Il Buddhismo
Un’antica dottrina, una via dall’Oriente per l’«illuminazione» dell’uomo

Buddha

Statua di Gautama Buddha, 240-550, Museo di Sarnath (India)

Il fondatore del Buddhismo fu Siddhartha Gautama, cresciuto nella città di Kapilavastu, ai piedi dell’Himalaya, nota oggi come Nepal. La sua vita può essere collocata tra il 557 e il 447 avanti Cristo.

Nacque dalla nobile e ricca famiglia dei Sakya, «i potenti». Suo padre, Suddhodana, era il principe elettivo di uno Stato posto alle falde dell’Himalaya, presso l’odierno Tilama-Kot. Sua madre, Maya, morì dandolo alla luce. La tradizione lo ricorda con il nome del leggendario capostipite della sua famiglia, Gotamo; Siddharta fu, invece, il suo vero nome. Trascorse l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza nell’agio e nel lusso. Diciannovenne sposò una sua cugina dalla quale ebbe un figlio, Rahula, che più tardi entrò nell’Ordine monastico buddhista.

Al padre di Siddharta era stato predetto che il figlio sarebbe divenuto o un dominatore del mondo o un saggio che al mondo avrebbe rinunciato: due destini estremi. Il secondo caso si sarebbe avverato se il giovane avesse sperimentato le privazioni e le sofferenze della vita. Allo scopo di proteggerlo, il padre fece di tutto perché il figlio non venisse a contatto con il mondo fuori delle mura del palazzo, assicurandogli divertimenti, piaceri ed un harem di belle danzatrici. A 29 anni, a Siddharta accadde qualcosa che gli cambiò per sempre la vita: di nascosto, una sera uscì dal palazzo e si imbatté in un vecchio ammalato e in un cadavere in putrefazione. Dopo queste tristi impressioni incontrò un asceta con un volto luminoso e felice. In quell’attimo si rese conto che vivere nella ricchezza e nel piacere era una vita vuota e senza significato alcuno e si pose la domanda: «Esiste qualcosa che non sia soggetto alla vecchiaia, alla malattia ed alla morte?». Cogitabondo, tornò al palazzo e senza accomiatarsi abbandonò moglie e figlio e cominciò a vagabondare.

L’epoca in cui crebbe era caratterizzata da inquietudini sociali, politiche e religiose. Molti si ponevano interrogativi sulla religione vedica, in cui prevaleva il sacrificio. Molti bramini, abbandonata la famiglia, erano divenuti saggi vagabondi, e vivevano di elemosina e passavano il tempo nella meditazione, nelle discussioni filosofiche e ad esercitare pratiche ascetiche. Siddharta entrò in contatto con questi uomini ed iniziò la propria ricerca. Col passare degli anni apprese tutte le tecniche di yoga e di meditazione ed anche l’ascetismo. Iniziò a mangiare sempre meno, finché, secondo la leggenda, riuscì a vivere con un chicco di riso al giorno. Nonostante lo yoga e l’ascetismo, però, non trovò quello che cercava. Immergendosi nell’immobilità e nella profonda meditazione pensò di aver trovato «l’aurea via di mezzo» all’età di 35 anni. Aveva trascorso sei anni come asceta e meditato giorno e notte ed alla fine sperimentò il «risveglio» («bodhi») mentre era seduto, in meditazione, sotto un albero di fico sulla riva di un affluente del Gange. Era divenuto un Buddha, cioè colui che si è svegliato, che è stato illuminato. Si rese conto che tutta la sofferenza del mondo aveva origine dal desiderio, e soltanto sopprimendolo era possibile sottrarsi al ciclo continuo delle rinascite. Per sette giorni e sette notti il Buddha stette seduto sotto l’albero del risveglio, avendo raggiunto la consapevolezza che esiste una realtà non transitoria, una realtà assoluta al di là del tempo e dello spazio: ciò che nel Buddhismo è chiamato nirvana. Estirpato il desiderio che lo incatenava alla vita, non era più soggetto al rinnovamento del «karma», né quindi alla legge della reincarnazione e decise di «aprire il cancello dell’eternità» a chi volesse ascoltarlo e divenire una guida per gli uomini.

Fondò una comunità maschile e una femminile; ebbe in Ananda il più caro e fedele dei discepoli, e in Devadetta, intransigente fautore di un rigido ascetismo, il suo nemico più acerrimo.

Alla sua morte furono tributati alla sua salma onori regali dai signori della città della Kusinagara, presso la quale si era spento, dopo lunga malattia. Sul luogo ove fu incenerito il suo corpo, fu eretto un tumulo con reliquie («stupa») che fu trovato ed aperto dal Peppè nel 1898.

Della sua esistenza storica non sembra si possa dubitare dopo le scoperte archeologiche che confermarono, sostanzialmente, la tradizione «pali» intorno alla sua nascita ed alla sua morte. Nel 1896 fu trovata una colonna eretta intorno al 244 avanti Cristo dall’Imperatore Asoka a Lummini (oggi Rumimin-Dei, nel Tarai nepalico) a ricordo del luogo dove era nato il Buddha. A Piprava fu scoperta, nel 1898, l’urna con le sue reliquie dal Peppè.

Prima di morire Buddha si rivolse alla folla addolorata intorno a lui e disse: «Forse qualcuno di voi formulerà questo pensiero: “Le parole del Maestro appartengono al passato e non abbiamo più chi ci insegna”, ma non dovete pensare così. La dottrina (“dharma”) che vi ho dato sarà la vostra maestra anche quando io non ci sarò più».

Il Buddhismo si designa non solo come dottrina filosofico-religiosa insegnata dal Buddha, ma anche con quelle dottrine che si ispirarono all’insegnamento dell’Illuminato pur discostandosene su alcuni punti, di maggiore o minore importanza. Per Buddha il fatto che l’uomo sia legato ad un ciclo continuo delle rinascite era un punto di partenza naturale. Il principio fondamentale nel processo di nascita-morte-rinascita sono i pensieri, le azioni e le parole dell’uomo («karma»), poiché ognuno di essi comporta delle conseguenze sulle nostre vite future che ci fa sentire condizionati dal passato. Il genere di vita che attende l’uomo al momento della reincarnazione dipende dalle sue azioni nella vita precedente: si raccoglie ciò che si semina. Non esiste «cieco destino» o Divina Provvidenza. Quindi sottrarsi al proprio karma è impossibile: finché l’uomo genera nuovi karma, è legato a nuove reincarnazioni. Sebbene la legge del karma si possa interpretare come «giusta», è però concepita negativamente; è una situazione da cui bisogna liberarsi. Per essere salvati bisogna liberarsi dal ciclo malefico della reincarnazione. Buddha nega che l’uomo abbia un’anima e rifiuta la vecchia concezione di anima del mondo perché è transitoria come tutto il resto. Secondo il Buddhismo, l’uomo che percepisce la presenza di un Io interiore, oppure sente di avere un’anima, è solo frutto di ignoranza che è solo desiderio, o cupidigia, che crea il karma di un uomo. La vita umana è come una sequenza ininterrotta di processi fisici e mentali che modificano l’uomo: un neonato non è lo stesso di un adulto, ed io non sono oggi lo stesso di ieri. Il Buddha insegna che di nessuna cosa posso dire «questo è mio», come di niente posso dire «questo sono io». In entrambi i casi è pura illusione, tutto è transitorio. Dopo il risveglio sotto l’albero del fico, Buddha si recò a Benares, un importante centro religioso, ove tenne il suo primo discorso, il famoso «discorso di Benares», che contiene i punti fondamentali della sua dottrina. Così «la ruota della dottrina» cominciò a girare. Il famoso discorso delineava le quattro verità sulla sofferenza causata dal desiderio e l’ottuplice sentiero sconfigge la sofferenza con l’eliminazione del desiderio. Nei testi religiosi Buddha è definito «il grande medico» perché formulava una diagnosi affermando che la condizione dell’uomo sulla terra è quella di un malato (prima verità); poi indicava la causa della malattia (seconda verità); però annunciava la possibile guarigione (terza verità) ed infine descriveva una cura in otto punti per il trattamento della malattia (quarta verità). La prima verità: nascere è sofferenza, invecchiare è sofferenza, la malattia è sofferenza, la morte è sofferenza. La seconda verità: indica la causa della sofferenza nella sete o desiderio di piaceri sensuali, poiché questa sete non può mai essere placata e porterà sempre con sé malessere. Ma anche la stessa sete di esistere dell’uomo contribuisce a mantenere attiva la sofferenza: se l’uomo continuerà a credere nell’anima, la sua esperienza del mondo sarà dolorosa. La terza verità: è possibile mettere fine alla sofferenza quando cessa il desiderio. Allora inizia il nirvana.

La quarta verità: l’uomo sarà liberato dalla sofferenza e dal ciclo della reincarnazione se sceglie di seguire il nobile ottuplice sentiero.

La via da percorrere per eliminare la sofferenza è «l’aurea via di mezzo» descritta da Buddha in otto punti:

1) giusta conoscenza,

2) giusta risoluzione,

3) giusto uso della parola,

4) giusta pratica,

5) giusta condotta di vita,

6) giusto sforzo,

7) giusta attenzione,

8) giusta meditazione.

Giusta conoscenza e giusta risoluzione: sapere come è fatto il mondo, assenza di un’anima, combattere il desiderio, fuggire dall’odio e dalla brama sessuale, l’uomo deve avere Buddha come modello.

Giusto uso della parola, giusta pratica e giusta condotta di vita: giusto uso della parola è astenersi dalla bugia, dal pettegolezzo e dalla chiacchiera inutile; giusta pratica significa non uccidere, non rubare, non avere relazioni sessuali immorali, non mentire e non fare uso di droghe; giusta condotta di vita è che la professione scelta non infranga le cinque regole elencate. I macellai, i commercianti di alcolici, i fabbricanti d’armi non possono, dunque, praticare il Buddhismo.

Giusto sforzo, giusta attenzione e giusta meditazione significa come si possa migliorare e purificare la propria mente. Con giusto sforzo il buddhista non deve avere pensieri distruttivi e umori variabili; giusta attenzione: bisogna sviluppare in se stessi un’attenzione per i fenomeni corporei e mentali; giusta meditazione è ridurre la mente alla quiete e, quando avviene, si perde la cognizione di spazio e di tempo e tutte le illusioni dell’essere e del possedere scompaiono. È il momento del risveglio («bodhi»), nel quale si raggiunge piena coscienza delle quattro nobili verità e si è liberati dalla legge del karma. Si diviene «arhat», non più soggetti a rinascite e, quando si muore, si entra nel nirvana eterno.

La parola «nirvana» significa, letteralmente, «spegnimento» per il fatto che si raggiunge il nirvana quando il desiderio è spento. Il nirvana è l’esatto contrario del ciclo eterno ed è possibile descrivere soltanto ciò che non è. Il nirvana è come una quinta dimensione, separata dalla nostra percezione quadridimensionale; è la condizione di conoscenza, felicità e pace che si raggiunge dopo aver annullato odio, cupidigia ed ignoranza.

Condizione necessaria per raggiungere il nirvana è che il buddhista abbia sperimentato il risveglio («bodhi») come il Buddha sotto il fico. Le buone azioni non bastano a condurre al nirvana, solo una giusta condotta di vita può dare rinascite favorevoli, che possono creare il risveglio. Per Buddha ci vollero 547 reincarnazioni per arrivare alla fine del suo percorso. Il nirvana definitivo, che ha inizio con la morte, e da cui non si fa ritorno, nel Buddhismo si chiama «parinirvana», «lo spegnimento assoluto o supremo».

La vita del Buddha è un ideale che offre stimoli per un modello etico, la compassione o condizione del dolore e l’amore hanno un posto centrale nell’etica buddhista. L’amore per il prossimo non ha conseguenze soltanto per gli altri, poiché contribuisce a nobilitare il proprio carattere.

Il Buddhismo impone cinque regole di vita:

1) non danneggiare alcuna creatura vivente;

2) non prendere ciò che non si è ricevuto (non rubare);

3) non comportarsi scorrettamente in rapporto ai piaceri sensuali;

4) non dire il falso;

5) non fare uso di droghe e di alcool.

In sintesi: cercherò di imparare a non danneggiare alcuna creatura vivente in nessun modo. Non si deve uccidere né uomini né animali; il pacifismo è un ideale ineludibile. Se un soldato di professione muore sul campo di battaglia, rinascerà all’inferno oppure come animale.

Per il buddhista la vita inizia con il concepimento e l’aborto è proibito. Anche il suicidio non è ammesso, tranne quando si doni la propria vita per aiutare altri. Vi sono dei laici che si impongono discipline molto severe, ad esempio l’astinenza sessuale o il celibato; non mangiare dopo le 12; astenersi dai divertimenti; abbandonare ogni lusso; non dormire in un letto morbido e non possedere né accettare oro, argento e denaro.

Il Buddhismo raccomanda la cura dei moribondi, poiché la morte è un momento decisivo in rapporto alla reincarnazione e deve avvenire in modo sereno. Per i buddisti il matrimonio non è sacro, per questo i monaci non si sposano. Secondo la morale buddhista, l’uomo deve portare rispetto alla moglie e questa deve accudire alla casa. È considerato negativo rinascere come donna, poiché se non si reincarna in un uomo, la donna non può conquistare il nirvana.

Il Buddha creò la «comunità dei monaci», i quali dovevano rinunciare alla famiglia ed alla vita sociale, dovevano vivere in estrema povertà e per sostentarsi mendicavano. Per i laici, invece, fare elemosina era un onore. È tipico, nell’Asia Meridionale, vedere i monaci, nelle tonache arancioni, con le teste rasate mendicare un pugno di riso che consumano nell’arco della mattinata. Esistono, anche, ordini di suore ma rivestono minore importanza degli ordini dei monaci. In antico il culto religioso consisteva nell’adorazione delle reliquie del Buddha o di altri Santi. Le reliquie erano conservate in piccoli tumuli di terra («stupa») sino ad assumere la forma «a campana» o a cupola, oggi pagoda. Davanti alle immagini e alle statue i fedeli bruciano incenso, depongono fiori e offerte. Un buddhista ortodosso non adora Buddha perché sa che non è una vera divinità, ma «il sublime» maestro che ha raggiunto il nirvana, quindi non può vedere, né premiare le azioni dei fedeli.

L’immagine del Buddha non è fatta per essere adorata, ma solo per ricordare la sua dottrina. Nei templi vi sono statue di Vishnu, Indra e Ganesha, ma di proporzioni ridotte per sottolineare l’inferiorità del ruolo rispetto a quello di Buddha. Dopo la sua morte sorsero delle diatribe sull’interpretazione della sua dottrina, e nacquero due tendenze inconciliabili: una conservatrice, l’altra più liberale. Da quella spaccatura ebbero origine due tradizioni: la «theravada» («la scuola degli anziani») radicata nel Sud dell’Estremo Oriente (Sri Lanka, Birmania, Thailandia, Laos e Cambogia) e «mahajana» («il grande veicolo») a Nord (Cina, Tibet, Mongolia, Vietnam, Corea e Giappone).

«Theravada» è la corrente che si ritiene depositaria del Buddhismo originario e il suo principio fondamentale è che l’uomo deve assumersi la responsabilità del proprio sviluppo etico e religioso.

«Mahajana» implica il concetto che il Buddhismo del Nord conduce tutti gli uomini alla salvezza.

Di recente nel mondo buddhista si è verificato un gran fermento per le problematiche etiche. L’ideale di impegnarsi per la propria liberazione attraverso la meditazione, non è ritenuto più sufficiente. Caratteristiche importanti sono l’impegno in favore dell’unità, l’incremento dell’attività missionaria e una più intensa attività sociale.


Il Buddhismo tibetano

In Tibet il Buddhismo mahajana si è introdotto nella religione locale (chiamata «bon»), con fede in dèi ed altri spiriti, adorati con sacrifici di sangue, culti misterici e danze rituali. Gli dèi sono considerati custodi della dottrina buddhista che è realtà dominante. I buddhisti, nel Tibet, si considerano i veri eredi della dottrina originaria del Buddha. Oggetti di culto del Buddhismo tibetano sono le ruote e le bandiere di preghiera. Le ruote girano mosse dalla mano dell’uomo, dall’aria, dalle correnti d’acqua e le bandiere che si agitano nel vento hanno il significato della «ruota della dottrina» che si è messa in moto. Il «mantra» (formula magica, parola o suono sacro) più usato è: «Om mani padme hum», ossia: «Oh tu, che hai il gioiello nel tuo loto», oppure: «Sia onore al gioiello nel loto». Questa frase si ritrova ovunque in Tibet, incisa nelle ruote della preghiera, sui muri e sulle rocce ed è continuamente ripetuta e si usa un Rosario di 108 perle, che è un numero sacro. Ordini monastici e comunità laiche sono in perfetto contatto. Moltissimi conventi hanno ospitato più di mille monaci e sono considerati i più grandi edifici monastici mondiali. Il Buddhismo, in Tibet, è definito «lamaismo», da «lama» («maestro»), titolo designato per i capi spirituali, di solito monaci. La struttura della società deriva da una peculiarità del lamaismo. Fin dal XVII secolo il Tibet è stato retto da un gran lama o Dalai Lama («Oceano di Conoscenza») che deteneva il potere politico e religioso e risiedeva nella capitale Lhasa. Il Dalai Lama è considerato l’incarnazione del famoso bodhisattva Avalokiteshvara. Quando uno di essi muore, i monaci cercano un bambino che sia la reincarnazione del Dalai Lama deceduto per farne il suo degno successore, dopo scrupolosi accertamenti.

Causa la sua posizione quasi inaccessibile, tra le più alte montagne del mondo e per la sua cultura peculiare, il Tibet è stato ritenuto e pare, veramente, un Paese da fiaba. Dopo molti anni di controllo politico la Cina, nel 1959, ha occupato militarmente ed annesso il Tibet. Il 14° Dalai Lama ha chiesto asilo politico all’India, e gli fu concesso. Da allora vi fu un grande esodo di Tibetani verso l’India ed il Nepal che diffusero la loro dottrina. In molti Paesi Occidentali sono stati fondati monasteri tibetani e numerosi scritti religiosi del Dalai Lama e testi sacri del Buddhismo sono, ora, tradotti in tutte le lingue europee.

Il fine ultimo dei buddhisti è quello di sperimentare, prima o poi, il risveglio («bodhi») come accadde a Buddha 2.500 anni fa. Nel Buddhismo esistono molte varianti sulla concezione di ciò che il risveglio comporta ed il modo per arrivarci. In Cina sorse un particolare concetto di meditazione che poneva il momento del risveglio al centro dell’intera dottrina buddhista. Tale corrente si è diffusa anche in Corea e, soprattutto, in Giappone ed è conosciuta in Occidente con la denominazione giapponese di «zen», che significa «meditazione». Questo movimento, in Giappone, dispone di circa 20.000 templi e conta cinque milioni di adepti, tra monaci e laici. Fondamentale, nel Buddhismo zen, è la pratica del risveglio o dell’illuminazione, che non si raggiunge con le parole, per le quali lo zen nutre una profonda diffidenza. Ciò che non si può comunicare a parole si può comunicare dall’«additamento diretto». Buddha avrebbe reso noto il suo risveglio al suo miglior amico, mostrandogli semplicemente un fiore, senza parlare. Da allora la pratica del risveglio è tramandata, senza parole, di generazione in generazione. Lo zen insegna che il risveglio deve avvenire dall’interno, deve sgorgare dal cuore della persona. Poiché il risveglio deve provenire dal di dentro, lo zen non fornisce ricette per ottenerlo. Esso può avvenire in qualsiasi momento, come un fulmine, e non avviene per gradi, se si verifica è immediato e totale. Si dice che il Buddhismo theravada apre la porta del nirvana con la forza, mentre il mahajana deve girare e rigirare la chiave nella toppa. Nello zen è diffusa anche la pratica del «koan», l’indovinello che l’allievo è invitato a risolvere, del tipo: «Come era il tuo volto prima di nascere?», «Quale è il suono di una mano?». Questi indovinelli portavano l’allievo ad una schiacciante «sensazione di dubbio», che è necessaria per arrivare al diretto contatto con la realtà ed il risveglio. Il risveglio significa rendersi conto che il mondo è così come lo vediamo. L’unico modo per capire il significato della vita è viverla. Perciò per molti buddhisti zen il lavoro quotidiano può servire come meditazione. Occupazioni come bere il the, coltivare giardini, seccare i fiori hanno acquisito molta importanza per il buddhista zen. L’organizzazione di una serie di incontri internazionali tra buddhisti di diverse tradizioni e tendenze è finalizzata al raggiungimento di un accordo sulle questioni relative alla dottrina, così come il Concilio Universale della Chiesa ha tentato di fare per il Cristianesimo.

(novembre 2015)

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