazione in nome della celebrazione liturgica della comunità, che è la loro finalità – perché ci sia la fede, occorre celebrare in questo modo, o anche: se si vuole credere, si deve credere in questo modo!

L’Ultima Cena viene annunciata dai Vangeli sinottici (Vangelo secondo Marco, 14, 16; Vangelo secondo Matteo, 26, 19; Vangelo secondo Luca, 22, 13.15) come celebrazione della Pasqua. Questo pone un problema in quanto, secondo la datazione del Vangelo secondo Giovanni – comunemente accettata dalla Chiesa – la celebrazione pasquale avrebbe dovuto aver luogo la sera successiva. Annie Jaubert, fin dal 1953 ha ipotizzato che Gesù abbia seguito un antico calendario sacerdotale in uso principalmente presso gli Esseni, il Calendario dei Giubilei, che rispetto al calendario del Tempio anticipava di un giorno la data della Pasqua: il Cenacolo, del resto, si trovava nel quartiere esseno di Gerusalemme. Oppure, più semplicemente, come vuole John P. Meier, Gesù era consapevole della Sua morte imminente e sapeva che non avrebbe più potuto mangiare la Pasqua: «in questa chiara consapevolezza invitò i Suoi ad un’ultima cena di carattere molto particolare, una cena che non apparteneva a nessun determinato rito giudaico, ma era il Suo congedo, in cui Egli dava qualcosa di nuovo, donava Se Stesso come il vero Agnello, istituendo così la “Sua” Pasqua» (Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Libreria Editrice Vaticana 2011, pagina 130).

Inoltre, sempre nei Vangeli sinottici, l’Ultima Cena, annunciata come celebrazione della Pasqua, nel suo svolgimento non viene descritta come tale in maniera più precisa: i racconti preferiscono limitarsi a sottolineare due riti conviviali tipicamente giudaici, cioè i gesti di Gesù sul pane e sul vino, la loro benedizione e la distribuzione ai discepoli. Gesù ripete due tipici gesti del banchetto giudaico, la frazione del pane e la distribuzione del calice, il rito di apertura e di conclusione di ogni banchetto solenne giudaico. Il concetto di frazione del pane comprende il prendere e l’elevare il pane dalla tavola, il pronunciare la benedizione, lo spezzare la focaccia di pane e l’offrirla ai commensali. Il senso principale del rito sta nell’impartizione della benedizione, connessa con il pane, che vuole essere una celebrazione rammemorante e riconoscente per le gesta salvifiche di Dio: si celebra che Dio salva, e si ha fiducia che Dio continuerà a salvare il credente, che non lo abbandonerà. Ecco i gesti che i racconti mettono volontariamente in luce: che sia una ripetizione o meno della Pasqua ebraica, questo passa in secondo piano perché protagonista non è la Pasqua ebraica, ma è Gesù – oltretutto i gesti sul pane e sul vino fatti da Gesù sono gesti molto straordinari, perché non sono del tutto simili a ciò che solitamente veniva fatto; per esempio, Gesù parla, mentre il capo famiglia ebraico stava in silenzio; distribuisce a tutti i discepoli la coppa del vino, mentre il capo famiglia la dava soltanto o al primogenito o alla persona più importante presente al banchetto (si capì subito che era qualcosa che non poteva essere confuso con la ritualità tipica del mondo ebraico); Gesù si arroga un ruolo del tutto sorprendente, la Sua non è la ripetizione di una cena, ma nel contesto di questa cena Egli è protagonista in maniera esclusiva. Per il racconto evangelico determinante è la libertà di Gesù, si vuole mostrare che la croce (che sarà il culmine di tutto questo) non è un’imposizione su Gesù, Lui non la subisce semplicemente, la vive: è Lui che dettaglia i passi da compiere perché si realizzi l’insieme che è la Sua Passione. Ecco perché è importante che nella cena Gesù operi, faccia, non si limiti a ripetere un gesto che tutti facevano: nel vivere questa ultima cena prima della croce, Egli stabilisce una partecipazione che è del tutto personale, del tutto Sua!

Gesù non si limita alle usuali formule giudaiche di benedizione, ma conferisce al pane offerto una relazione con il Suo corpo immolato nella morte e, al vino, una relazione con il Suo sangue versato, attualizzando così la Nuova Alleanza di Dio con gli uomini: la Sua promessa di salvezza è adesso per sempre, abbraccerà tutta la storia; infine, stabilisce un legame tra la Sua ultima cena e il futuro banchetto nel Regno di Dio, che significa l’unione perfetta tra Dio e l’uomo.

Dire che il pane e il vino sono il corpo e il sangue di Cristo non va letto in senso fisico: per il Cristianesimo Gesù è realmente presente in ogni frazione del pane, ma non è che il sacerdote moltiplichi il corpo di Gesù dando a ognuno dei fedeli una parte (il rapporto tra questo piccolo pane e il grande corpo di Gesù sarà un problema che nascerà solo col Medioevo e con la teoria fisico-organica della presenza). L’Eucarestia ha a che fare con Dio, che non è semplicemente la rappresentazione in comune di ciò che ogni credente crede o pensa di credere, ma è «presenza reale»: un conto è dire che l’Eucarestia è un momento di insieme dei credenti e un conto è dire che è un essere insieme perché un Dio, che non è confondibile con i credenti, li raccoglie. Il comando: «Fate questo in memoria di Me!» vuol dire che la verità la si conserva soltanto se è vissuta, non se è mantenuta come una verità astratta: è una verità che è tale perché dà vita. E la verità evangelica non può essere spiegata come la verità dei numeri primi: la nostra cultura è ancora profondamente ancorata al modello di verità della matematica e della tecnica, che valgono per tutti, ma c’è anche un altro concetto di universalità, che è possibile soltanto se so leggere la singolarità di ciascuno – questo è il messaggio cristiano.

Ricordiamo anche l’episodio di Emmaus nel Vangelo secondo Luca (capitolo 24): gli occhi dei discepoli si aprirono non quando Gesù spiegava loro le Scritture, ma allo «spezzare del pane», che è come dire che è quel gesto che li riporta alla croce, alla morte, e non all’idea di Messia che loro avevano in mente. È come se Gesù dicesse loro: «Volete capire che cosa è la rivelazione, come Io mi manifesto? Celebrate l’Eucarestia!». L’Eucarestia è il modo con il quale si può apprendere come Dio si rivela al mondo: l’Eucarestia riconduce tipicamente a che cosa è la rivelazione di Dio e non semplicemente l’apprendimento umano concettuale circa Dio, il Messia, la morte; non c’è altro modo di avvicinare la rivelazione di Dio se non quel modo che l’Eucarestia prescrive in modo universale, per sempre: «Fate questo in memoria di Me!».

L’Eucarestia conteneva inoltre la costituzione della Nuova Alleanza (Dio si unisce al popolo e lo salva in questo modo), la prospettiva del convito nel Regno di Dio e l’ordine della ripetizione.

Naturalmente non è possibile ricostruire per intero la figura linguistica della tradizione originaria: non è un’entità fissata letteralmente fin nell’ultima sillaba. Non vuol dire che Gesù ha prescritto la materia da usare, le parole da dire; ciò che Gesù ha fatto è conservato nell’atto della Chiesa; certo la Chiesa, per esempio, alle domande di usare il riso ha risposto che ci vuole il pane, cioè ripetere anche materialmente ciò che è avvenuto, occorre un’aderenza storica all’avvenimento di Gesù, non ogni bevanda, ma quella, non ogni cibo, ma quello; l’idea è che ciò che lì è in gioco è quell’evento materialmente ripetuto, è ciò che ci consente di aprire gli occhi; la Chiesa chiede che si sia il più possibile fedeli a quel gesto, per dire che è quello che ci apre gli occhi su come Dio si rivela. La forma lucano-paolina è la più vicina alla tradizione originaria (questo vale in genere sempre per Luca, anche perché è quello che sapeva meno di tutti e quindi doveva essere per forza molto cauto a cambiare perché venendo dalla formazione greca non conosceva niente delle parole, dello stile).

La tradizione originaria della cena rimane pur sempre radicata nell’ambito della Chiesa, non può cioè essere senz’altro identificata con la lettera delle espressioni usate da Gesù. E questo non è un danno per la storicità, ma ne è proprio la garanzia: è perché apre una comprensione dentro la vicenda umana, che è vera; la storicità non è la parola che c’è nel manoscritto, non è questo ciò che conta; i biblisti talvolta fanno del lessico la verità della parola; il problema teologico non è che la parola venga dall’aramaico medio o antico, ha poca importanza, ciò che conta è quel che l’affermazione intende affermare; un conto è la filologia e un altro è l’uso umano della filologia, come se confondessi l’idea dell’artista con il materiale che usa per la sua idea; una volta compreso il materiale, da dove viene, come è fatto, eccetera, che certo è necessario sapere ma non è ancora sufficiente per capire che cosa l’artista vuol dirmi, mi devo chiedere che cosa mi dice l’opera; quindi il fatto che non abbiamo a disposizione delle autentiche antichissime parole di Gesù non vuol dire che queste sono meno vere, anzi per alcuni versi si può dire che forse sono davvero vere, perché un conto è conservare questa parola come se fosse un vocabolario e un conto è conservare parole che mi fan dire queste parole; questo è importante per la spiegazione del Nuovo Testamento. La descrizione dei gesti origina dalla comunità; ma anche le parole di Gesù sono pervase della fede di essa e condizionate dalla sua liturgia, dove «condizionate» non vuol dire mortificate, ma vuol dire che sono diventate la liturgia della Chiesa, l’azione che la Chiesa pone e quindi, per questo, sono parole che hanno dato modo alla Chiesa di esprimersi così.

L’Ultima Cena di Gesù è un fenomeno «sui generis», ma comunque non è del tutto priva di rapporti con la Sua vita e con il Suo tempo. Non si tratta di un fatto improvviso, ma di un fatto pensato da lungo tempo (Vangelo secondo Luca, 22, 15), dell’esito significativo della prassi conviviale che Gesù ha esercitato nel corso della Sua vita: Gesù non cura soltanto la quotidiana comunione della tavola con i Suoi discepoli, ma banchetta con ogni sorta di persone, persino con i pubblicani e i peccatori (Vangelo secondo Marco, 2, 16). La comunione conviviale significa solidarietà, una relazione che Gesù instaura con i Suoi, così come sempre l’ha instaurata nel corso della Sua vita. In quanto messaggero di Dio, Egli documenta l’interesse di Dio per gli uomini: Dio non vuole che l’uomo si perda e fa di tutto perché questo non accada. L’Eucarestia sta dentro questa grande logica di un Dio che è per la vita. Il suo atteggiamento conviviale è già una realizzazione del convito messianico, è un gesto che testimonia che la sovranità regale di Dio incombe ed è già presente con la Sua azione, è insieme preludio e anticipazione del convito nuziale nel Regno di Dio (Vangelo secondo Matteo, 22, 1-14; 25, 1-13; 8, 11).

Il senso e il contenuto dell’Ultima Cena sono stati e vengono spesso e volentieri spiegati ricorrendo all’idea della Pasqua. Infatti secondo i Vangeli sinottici Gesù compie la sua ultima cena come convito pasquale (Vangelo secondo Marco, 14, 16 e seguenti; Vangelo secondo Luca, 22, 15). La Pasqua ebraica era la profondissima memoria che Israele faceva delle gesta salvifiche compiute da Dio in Egitto, il Suo inseguire continuamente con i miracoli il popolo, perché il popolo arrivi alla méta. Così, Gesù mangia con i Suoi perché li vuole accompagnare fino al banchetto nel Regno di Dio, non li vuole lasciare soli, non vuole che il deserto, la tentazione, il male, la solitudine, le perversioni ne distraggano la volontà. L’Eucarestia ha come collocazione l’interesse che Dio ha che l’uomo si salvi. Gesù riprende la memoria e l’attesa rivolte alle gesta salvifiche di Dio e dà loro compimento: come l’antica Pasqua giudaica, anche quella da Lui istituita non è soltanto un ricordo soggettivo, ma una oggettiva attualizzazione cultuale della realtà salvifica. E, in quanto nuova Pasqua, la cena di Gesù deve essere ripetuta, anche senza un ordine esplicito.

Infine, l’Ultima Cena di Gesù ha anche il carattere di addio: non si tratta semplicemente del pasto preso per l’ultima volta, ma di uno speciale atto testamentario. Di fronte alla morte, Gesù distribuisce una benedizione, nella quale, per così dire, raccoglie e sintetizza la Sua intera vita: Dio vi benedice, Dio è per il vostro bene, Dio opera, lavora, si preoccupa per il vostro bene.

(aprile 2014)

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