Schopenhauer, Wagner e Nietzsche: l’ambivalenza e il fascino di un incontro
Che cosa poteva unire tre persone così diverse? Quali erano i punti che avevano in comune, e quali quelli su cui dissentivano?

In una lettera del 1854 indirizzata all’amico Franz Liszt, Richard Wagner confidava la sua attrazione per Arthur Schopenhauer, vero e proprio «dono del cielo»: la negazione fondamentale della volontà alla vita, propugnata dal filosofo, era «di una verità spaventevole». La filosofia pessimistica di Schopenhauer, la sua aspirazione verso la morte era per lui una sorta di calmante. Ma era davvero lo stesso messaggio che il filosofo ed il musicista, ognuno con i mezzi a propria disposizione, presentavano?

Per Schopenhauer l’arte è a volte un conforto per la vita stessa, e non è ancora una via per uscire dalla vita: questa è invece l’ascesi, la lotta contro gli istinti e le pulsioni vitali – rinunce, digiuni, perfetta castità portano al raggiungimento dello scopo dell’andare a confluire del soggetto nel Nirvana (l’estinzione: visione mutuata dal Buddismo).

Quando Wagner parla di intima aspirazione verso la morte, usa in effetti frasi di Schopenhauer. Ma non intende la stessa cosa.

Possiamo chiarire le idee prendendo spunto dal Tristano e Isotta, dove la morte è vista come supremo riposo nella pace. Dal punto di vista strettamente musicale, l’opera segna l’esaurimento del sistema tonale, che inizia a darsi delle nuove regole: cominciano a non esserci più simmetrie e accordi, non un percorso logico, ma momenti di tensione dove l’ascoltatore non riesce più a cogliere il percorso, ad anticipare mentalmente i suoni che il suo orecchio si aspetterebbe di cogliere; non esiste più il ritmo, né la linea melodica. Non c’è una cadenza definita delle note, non c’è mai la possibilità di un riposo, fino alla morte di Isotta: il desiderio d’unione dei due protagonisti si riflette – in musica – nel desiderio di trovare un accordo. In particolare, l’«Inno alla Notte» (che è in realtà un inno alla morte) sembra evocare il Nirvana di Schopenhauer:

«TRISTANO:
Ah, noi eravamo ormai consacrati alla notte! […]
Della diurna vacillante luce
più ormai non ci abbagliano
i fuggitivi lampi.
Colui che nella notte della morte
aprì gli occhi nell’estasi d’amore
ed a cui ella ha confidato intero
il mistero profondo,
le menzogne del giorno,
il fasto della gloria e dell’onore,
la potenza terrena e la ricchezza
– per quanto sublimi esse rifulgano –
vedrà dissiparsi dinanzi a lui,
come il vano spolverio dorato
entro un raggio di sole;
e nella illusa vanità del giorno
in lui rimarrà solo un anelito:
il desiderio ardente di quella notte sacra
ove, sin dalla primigenia eternità
sorride a lui la voluttà d’amore!

TRISTANO E ISOTTA:
Oh, discendi quaggiù su questa terra,
desiata notte d’amore!
Del mio viver dolente
dammi beato oblio,
raccoglimi nel tuo grembo,
distaccami da questo oscuro mondo!».

Già Thomas Mann ha però messo in rilievo come il riferimento principale dell’inno non sia Schopenhauer, ma il Romanticismo Tedesco in generale: in Tristano è il più puro Romanticismo a parlare, con la sua urgenza di dare voce immediata all’individuo. Altro che desiderio di annullarsi: Tristano ed Isotta desiderano fondersi l’uno nell’altra, e se questo significa notte e morte, sia pure – significherà però anche, e finalmente, annientamento di ogni lotta e rimorso, significherà pace e unità nel diventare uno, dai due che si era. Vi sono importanti affinità, per esempio, col primo Inno alla Notte di Novalis:

«Come mattino che risorge, gioia di ogni cosa,
giubilante come in onde, raggiera che s’innalza,
è la luce […]
Ma io mi volto da un’altra parte,
oh ammantata nel silenzio,
oh santa, indecifrabile notte […]
Come grigio soffio
risale in me questo tramonto, come nebbia. […]
Anche tu ti riscuoti verso di noi, buia notte,
tu ricerchi un amore?
Sotto il tuo mantello un invisibile richiamo
mi prende adesso con forza:
che cos’è che come di unguento
sento sparsa la tua mano,
affondo nel tuo fascio di papaveri!
Le grevi ali dell’anima come in te sollevate
come un colpo di volo! […]
Un inno è parlare della notte,
che annuncia la santità di tutto,
regina del mondo, culla dell’amore beato,
lei ti ha mandata da me,
tenera amata, amato sole della notte.
E adesso sono sveglio perché sono tuo e mio
e tu mi hai annunciato la notte
e la notte l’ho intesa, è la vita,
e più umano nel cuore
un fuoco da dentro mi consumi.
Che il corpo consumato,
quasi alito, aria trascorra
in te intimo, uguale,
una notte di nozze per sempre».

Novalis vede la notte in contrapposizione alla luce della ragione: è solo nell’inconscio che il poeta coglie la verità; analoghe tematiche si trovano nel Tristano e Isotta. Qui la notte richiama esplicitamente la morte, ma la morte non dissolve tutto: rimane l’amore, la fusione di anima e corpo, un sentimento sublimato e reso eterno proprio dalla morte.

Per Schopenhauer ogni innamoramento è radicato esclusivamente nell’istinto sessuale, indotto negli amanti dalla volontà di vivere della specie umana, quella volontà che con la procreazione perpetua se stessa. Al contrario, nel Tristano e Isotta la morte porta all’eterno congiungimento, all’unione di Isotta con Tristano: «Tu sei in me, e io sono in te…». L’ispirazione di Wagner è profondamente diversa da quella di Schopenhauer: mentre il filosofo parla delle morte come di un «perdersi immemore nell’abisso del nulla», per il compositore (sempre nel Tristano e Isotta) la morte è la liberazione dai vincoli terreni che impediscono l’amore, e consente l’unione cosmica di anime e corpi: la morte sancisce l’immortalità dell’amore!

Friedrich Nietzsche, in uno scritto del 22 maggio 1869, accomuna Wagner e Schopenhauer come le sue due fonti di ispirazione (in particolare, del filosofo lo colpisce l’anticonformismo). Nietzsche parla di sé, di Wagner e di Schopenhauer come di «pensatori inattuali», dove il termine «inattuali» significa «troppo attuali».

Wagner sta ridando lustro e prestigio alla tragedia; nella sua prima vera opera di argomento filosofico, La nascita della tragedia (dove la tragedia greca viene vista come la massima espressione dello slancio vitale o «spirito dionisiaco», istintivo e irrazionale, che si coniuga e nello stesso tempo si contrappone a quello apollineo, che rappresenta l’ordine e la razionalità), Nietzsche scrive: «Wagner ha una scala grandiosa: nell’Anello del Nibelungo è raggiunta una tale altezza e santità dello stato d’animo che siamo indotti a pensare all’ardore delle cime nevose e dei ghiacciai. Wagner cominciò come una forza elementare della natura, tenebrosa e inquieta. Dopo pause di rinuncia aspirò alla potenza, al successo inebriante: il fiume in tutta la sua potenza si rovesciò nelle gole più tenebrose, schiantò via impetuosamente rupi e foreste. Il segreto primario di Wagner è che verità e intelletto [spirito dionisiaco e spirito apollineo] rimangono fedeli tra loro, il rapporto delle due forze più intime del suo essere è armonico […] Con serietà terribile Wagner agguanta l’oggetto e lo tiene in una morsa di ferro. Melodia vocale e contesto sinfonico, diligenza, inventività nei dettagli minimi, fatica».

«Wagner» sostiene ancora Nietzsche «ha difeso gli artisti dal sentimento di essere rammolliti privi di dignità: il superficiale modo di fare arte non potrà sottrarsi al disprezzo generale dopo di lui».

Gli eroi wagneriani richiamano a Nietzsche la sua idea del super-uomo e della propria volontà di potenza; Wagner è il musicista per eccellenza, anzi, incarna lo spirito stesso della musica: «Il caos obbedisce al suo comando artistico e diventa forma».

Tutto cambia nel 1882, col Parsifal: nella figura del cavaliere cristiano Nietzsche vede il tradimento di quei valori vitali ai quali il super-uomo deve rimanere fedele: «miseramente accasciato ai piedi della Croce» lo definirà, e imputerà il venir meno dei valori vitali anche a Schopenhauer, che pure è irriducibilmente ateo. Troverà affinità tra Schopenhauer e il Wagner del Parsifal, là dove si dice: «Sia benedetta la tua sofferenza, che donò la forza della pietà e il potere della conoscenza…» (in realtà il valore della pietà espresso nel Parsifal è ispirato – più che dal Cristianesimo – dal Buddismo, filosofia che proprio Schopenhauer in questo periodo sta contribuendo a diffondere molto in Europa).

«Eravamo amici e siamo diventati estranei» si lamenterà Nietzsche in La gaia scienza: due navi che sono state trasportate in direzioni diverse dall’urgenza del proprio compito.

L’ultimo scritto dedicato a Wagner è Il caso Wagner, composto nel 1888-1889, dopo la morte del compositore: «L’arte di Wagner è malata. I problemi che egli porta sulla scena – né più né meno che problemi da isterici –, il carattere convulso delle sue passioni, la sua sovreccitata sensibilità, la sua instabilità, travestita da lui in principi, e non meno di ogni altra cosa la scelta dei suoi eroi e delle sue eroine, considerati come tipi fisiologici (una galleria di malati!): tutte queste cose insieme rappresentano un quadro clinico che non lascia dubbi: Wagner "est une névrose" […] Wagner è una grande rovina per la musica. Egli ha colto in essa un mezzo per eccitare nervi stanchi – in tal modo ha ammalato la musica […] È un maestro nella presa ipnotica, abbatte anche i più forti come se fossero tori […] L’adesione a Wagner costa cara […] Wagner agisce come un uso prolungato di alcol. Ottunde, ingorga di catarri lo stomaco». Questo (inaccettabile) giudizio su Wagner sarà una delle ultime cose scritte da Nietzsche, prima di cadere nell’ottenebramento mentale dal quale non sarebbe mai più riemerso.

(novembre 2013)

Tag: Simone Valtorta, Ottocento, Germania, musica, filosofia, Romanticismo, Novalis, Tristano e Isotta, Parsifal, Nirvana, Richard Wagner, Arthur Schopenhauer, Cristianesimo, Buddismo, Anello del Nibelungo, Friedrich Nietzsche.