L’antico Egitto nell’Aida di Verdi
Scrivendo il suo capolavoro, il grande compositore italiano dipinse un mondo esotico e fortemente evocativo, che volle però corrispondesse il più possibile a quello della realtà. Con risultati ambigui, parziali e... curiosi

Tra le varie opere che gli appassionati di musica lirica non possono non vedere almeno una volta nella vita, quasi si trattasse di un pellegrinaggio a un luogo sacro, c’è l’Aida di Giuseppe Verdi; lo scorrere del tempo non ne ha offuscato il fascino, anzi, non ha fatto che rinvigorirlo. C’è tutto quello che si potrebbe desiderare non in un’opera, ma in una serie di opere: l’esotico e lo storico, la riflessione intimistica e la grandiosità e monumentalità scenica, i duetti d’amore e i cori di gloria, il tutto retto da una musica indimenticabile e mai monotona, dalla prima all’ultima nota. Ogni volta che si ascolta l’Aida, è come ascoltarla per la prima volta.

Aida in Arena

Una suggestiva rappresentazione dell'Aida all'Arena di Verona (Italia); fotografia di Simone Valtorta, 2018

Il primo a proporre a Verdi un soggetto che avesse come argomento l’antico Egitto fu Camille Du Locle, direttore dell’Opéra-Comique a Parigi e famoso librettista, conosciuto dal compositore durante la stesura del Don Carlos; era rimasto affascinato da un viaggio compiuto in Egitto, e nel 1868 si recò alla villa di Sant’Agata presentando la sua idea a Verdi. Era un tema di gran moda in quell’epoca, soprattutto dopo che le campagne napoleoniche avevano portato a una prima riscoperta della civiltà faraonica: fino ad allora, l’antico Egitto era conosciuto quasi solo in modo «mitologico», come si nota nel Flauto magico di Mozart.

Nel novembre dell’anno successivo, Verdi venne contattato da Ismail Pascià, Kedivé (cioè, Governatore Turco) dell’Egitto. Il Kedivé, appassionato di musica, dopo l’apertura del Canale di Suez aveva costruito al Cairo un teatro d’opera e voleva che Verdi componesse un’opera inedita per inaugurarlo: si era rivolto a lui un po’ per ammirazione personale, un po’ perché Verdi, all’apice del successo, era considerato non un compositore, ma il compositore per eccellenza. All’inizio Verdi rifiutò, proponendo di inaugurare il teatro col Rigoletto, ma il Kedivé insistette: voleva un’opera egizia, che segnasse l’inizio della tradizione musicale egiziana (in realtà, rivolgendosi a un Italiano, e a quell’Italiano in particolare, l’opera sarà profondamente italiana nella forma e nella sostanza, e solo di argomento egizio). Alla fine Verdi si lasciò convincere, sia perché l’incarico era prestigioso, sia perché il compenso era enorme (150.000 franchi, ossia 15 milioni di euro attuali, quattro volte il compenso per il Don Carlos). Inoltre, un ulteriore rifiuto avrebbe portato il committente a rivolgersi a Gounod o a Wagner, nonostante il compenso maggiore da elargire a quest’ultimo.

Nel comporre un’opera di argomento egizio, Verdi esigette un rigoroso rispetto per l’aspetto storico. Perciò si consultò con Auguste Mariette, egittologo del Louvre fin dal 1848, che era non solo il più famoso archeologo del tempo e la massima autorità in campo egittologico, ma anche suo amico personale. Giuseppe Verdi, come in altre opere di argomento storico (dal Nabucco ai Vespri siciliani, dall’Attila ai Lombardi alla Prima Crociata, tanto per citare alcuni titoli), voleva un’opera storica e rigorosa in tutti i sensi, anche nei dettagli. Purtroppo però Mariette commise una serie di errori storici che amareggiarono Verdi; nemmeno Mariette, infatti, conosceva in modo adeguato la civiltà egizia, dato che gli studi egittologici erano ancora ai primi passi.

Oltretutto, i Francesi fecero dell’Aida un grand-opéra, con un fasto eccezionale: grandiosità, trionfalismo, scenari con piramidi e sfingi, parate militari, cori, danze, scene di massa. L’aspetto esotico era in linea con la moda del tempo: al pubblico piacevano molto le storie ambientate in luoghi lontani o in civiltà remote (pensiamo, per esempio, alla Madama Butterfly o alla Fanciulla del West di Puccini). Se non ci fermiamo all’involucro esterno ma guardiamo più in profondità, scopriamo però che Verdi ha ricavato nell’opera un suo spazio nel quale inserire il suo messaggio più vero di uomo e di artista: egli descrive una storia che è in realtà il paradigma della più vasta storia dell’uomo, una storia dove i personaggi non sanno più verso quale meta siano diretti, né quale sia il motivo che li tiene in vita – tutti noi, ammonisce il compositore, siamo come degli esuli che vagano alla cieca per trovare un motivo per vivere. Già il preludio ha due temi: il tema del desiderio intimo, ciò che Radamès vuole (la vita accanto ad Aida) e il tema dei sacerdoti (il mondo conduce in un’altra direzione). Bisogna precisare che i protagonisti della vicenda (sul palco rappresentati da soprani e tenori quarantenni) sono in realtà poco più che ragazzini: Radamès non arriva a vent’anni, Aida e Amneris ne hanno sedici. È importante tenerlo a mente perché solo così si spiegano i loro improvvisi cambi di opinione, tipici di quell’età.

Nonostante il titolo Aida faccia presupporre il contrario, è Amneris il vero personaggio principale dell’opera: è la figlia del Faraone, una ragazza bellissima che non ha mai ricevuto un rifiuto ai suoi desideri e «capricci» ed è stata designata dal padre come sposa per Radamès, l’uomo più desiderato d’Egitto; ma Radamès ama un’altra, e questo la riempie d’invidia, rancore e infelicità. Sospettando che la «rivale» sia Aida, la sua schiava etiope, ricorre a un tranello: prima le dice che il giovane è morto in battaglia, poi, di fronte alla disperazione di lei, la costringe a confessare la verità; è lampante che un simile tranello è credibile solo se lo fa una ragazza di sedici anni ai danni di una sua coetanea. Dal canto suo, anche Aida è infelice, a causa della sua condizione servile, lei che è pure figlia di Re: l’amore che la lega a Radamès la dilania, perché il padre le chiederà di farsi dire dall’uomo amato i segreti militari d’Egitto; ella vorrebbe aiutare il suo popolo, ma così facendo condannerebbe a morte l’amato (non ha vie d’uscita: o muoiono i suoi parenti, o muore l’uomo che ama). Il terzo protagonista, Radamès, è il condottiero vittorioso, il cui piano è prima vincere gli Etiopi, e poi chiedere al Faraone il permesso di sposare Aida (insomma, sposare la sorella col sangue dei fratelli... solo un ragazzo molto giovane può fare questo ragionamento): come ricompensa del trionfo il Faraone gli prometterà in sposa la figlia Amneris, che lui non ama. Vorrebbe sposare Aida, che però rappresenta il nemico, e si troverà a dover scegliere se perdere Aida per sempre o tradire il suo popolo; sarà una semplice leggerezza, una parola detta di troppo, a farlo condannare a morte. Come si vede, Verdi fece tutto, fuorché un’opera celebrativa, se non nell’involucro esterno (la stessa scena del trionfo, famosissima, è meno trionfale di quanto si sarebbe portati a credere: è come un’enorme gabbia nella quale i personaggi devono svolgere ruoli predefiniti, obbligati a fare qualcosa che non vorrebbero): all’interno c’è la sofferenza vera dell’uomo. Alla fine, Radamès e Aida trovano l’appagamento del loro desiderio nella morte l’uno accanto all’altra mentre Amneris, costretta a crescere nella disperazione perché non può fare nulla per salvare l’uomo che ama, all’esterno del sepolcro dei due amanti prega per la pace. Se apparentemente Giuseppe Verdi obbedì al committente, in realtà compose una grande opera incentrata sulla sofferenza interiore dell’umanità. Lo si nota già nell’ouverture, con una musica soffusa e un senso di mestizia, di una grande occasione andata da poco perduta.

Detto questo, l’opera risulta zeppa di errori sul piano storico. Il personaggio di Radamès, per esempio, è inattendibile: Auguste Mariette lo inventò cercando di farlo suonare «egizio» con il «Ra» iniziale, ma nell’antico Egitto era compito del Faraone comandare in prima persona l’esercito, non mandare dei Generali (anche se ciò è talvolta avvenuto); pare che si sia ispirato a Ramose, un sacerdote il cui sarcofago è conservato a Narni ma che contiene il corpo di una giovane donna nubiana (colei che forse «diede vita» al personaggio di Aida). Il nome Radamès riecheggia, tra l’altro, quello dei due grandi Faraoni guerrieri Ramesse II e Ramesse III.

Un altro errore riguarda il tempio del dio Vulcano, alla fine del Secondo Atto: non è mai esistita nel Pantheon egizio, del resto affollatissimo di astri e piante e animali, una simile divinità. Vulcano era un dio latino, la versione romana del greco Efesto, fabbro degli dèi, che aveva la sua fucina nelle profondità dell’Etna. Il dio egizio della guerra era Montu. E questo dio non aveva sacerdotesse, come appaiono nell’opera di Verdi, anche se nell’antico Egitto esistevano le «cantatrici di Amon» e le sacerdotesse della dea Iside.

Anche le famosissime trombe, create apposta per l’opera e ordinate alla ditta Pelitti di Milano, erano del tutto sconosciute agli Egizi: i Romani avevano tube e buccine e i Celti le carnix, sorta di lunghe trombe dal suono lugubre, che però venivano usate per spaventare i nemici in battaglia e non per celebrare vittorie.

Dal canto suo Verdi, ormai molto anziano, non aveva mai avuto occasione di visitare l’Egitto. Rimase irritato dagli errori di Mariette e non soddisfatto dell’Aida: ciò la rende un’opera ancora più di fantasia e di certo non storica.

La guerra scoppiata nel 1870 tra Francia e Prussia complicò ancor più le cose: la vittoria di Sedan portò i Prussiani ad assediare Parigi, cosicché i sarti di Rue di Rivoli, che lavoravano ai costumi, sospesero i lavori.

Rappresentata infine al Cairo il 24 dicembre del 1871, l’Aida ebbe la prima alla Scala l’8 febbraio dell’anno successivo, con Teresa Stolz nella parte di Aida; alla fine Secondo Atto venne donato a Verdi uno scettro d’oro.

Pur essendo un’opera di fantasia, come appena detto, non dobbiamo però pensare che Aida manchi totalmente di storicità: anzi, nell’opera troviamo citati i nomi di divinità, luoghi, città realmente esistiti, anche se non mancano inesattezze geografiche, dovute ancora una volta a una insufficiente conoscenza di luoghi a quell’epoca in gran parte inesplorati.

Per esempio, le gole di Napata esistono davvero. Napata (l’attuale Gebel Barkal) è una cittadina situata sulla riva orientale del Nilo nei pressi della città di Karima, alla fine della grand’ansa del fiume, all’altezza della quarta cateratta. Fondata forse da Thutmose III intorno al 1450 avanti Cristo, fu la prima capitale del Regno di Kush, che dominava fra l’attuale Sudan Settentrionale e quello Centrale e visse per oltre 1.000 anni, dal 750 avanti Cristo al 350 dopo Cristo. Ebbe il rango di capitale dell’Egitto durante la XXV dinastia egizia (tutta di stirpe kushita) e rimase una delle città sante ove avveniva l’incoronazione del Sovrano; oggi ospita le rovine di numerosi templi e palazzi, tra i quali un tempio di Amon e uno di Mut. Ma non era in Etiopia, bensì in Sudan: nella terminologia antica, Kush era tutto il complesso di territori e genti situati a Sud dell’Egitto, come i Meroiti, gli Axumiti, i Nubiani, i Gnam-Gnam (cannibali), quindi comprendeva anche l’Etiopia; Re Amonasro dell’Aida non era quindi un Etiope come lo intenderemmo oggi, ma un Kushita. Mentre la presenza di Aida alla Corte dei Faraoni è verosimile: nell’antico Egitto era infatti consuetudine tenere ostaggi a Corte i primogeniti dei focosi principi kushiti, onde garantirsi la tranquillità del Regno.

Quello di Kush era un Regno interessantissimo, anche se ancora poco conosciuto: gli scavi hanno portato alla luce città superbe con statue, colonne, scalinate, templi, palazzi, chioschi, complessi di bagni con pozzi, pompe, condotte, piscine profonde che riecheggiano chiaramente Roma, una statuetta raffigurante un uomo sdraiato su un fianco, come su un triclinio (di influenza inconfondibilmente etrusca) e un’iscrizione latina, «BONA FORTUNA DOMINAE REGINAE»; oltre a un capitello con la raffigurazione del dio-leone con tre musi, un corpo serpentesco emergente da un fiore e la selva di braccia giustapposte dei nemici del Re, di derivazione indiana! I Kushiti diedero filo da torcere agli Egizi e in seguito anche ai Romani: comparivano improvvisamente dai deserti e si spingevano per veloci razzie sino ad Assuan (l’antica Syene), posta alla prima cateratta, ritirandosi poi velocemente attraverso il deserto d’Atiri e di Sikkat el Maneila verso la loro capitale. Nel 24 avanti Cristo una torma di guerrieri armati di scudi di pelle di bue, picche e spade, attaccò Philae e osò direttamente contro i simboli del potere di Roma predandovi, fra l’altro, una prodigiosa statua d’Augusto, in bronzo, che portò a Napata. E Roma decise di non tollerare più le offese: Gaio Petronio spinse per la prima volta i suoi legionari attraverso gli infidi deserti nubiani e inseguì i Kushiti fino a Napata, reclamando restituzione e sottomissione. Al secco «no» della Regina Candace (Candace era non un nome, ma il titolo che veniva conferito alle Regine vedove che reggevano il Regno per conto dei figli minori), Petronio rase al suolo la città. Costretta al pagamento di pesanti tributi, la Candace si rivolse allora all’Imperatore Augusto, con il quale sancì un trattato di pace che le permise di tornare sul trono.

Quanto all’epoca di ambientazione dell’opera, sempre che Verdi avesse in mente una reale spedizione militare (cosa di cui dubito fortemente), si possono fare solo congetture: dal 2130 al 1630 avanti Cristo i Faraoni s’impegnarono in diverse campagne militari per sottomettere la Nubia (attuale Sudan) e sfruttarne le miniere d’oro, erigendo poi numerose fortezze per tenere sotto controllo la regione; Napata era sotto il diretto controllo egiziano e le terre circostanti, fino alle coste del Mar Rosso, ne subivano l’influenza. Però furono organizzate altre spedizioni, per esempio sotto Ramesse II e Ramesse III (in quest’ultimo caso sembra si tratti di una spedizione punitiva, in risposta a un tentativo di invasione del nemico, come nell’Aida). È in questo intervallo di tempo che il potere dei sacerdoti si accrebbe a scapito di quello dei Faraoni: ai sacerdoti erano infatti destinati i bottini delle guerre e la maggior parte delle tasse; sotto Ramesse III avevano come schiavi un trentesimo della popolazione egizia e possedevano un settimo di tutta la terra arabile; il Sovrano donò loro l’intero tesoro reale. L’ultimo Re ramessita vide il sacerdote di Ammone usurpare il trono e trasformare l’Egitto in una stagnante teocrazia. Questo predominio di sacerdoti affamati di potere è ben presente nell’opera di Verdi (e perfettamente in linea col suo anticlericalismo): se, quindi, si vuole a tutti i costi trovare una collocazione cronologica, bisognerebbe riferirsi agli anni che vanno dal 1204 al 947 avanti Cristo circa, prima della caduta dell’Egitto sotto i popoli stranieri, e se vogliamo andare ancora più nel dettaglio, tra il 1204 e il 1199, quando si svolge la campagna di Ramesse III contro i Nubiani, sempre che sia a quella che si volesse riferire Verdi... come dicevo più sopra, c’è da dubitarne.

Tutto quanto detto non toglie che Aida sia un capolavoro, e restò a lungo come opera simbolo dell’Italia nel mondo: il 4 giugno 1940 fu anche eseguita di fronte a Mussolini come opera emblema della civilizzazione italiana nel mondo (tema delle colonie).

(dicembre 2018)

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