Il Diluvio Universale
Fu «solo» una gigantesca alluvione, o… qualcosa di molto più serio? Il dibattito si è recentemente orientato verso una nuova ipotesi

Tra i grandi cataclismi che hanno costellato la plurimillenaria storia dell’uomo, quello che maggiormente appartiene alla memoria collettiva dell’umanità è senza dubbio il Diluvio Universale – universale in senso letterale, perché non v’è popolo che non ne abbia una qualche versione, dai Pigmei dell’Africa agli Inca del Sud America, dagli Aborigeni dell’Australia ai Celti dell’Europa; benché le cronache del Diluvio siano più comuni nell’Asia Continentale, nelle isole immediatamente a Sud di essa e nell’America del Nord, si trovano in tutti i continenti.

Tutte queste leggende contengono inoltre elementi comuni:

1) il Diluvio è una punizione mandata dalla divinità per punire gli uomini. Nella Bibbia si precisa che l’umanità è corrotta, e lo stesso vale per gli antichi Greci, mentre nei racconti mesopotamici gli dèi sono infastiditi dal chiasso degli esseri umani ed esasperati dal frastuono dei loro tamburi cultuali;

2) l’avvertimento dell’appressarsi del cataclisma viene dato in anticipo agli uomini destinati a salvarsi. Per la Bibbia a salvarsi furono Noè con la sua famiglia, per i Babilonesi Utnapishtim, per gli antichi Greci Deucalione e Pirra, per i Cinesi Fu-hsi e sua sorella Niù-Kua; per gli Indiani dell’Estremo Oriente a salvarsi fu il marinaio Manu avvertito da un pesce parlante, mentre i Cherokee dicono che fu un cane ad avvisare il suo padrone pellirossa che stava cominciando a piovere;

3) i predestinati costruiscono un’imbarcazione (un’arca, una barca, una zattera) su cui salvano se stessi e gli animali;

4) dopo il Diluvio, vengono mandati degli uccelli per scoprire se le acque si sono ritirate. Questi uccelli sono un corvo e poi una colomba per la Bibbia, una colomba per i Greci, mentre i Sumeri abbondano e parlano prima di una colomba, poi di una rondine e infine di un corvo;

5) l’imbarcazione si ferma su un monte. Secondo la Bibbia si tratta di un monte della catena dell’Ararat (Armenia), mentre l’Epopea di Gilgamesh ritiene che l’arca si sia arenata vicino al fiume Zab, nell’attuale Iraq; gli antichi Greci parlano di una delle due vette del Parnaso, invece la tradizione musulmana pone l’arca sul Jebel Judi, una montagna che per il Corano è situata in Arabia, ma che, secondo gli autori medievali, si sarebbe trovata vicino a Mosul, nella Mesopotamia Settentrionale;

6) i superstiti offrono un sacrificio alla (o alle) divinità, che mostrano il loro apprezzamento.

La Bibbia presenta il Diluvio Universale con accenti altamente drammatici: «Dopo sette giorni, le acque del diluvio furono sopra la terra; nell’anno seicentesimo della vita di Noè, nel secondo mese, il diciassette del mese, proprio in quello stesso giorno, eruppero le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo si aprirono. Cadde la pioggia sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti. […]

Il diluvio durò sulla terra quaranta giorni: le acque crebbero e sollevarono l’arca che si innalzò sulla terra. Le acque divennero poderose e crebbero molto sopra la terra e l’arca galleggiava sulle acque. Le acque si innalzarono sempre più sopra la terra e coprirono tutti i monti più alti che sono sotto tutto il cielo. […]

Perì ogni essere vivente che si muove sulla terra, uccelli, bestiame e fiere e tutti gli esseri che brulicano sulla terra e tutti gli uomini. Ogni essere che ha un alito di vita nelle narici, cioè quanto era sulla terra asciutta, morì.

Così fu sterminato ogni essere che era sulla terra: dagli uomini agli animali domestici, i rettili e gli uccelli del cielo; essi furono sterminati dalla terra e rimase solo Noè e chi stava con lui nell’arca» (Genesi, 7, 11-23).

Una leggenda cinese parla addirittura di una catastrofe cosmica: «La terra fu scossa dalle fondamenta. Il cielo si abbassò a Settentrione. Il sole, la luna e le stelle cambiarono i loro corsi. La terra si frantumò e le acque sgorgarono dal suo seno verso l’alto con violenza, inondandola. L’uomo si era ribellato a Dio e il sistema dell’Universo era sconvolto. I pianeti mutarono le loro orbite e la grande armonia dell’Universo e della natura fu turbata».

Altre storie parlano di straripamento di fiumi, uragani, maremoti, eruzioni vulcaniche e terremoti.

A questo punto, viene spontaneo chiedersi: è realmente esistito un terribile cataclisma noto come Diluvio Universale? La domanda non è oziosa come può forse sembrare, perché ne suscita subito un’altra, ben più preoccupante: ciò che è avvenuto una volta, potrebbe ripetersi ancora?

È stato fatto notare che, tra le centinaia di narrazioni sul Diluvio, oltre la metà sono state influenzate dalla Bibbia (sono frutto di quella che viene chiamata «contaminazione culturale»). I missionari cristiani, nella loro opera di evangelizzazione per il mondo, hanno portato con sé la leggenda del Diluvio che si può essere sovrapposta a racconti locali sorti in seguito ad inondazioni causate da normali attività geologiche e meteorologiche. Per esempio, nelle Isole Hawaii si tramanda di un Diluvio a cui si salvarono un uomo chiamato Nuu e la sua famiglia; la storia presenta una colorazione ed un’ambientazione tipicamente locali, ma il fatto che sia stata raccolta molto tempo dopo l’inizio dell’evangelizzazione delle Isole, fa supporre che possa essere frutto di un processo di contaminazione o sovrapposizione fra leggende indigene e la Bibbia.


Dalla Mesopotamia...

La Bibbia non è il testo più arcaico che parla del Diluvio: il primato va ad alcuni testi mesopotamici, di cui il più antico è l’Atra-Hasis che risale al diciottesimo secolo avanti Cristo (ma con tutta probabilità è una revisione di testi ancora più antichi); si trova anche in frammenti di miti sumerici e nella famosa Epopea di Gilgamesh (tavola XI). Una notevole analogia fra questi miti e il testo biblico, fa pensare ad una specie di racconto comune agli ambienti dell’antico Vicino Oriente che aveva subito rielaborazioni successive adattate secondo i diversi interessi religiosi e nazionali.

Fino ad una ventina di anni fa si riteneva che il Diluvio Universale fosse il ricordo di una gigantesca alluvione avvenuta nel bacino dei fiumi Tigri ed Eufrate. Lo studioso americano Jack Finegan ricorda che «in tempi diversi grandi inondazioni devastarono la terra di Babilonia o parte di essa, come v’era da aspettarsi dalla stessa conformazione della vallata. Una di queste ci è nota attraverso gli scavi di Ur fatti da C. Leonard Woolley. Esplorando un antico cimitero, dove le tombe erano site in ciò che un tempo era stato il mucchio della spazzatura dell’antica città, sotto il livello di tale sepolcreto gli archeologi continuavano a trovare vasellami ed altri oggetti della città più antica. Tutto ad un tratto, mentre il pozzo diveniva sempre più profondo, non si trovarono più né vasellame né rifiuti, ma solamente argilla perfettamente pulita. Gli studiosi crederono di essere giunti al fondo del delta originale (dell’Eufrate), ma le misurazioni fatte dimostrarono che non si trattava di ciò. Dopo aver scavato per ben due metri, sempre tra uniforme argilla pulita, s’imbatterono infine in rifiuti pieni di masserizie di pietra e frammenti di vasi dipinti a mano come nei più antichi livelli di Tell el-Obeid (V millennio avanti Cristo). Un’inondazione di considerevole portata dovette quindi sommergere almeno una parte di Ur verso la metà del periodo Obeid». Tracce di grandi inondazioni sono state rinvenute anche negli scavi delle città sumeriche di Shuruppak e di Kish. Di fronte a tali inondazioni, contadini stanziali abituati a considerare «mondo» solo il territorio intorno al loro villaggio, avrebbero potuto facilmente credere che tutta la terra fosse stata sommersa dalle acque!

Tuttavia, alcuni elementi chiave che stanno alla base dei racconti mesopotamici del Diluvio non hanno senso nel contesto dello straripamento di un fiume, per quanto devastante esso possa essere. Ad esempio, il preavviso della catastrofe, che concede il tempo sufficiente a costruire e caricare un’imbarcazione. Le piene dei fiumi mesopotamici sono alimentate dallo scioglimento delle nevi sulle montagne dell’Anatolia e dell’Armenia, e non si possono prevedere: può succedere che le nevi stagionali siano abbondanti oppure scarse, che la primavera arrivi presto oppure tardi. Inoltre gli allagamenti, quando avvengono, non sono permanenti: la gente scappa, aspetta che le acque si ritirino, poi torna a rimettere in sesto le case e i campi. Sono molti i grandi fiumi che straripano rovinosamente, ma è raro che tali fenomeni diano vita ad una mitologia.


...al Mar Nero

Alla fine degli anni Novanta del secolo scorso due geofisici americani, William Ryan e Walter Pitman, hanno elaborato una nuova e più convincente teoria, oggi comunemente accettata in seno alla comunità scientifica, secondo la quale il Diluvio Universale sarebbe avvenuto circa 7.600 anni fa nel Mar Nero.

Fu un cataclisma colossale, causato da un marcato innalzamento degli oceani al termine dell’ultima glaciazione. Spiega Pitman che «se si immagina di innalzare oggi il livello degli oceani di venti metri, crescerebbe il livello del Mediterraneo prima, del Mar Nero poi che si riverserebbe nel Mar Caspio, causando un evento catastrofico. Siamo quindi andati a cercare un evento simile risalente a circa 6-7.000 anni fa». Prosegue: «Ventimila anni fa ci fu un generale scioglimento delle calotte polari, generando un innalzamento generale assai marcato del livello delle acque». Queste provocarono una terribile inondazione nel bacino del Mar Nero. Il professore continua a spiegare: «Prelevando dal fondo di questo mare una serie di carote di sedimenti, si è visto che questo una volta era un lago di acqua dolce divenuto improvvisamente salato. L’ipotesi è quindi che il Mediterraneo si deve essere riversato nel Mar Nero che era ad un livello più basso del Mediterraneo».

Non è stato facile provare questa teoria: «Abbiamo dovuto pazientare a lungo, che terminasse la guerra fredda tra Stati Uniti e Russia, visto che come Americani non potevamo sicuramente entrare in territorio russo a compiere ricerche. Al termine della guerra fredda, all’inizio degli anni Novanta, abbiamo potuto effettuare delle prove in collaborazione con gli scienziati russi nelle zone attorno alla penisola di Crimea nella parte settentrionale del Mar Nero. Abbiamo trovato prove che tra ventimila e cinquemila anni fa tutta la zona settentrionale del Mar Nero era stata emersa, esposta all’aria. Tutta questa superficie ora occupata dalle acque era un’immensa pianura. La prova ci è stata data da una serie di sedimentazioni calcificate di conchiglie rinvenute nei carotaggi, una situazione che può accadere solo quando le conchiglie sono esposte all’aria. Subito sopra questi reperti c’è un deposito fangoso di elementi tipici di un mare profondo. Tutto ciò ci porta a dire che l’area fu inondata in un periodo relativamente breve». La cronaca delle loro ricerche è stata pubblicata in un bel libro che unisce alla precisione del linguaggio scientifico un’esposizione chiara e a tratti persino avvincente (William Ryan-Walter Pitman, Noah’s Flood. The new scientific discoveries on the event that changed history, edito in Italia da Piemme col titolo: Il diluvio).

Mark Siddal, oceanografo dell’Università di Berna, porta altre conferme a questa teoria: la scoperta di un canale sommerso alla bocca dello stretto del Mar Nero, forse scavato dalla forza della corrente che irrompeva al ritmo di sessantamila metri cubi d’acqua al secondo; le caratteristiche del fondale in cui si alternano colline di sabbia lunghe molti chilometri, conseguenza di impetuose correnti, di sedimenti sottomarini.

Il Mar Nero è sempre stato considerato un mare inospitale: gli antichi lo temevano per le violente tempeste; Diodoro Siculo racconta di un deflusso delle acque del Mar Nero che allagò un grande tratto della costa egea dell’Asia Minore, anche se questa notizia è verosimilmente leggendaria. I Turchi medievali chiamavano il Mar Nero «Kara Deniz», cioè il mare nero messaggero di morte. È vero: le acque del fondo sono ricche di acido solfidrico, una sola boccata del quale è sufficiente per uccidere un uomo. Oggi il limite fra le acque di superficie e quelle anossiche (prive di ossigeno) si trova a centoquaranta metri di profondità, però il suo livello negli ultimissimi decenni si è innalzato di oltre venticinque metri. Burrasche particolarmente violente o i cosiddetti tsunami (enormi onde anomale di marea) provocati da terremoti potrebbero far «scivolare» per un breve periodo lo strato protettivo superficiale, aprendo uno sbocco ad una nube letale e distruttiva che coprirebbe il bacino e i suoi dintorni.

Ma andiamo con ordine, spostandoci a 120.000 anni fa, agli inizi dell’ultima Era Glaciale, quando il clima della terra ed il livello dei mari erano pressoché identici a quelli attuali. A partire da quel momento e per i successivi centomila anni le acque degli oceani evaporarono e, trasportate dai venti, ricaddero sotto forma di neve sulle vicine regioni artiche dove si stratificarono e si compattarono formando coltri di ghiaccio che in alcuni punti formarono uno spessore di tre chilometri. 20.000 anni fa, gli oceani avevano perso tanta acqua, che il loro livello era sceso oltre cento metri sotto quello attuale.

Estesi ghiacciai coprivano l’intera metà settentrionale del Nord America, tutta la Scandinavia, l’Europa Settentrionale e il limite settentrionale dell’Eurasia. Tutte le alte montagne d’Europa, Asia, Nord America e Sud America erano coperte di ghiaccio fino alle loro valli più basse.

C’era già l’uomo anatomicamente moderno, a quel tempo: cacciatori e raccoglitori, i nostri antenati costruivano strumenti di pietra e vivevano in rifugi e caverne provvisori.

20.000 anni fa, iniziò il grande disgelo post-glaciale. Torrenti di acqua gelida corsero al mare, il cui livello cominciò lentamente a crescere. A poco a poco la terraferma fu liberata dal carico del ghiaccio. I fiumi della Russia Settentrionale si gonfiarono e presero a scorrere verso il Sud attraverso le steppe, raggiunsero il Mar Nero, che a quell’epoca era una cinquantina di metri più basso di oggi, e attraverso il canale naturale del Sakarya raggiunsero l’oceano aperto. Grazie a quell’acqua, il Mar Nero divenne un lago di acqua dolce – il lago più grande del mondo.

Gli uomini che vivevano al Nord seguirono le grandi mandrie di mammut, renne ed altri grossi erbivori che migravano nella tundra man mano che i ghiacciai si ritiravano, e presero a vivere per alcuni mesi all’anno in accampamenti di caccia. Nelle steppe russe, dove il legname scarseggiava, costruirono baracche con ossa di mammut accostate e legate insieme e le coprirono con pelli. La carne era conservata in pozzi scavati nel terreno gelato. Con pelli cucite insieme si fecero pantaloni, stivali e giacconi con cappuccio.

Nelle zone più temperate d’Europa ed Asia, gli uomini vivevano in capanne rotonde ed ovali di canne o di tronchi e pelli, costruite sopra buche poco profonde. Catturavano i pesci con amo e lenza, trappole e reti. Avevano inventato l’arco e la freccia, e bastoni da lancio che raddoppiavano la gittata dei giavellotti da caccia. Probabilmente alcuni di loro affumicavano e salavano carne e pesce. Però la vita continuava ad essere una lotta per la sopravvivenza quotidiana.

Una grande quantità di manufatti fabbricati con stupefacente abilità e finezza da questi uomini sembra unire fini mistici e culturali a scopi estetici. Perline e amuleti erano ricavati dall’avorio, dalla pietra e dalle conchiglie, e usati per adornare vestiti e comporre collane e braccialetti. Con avorio, ossa e pietre venivano scolpite meravigliose statuette di donna, perlopiù con enormi seni e glutei a simboleggiare il culto della maternità: ne sono state rinvenute in Europa, nel Medio Oriente, nel Nord Africa e fin nei pressi del Lago Bajkal, in Siberia. I bastoni da lancio venivano intagliati con forme stilizzate di cavalli, cervi ed altri animali da selvaggina; questi animali erano anche dipinti e graffiti sulle pareti di profonde caverne sotterranee e su rupi, intercalati con profili di mani ch’erano forse la «firma» dell’artista.

15.000 anni fa, i ghiacciai erano in pieno regresso e riversavano milioni di metri cubi di acqua nei fiumi del Nord America e dell’Europa. Poi, nel 12.800 avanti Cristo, l’Europa fu di nuovo stretta, per un migliaio d’anni, nella morsa del clima glaciale. La temperatura si abbassò e le piogge diminuirono in tutto il Sud-Ovest dell’Asia, in Europa e in Africa. Nelle alte montagne avanzarono i ghiacciai, in Africa e in Anatolia i laghi si disseccarono. Sul Mar Nero e sui suoi dintorni diminuirono le precipitazioni, al punto che l’afflusso di acqua portata dai fiumi e dalle piogge non riuscì più a compensare l’evaporazione. Il livello dell’acqua prese a scendere fino a trovarsi al disotto del canale del Bosforo: il Mar Nero divenne un lago isolato.

Nel canale di Sakarya, ormai separato dal lago e dal mare, si depositarono fango e detriti portati dalle torrenziali piogge stagionali e dai fiumi che vi sfociavano. I detriti si accumularono fino a formare uno sbarramento naturale di terra. Man mano che il lago si abbassava, emergeva un’antica piattaforma, uno spesso accumulo di detriti di organismi marini e grandi quantità di depositi lasciati dai molti fiumi. Le acque in regresso, agitate dai venti e dalle maree, sciabordavano ed erodevano le fragili conchiglie dei molluschi frantumate e sbiancate dal sole. Le fenditure scavate dall’arsura si riempirono di sabbia e di semi di cereali selvatici cresciuti sul posto, alcuni dei quali misero radici, particolarmente nelle depressioni e nelle valli più umide. Nuove valli sinuose si dipartirono a ventaglio dalla linea costiera, i fiumi che scendevano da quelle valli depositarono detriti lungo i bordi del lago che si era abbassato e formarono nuovi delta fiancheggiati da argini naturali creati durante gli occasionali straripamenti. Tali valli e delta – con i loro ricchi terreni fertilizzati dal costante anche se pigro afflusso d’acqua, e con una copiosa vita ittica nei fiumi e ai bordi del lago – costituivano un rifugio ideale per uomini e animali.

Nel Vicino Oriente molti gruppi di cacciatori e raccoglitori avevano adottato uno stile di vita più sedentario, costruito villaggi fissi, praticato la caccia e la pesca locali, raccolto frutta polposa e secca, e frumento ed orzo selvatici. Ma, col sopravvenire del clima più freddo ed arido, quelle risorse svanirono. Gerico, al pari di molti altri villaggi, fu abbandonata. Le pianure dell’Ucraina e della Russia Meridionale ridiventarono deserti stepposi. Le tribù si affollarono nei pressi delle oasi dove abbondavano selvaggina ed acqua, ad esempio lungo le sponde del Mar Nero. Là, nei delta e nei terrazzi fluviali, ai bordi delle lagune – forse grazie alla dispersione fortuita di sementi che avevano raccolto – esse impararono a seminare, passando così dalla raccolta di ciò che madre natura forniva, al procacciarsi scientemente i vegetali necessari all’alimentazione. Presero anche a commerciare generi alimentari ed altri beni, e a scambiare idee con i gruppi che si erano stabiliti intorno al lago.

Il grande gelo finì 11.700 anni avanti Cristo, repentinamente com’era cominciato. Il caldo e le piogge mitigarono l’asprezza della regione, e nell’arco di poche centinaia d’anni il paesaggio riprese vita man mano che tornavano la selvaggina, le erbe spontanee insieme con i frutti polposi e secchi. La gente cominciò ad allontanarsi dalle oasi, si sparse per l’Anatolia, il Levante e la Mesopotamia Settentrionale, prosperando nelle valli ritornate ricche d’acqua e lungo le sponde dei laghi, praticando l’agricoltura appresa da poco.

Nel 6.200 avanti Cristo quell’esistenza tranquilla fu nuovamente sconvolta da un’altra piccola Era Glaciale che assediò l’emisfero settentrionale. Come da copione, le temperature si abbassarono e le piogge si diradarono. Un’ondata di aridità tornò ad abbattersi sull’Europa Sud-Orientale, sull’Ucraina e sulla Russia Meridionale. Si restrinsero i laghi e i fiumi dell’Anatolia, dell’Asia Sud-Occidentale e dell’Europa Sud-Orientale. In Anatolia e lungo la Mezzaluna Fertile molti villaggi agricoli furono abbandonati, altri deperirono. Intere popolazioni, molte delle quali praticavano ormai l’agricoltura, si ritirarono in ristrette zone acquifere, presso i pochi fiumi che ancora scorrevano e ai bordi del Mar Nero.

Il livello del mare era ancora al disotto dell’ammasso di terra e detriti che bloccavano la valle del Bosforo, e il Mar Nero era ancora un lago isolato. Questa volta gran parte di coloro che arrivarono sul lago era costituita da agricoltori che coltivavano le valli fluviali e i delta. Qui essi ricominciarono a commerciare intorno al lago servendosi di piccole imbarcazioni, scambiandosi merci, ossidiana, pelli, ceramiche, erbe ed essenze. Quelli che vivevano ancora di caccia, di raccolta e di pastorizia adottarono un nuovo stile di vita e dai vicini coltivatori impararono l’arte dell’agricoltura; qualcuno ebbe l’idea di deviare le acque di un delta e incanalarle in un argine naturale, inventando l’irrigazione.

Le cose migliorarono intorno al 5.800 avanti Cristo, quando tornarono il caldo e le piogge e alcuni di quelli che abitavano ai bordi del lago abbandonarono il bacino e rioccuparono a Sud alcuni insediamenti abbandonati.

Le popolazioni del Mar Nero vivevano ora presumibilmente in grossi centri urbani, erano esperti agricoltori e allevatori; forse molti uomini erano artigiani (muratori, carpentieri, pittori, scultori, cestai, pellai, gioiellieri, ceramisti o impresari funebri), come risulterebbe dal fatto che i beni erano prodotti sia per il consumo locale sia per il commercio con altre lontane comunità del Levante e forse dell’Europa Orientale. Non è da escludere che possedessero una forma di organizzazione sociale e politica in cui una classe sociale esercitava funzioni amministrative, altre compivano lavori manuali, altre ancora – ad esempio, gli sciamani – presiedevano cerimonie religiose e magiche, o addirittura eseguivano interventi chirurgici sul cervello. Fra le altre malattie, soffrivano di malaria e di artrite. L’attesa media di vita raggiungeva a malapena i trent’anni, ma si danno anche casi di sessantenni. Era ben lungi dall’essere il Paradiso Terrestre, insomma, ma era una società prospera, felice e, per quel tempo, assai progredita.

Ma la situazione stava per precipitare. Le acque del mare salivano di livello in maniera inesorabile, oltre venti centimetri nell’arco di una vita umana. Già nel 5.600 avanti Cristo il mare aveva raggiunto il colmo della barriera di terra nella valle del Bosforo, pronto a riversarsi nel lago del Mar Nero. Forse più volte le acque, spinte da una burrasca o da un forte vento da Sud, si frangevano sopra la cima dello sbarramento di terra, lasciando sul fondo zone di umidità; chi fosse salito fin lì avrebbe affondato i piedi nelle sabbie inumidite dal primo sciacquio delle onde salate, e volgendosi a Nord avrebbe potuto allungare lo sguardo attraverso l’arida valle che finiva nel lago baluginante da lontano, centocinquanta metri più in basso. Finché un ultimo moto ondoso cominciò a far defluire lungo la scarpata e verso il lago una corrente continua d’acqua che insinuandosi tra il terreno molle, tra il fogliame e i detriti cominciò a scavare, e attraverso antichi burroni e letti fluviali asciutti scese in un terreno accidentato fra una confusione di alberi e grossi massi.

Quando arrivò all’antica piattaforma sottostante, l’acqua prese a serpeggiare attraverso la sua superficie piatta, a defluire in antichi canali da molto tempo asciutti, a formare piccole lagune, ad aprirsi lentamente un passaggio, finché superando il bordo e le rive degradanti raggiunse il lago. Il rivolo divenne un torrente che, prima tranquillo, prese a scorrere sempre più veloce, flagellando e scavando con forza crescente il fondo e i margini del suo corso. Nel giro di pochi giorni, il suo pacato sciacquio divenne un muggito allorché il corso d’acqua divenne un fiume turbinante che prese a spingere coi suoi gorghi alberi e grossi ammassi di terra.

I detriti che fino ad allora avevano sbarrato la valle vennero rapidamente spazzati via e l’acqua, ormai alta alcuni metri, divenne una fiumana: tuonava, turbinava, ribolliva di pietrame e artigliava le pareti di roccia molle che qua e là cadevano. L’acqua, spessa di detriti, si abbatté sul fondo, graffiò e incise lo stesso letto roccioso. Quanto più scavava, tanto più aumentava la sua velocità, e quanto più questa aumentava, tanto più rapidamente l’acqua scavava, finché aprì una fiumana larga un’ottantina di metri ed alta centocinquanta che mugghiava a velocità superiori a settantacinque chilometri all’ora, con un frastuono che scuoteva la terra e probabilmente si faceva udire e percepire sensibilmente lungo l’intero perimetro del Mar Nero. Ogni giorno si abbattevano chilometri cubi di acqua, duecento volte la portata delle odierne cascate del Niagara.

Il livello del lago prese a salire di dieci, quindici centimetri al giorno, e immediatamente allagò i delta e invase le piatte valli fluviali; le risalì avanzando incessantemente, ora dopo ora, oltre un chilometro al giorno, respingendo gli uomini a monte dei fiumi o sull’altopiano desertico attraverso il quale erano state tagliate le valli.

Il tumultuoso assalto delle acque continuò incessante per dodici mesi, finché il livello del lago salì di cinquanta metri e raggiunse la superficie più bassa della fiumana. Man mano che esso saliva, rallentava lentamente anche il ritmo del deflusso. Nel corso di altri dodici mesi il livello salì di un’altra trentina di metri, superò il bordo dell’antica piattaforma e iniziò la sua corsa verso l’attuale linea costiera, spingendo davanti a sé tutto ciò che incontrava. Ruzzolò su macchie e boscaglie, su steppe e piccoli alberi, travolse la rada vegetazione, la sabbia, la terra e i frammenti di conchiglie sbiancate da secoli di esposizione al sole. Dappertutto l’avanzata dell’inondazione fu così rapida che in pochi giorni intere regioni da sempre aride si trovarono sommerse sotto tre metri ed oltre di acqua.

Due anni dopo, quando il livello del lago salì a cento metri, le acque sorpassarono lo Stretto di Kerč e poco dopo raggiunsero la piana di Azov, già da tempo abbandonata dagli uomini. Dovranno trascorrere ancora molti anni prima che il bacino sia riempito completamente e sia creato il Mar d’Azov, la cui superficie, al pari di quella del Mar Nero, si troverà allo stesso livello del Mare Egeo e, più oltre, del Mediterraneo.

La fiumana del Bosforo ruggì e ribollì senza tregua per almeno tre secoli. Probabilmente il punto e il momento della sua violenta nascita ebbero testimoni diretti; forse, alcuni coraggiosi accorsero per vedere il suo mostruoso deflusso. Chiunque vide, sicuramente conservò l’agghiacciante immagine della furia e della potenza di quel drago liquido che, mugghiando e sprizzando dalle fauci infuocate getti di spruzzi come di fumo, distruggendo tutto ciò che incontrava sul proprio cammino, si buttava a capofitto nelle acque dolci del lago, avvelenandole col suo sale.

Quale non dovette essere il terrore di quegli agricoltori, scacciati a forza dai loro campi da un evento che non riuscivano a spiegarsi, da una forza di tale terribile violenza da far pensare che d’un sol colpo si fosse scatenata su di loro la furia di una divinità! Fuggirono con l’intera famiglia, vecchi e giovani, portando con sé tutto quanto poterono, gli oggetti materiali e le loro idee e conoscenze, consapevoli che non avrebbero più fatto ritorno, poiché la terra che stava per essere sommersa lo sarebbe stata per sempre, perennemente inabitabile. Dovettero procurarsi il cibo con la caccia e la raccolta, attività che da gran tempo avevano dimenticato; probabilmente alcuni, forse molti, morirono di inedia.

Ad un certo punto, il livello del Mar Nero raggiunse quello del Mar Egeo e il deflusso s’interruppe. Tutto era ridiventato tranquillo; insenature e dune disegnavano e attorniavano come un recinto lo specchio d’acqua. Le divinità che avevano scatenato il cataclisma s’erano infine placate. Ma sarebbe dovuto trascorrere molto tempo prima che gli uomini facessero ritorno a stabilirsi lungo le sue sponde.

Chi, preavvisato della tragedia che stava per abbattersi, probabilmente vedendo la fiumana che si avvicinava, ebbe tempo di salvarsi, si sparse seguendo le sponde dei fiumi per l’Europa del Nord e dell’Ovest, a Nord-Est verso l’Asia e a Sud-Est verso il Levante, l’Egitto e la Mesopotamia.

Gli agricoltori detti Vinča, costruttori di graziose case di canniccio ricoperto di fango e col pavimento intonacato di creta bianca, comparvero all’improvviso, nel secolo e mezzo successivo all’inondazione, sulle pianure della Bulgaria e lungo la valle del Danubio; attraverso valli montane si spinsero a Sud fino al fiume Vardar in Macedonia. Tutti i loro insediamenti si trovano a una buona distanza dal mare, come se lo temessero, come se ne avessero paura; soltanto nell’Europa Centrale, sulla pianura ungherese ben protetta da una cerchia di montagne, i Vinča vissero in territori ad altitudini inferiori ai cento metri.

La popolazione della «ceramica a bande» risalì il Dnestr, proseguì rapidamente verso Ovest e attraverso l’Europa Settentrionale raggiunse il bacino di Parigi, soppiantando pacificamente o con la forza le popolazioni indigene di cacciatori e raccoglitori. Portò con sé lo stile delle lunghe case orizzontali coperte di cortecce, i vasi di ceramica decorata con bande di linee continue o punteggiate e il proprio metodo agricolo. Anch’essi si tennero lontani dalle coste: non colonizzarono mai le fertili zone costiere dell’Europa Settentrionale, né si stabilirono lungo la costa post-diluviana del Mar Nero che partendo dalla Turchia si allunga verso la Bulgaria, la Romania, la Moldavia, l’Ucraina e la Russia.

I Danilo-Hvar si stabilirono in vecchi siti abbandonati lungo la costa adriatica della Dalmazia, in alcune delle valli che tagliando per le montagne raggiungono il mare, di preferenza nell’entroterra. Dalla loro posizione strategica sullo sbocco a mare della valle del Narenta i Danilo-Hvar assicuravano i collegamenti fra l’Adriatico e le montagne e valli che conducevano ad Est attraverso un gruppo strettamente collegato di nuovi arrivati detti Butmir, i quali avevano occupato i territori intorno a Sarajevo. Esportavano conchiglie di Spondylus dai Balcani alla sponda del Mar Nero e importavano ossidiana dall’Italia; forse acquistavano sale fin nella Polonia Meridionale.

Gli Hamangiani si stabilirono nella regione costiera della Bulgaria provenendo forse dal Levante o da qualche altro luogo dell’Asia Sud-Orientale, forse dalla Crimea o dalla sponda meridionale del Mar Nero; furono gli unici che non abbiano rifuggito dallo stabilirsi vicino al mare.

Tutte queste popolazioni comparvero in Europa poco dopo il Diluvio. Tutte risultano uniche nel loro genere, culturalmente più avanzate di quelle che sostituirono. E portarono l’Europa verso quella che fu, veramente, un’«età d’oro».

Alcune popolazioni in esodo dal Mar Nero s’inerpicarono sulle alture del Sud, risalirono torrenti e corsi d’acqua, passarono oltre l’altopiano anatolico e si dispersero nel vasto complesso di montagne e valli profonde. In Anatolia alcuni di quei disperati assediarono i piccoli e radi villaggi e li incendiarono. Nel Levante molti villaggi agricoli abbandonati furono rioccupati. Altri stranieri forniti di tecnologie agricole e di sistemi di domesticazione avanzata, acquisiti da altre popolazioni, si stabilirono in Egitto e nel delta del Nilo, inaugurando una rapida trasformazione sociale ed economica nella regione e dando origine a quello che millenni dopo sarebbe stato il popolo dei Faraoni. Altri ancora comparvero ai confini settentrionali della Mesopotamia e penetrarono nelle sue aride valli meridionali dove nessuna popolazione agricola aveva mai osato avventurarsi.

Alcune popolazioni agricole che avevano tagliato a Sud attraverso l’Anatolia Orientale, ed altre che erano fuggite dall’estremità orientale del Mar Nero e si erano dirette a Sud o avevano risalito la valle del Rioni o avevano aggirato le regioni meridionali, penetrarono lungo il bordo orientale della Mesopotamia e si stabilirono nei contrafforti dei Monti Zagros.

Alcuni di essi, detti Ubaìdi, si stabilirono al centro della zona alluvionale della Mesopotamia Meridionale, una regione dove la piovosità annua era di appena dieci centimetri e l’unica risorsa naturale era costituita dal terreno eccezionalmente fertile e dai fiumi Tigri ed Eufrate che chiudevano la piana. Là quella popolazione, che conosceva l’irrigazione e forse usava un primitivo aratro, prosperò. Per irrigare occorrevano canali e di conseguenza un’organizzazione sociale per progettarli, costruirli e mantenerli: fu così che nacque una nuova civiltà, quella dei Sumeri, per i quali la tradizione della catastrofe troverà una conferma nelle frequenti inondazioni fluviali. Il mito visse nei canti cerimoniali, nelle canzoni intorno al fuoco durante le soste delle carovane. Probabilmente, ogni ripetersi dell’inondazione offriva l’occasione di rinarrare la storia del tempo antico, quando il Grande Diluvio travolse e distrusse quasi interamente l’umanità. Elaborato e modificato per adattarlo alla più familiare geografia della Mesopotamia, il racconto mantenne lo schema di base: preavviso, allagamento improvviso, fuga di una famiglia in cerca di scampo, sommersione del mondo intero, regresso delle acque, approdo e salvezza di quella gente.

Il mito del Diluvio Universale è sopravvissuto per molte ragioni. La principale è che rappresenta la storia veritiera della distruzione definitiva di una regione, della sua popolazione e della sua cultura in seguito a un’inondazione repentina e catastrofica.

Gli uomini che erano vissuti vicino al Bosforo, all’estremità occidentale del lago, portarono nel cuore la visione terrificante e il frastuono della fiumana che sconvolgeva il loro mondo, e che si marchiò a fuoco, indelebilmente, nella loro tradizione orale, fino a coagularsi nei miti che tutti noi conosciamo. Per chi si salvò, quella fu la fine del mondo che egli conosceva; ma i dispersi avrebbero portato ovunque si fossero fermati la loro superiore civiltà, le loro idee e le loro innovazioni: e la fine divenne un nuovo inizio!

(giugno 2012)

Tag: Simone Valtorta, Diluvio Universale, Mar Nero, Mesopotamia, William Ryan, Walter Pitman, Bibbia, Gilgamesh.