La Grande Muraglia della Cina
Un’opera faraonica, gigantesca rivelatasi di non grande utilità, la cui realizzazione comportò una delle più terribili forme di schiavismo

Muraglia Cinese, mappa

Mappa della Grande Muraglia della Cina

Muraglia Cinese

La Grande Muraglia della Cina nei pressi di Mutianyu (Cina)

Da Shan-hai-kwan, nel golfo di Liao-Tung, al passo di Kia-gu, presso il Tibet, il confine settentrionale della Repubblica Cinese è formato dalla Wan-li Ch’eng, ovvero la «Muraglia dei Diecimila Li».

Si tratta della Grande Muraglia della Cina, una delle più imponenti, se non la più grandiosa in senso assoluto, tra le costruzioni dovute al lavoro umano, in ogni tempo; quella muraglia, nei primi anni del ’900, era ancora avvolta nella leggenda, nella favola, nel mito.

In linea d’aria l’opera copre una distanza di 2.019 chilometri; se a questi si aggiungono i 400 chilometri sviluppati in lunghezza da altre parti o diramazioni addizionali si ottiene una lunghezza totale di almeno 2.400 chilometri. In origine la muraglia contava, cosa che ha del meraviglioso, 25.000 torri e 15.000 posti di vedetta. Oggi, pur nella generale decadenza, l’opera possiede ancora 20.000 torri e 10.000 posti di vedetta.

Per quanto eloquenti nella loro arida precisione, le cifre non danno, crediamo, la misura esatta dell’immensa estensione della muraglia; la fantasia ha bisogno di essere sollecitata da paragoni adeguati per rappresentarsi le cose: si pensi allora che, posta in una regione a noi più vicina, la muraglia si estenderebbe da Berlino a Tiflis nel Caucaso. Oppure si consideri che se alla sua lunghezza si aggiungesse quella delle altre numerose muraglie esistenti in Cina, si supererebbe il diametro della Terra.

La costruzione della grandiosa muraglia cominciò nel 214 avanti Cristo sotto Shih-Huang-Ti.

Questi, già principe di Tsin con il nome di Yin-Cheng, aveva cominciato a regnare quando era quasi un fanciullo e governava un Paese relativamente piccolo. Ma fin dai primi anni si dedicò alla difesa di un territorio che a lungo era stato considerato come una gratuita e ricorrente preda degli invasori provenienti dal Nord. Nel 221 avanti Cristo occupò il trono della Cina e assunse il nuovo nome di Shih-Huang-Ti che significa «Primo Imperatore».

Salito a dignità imperiale e assunto il nuovo nome, quasi a significare che intendeva romperla con la nobile stirpe regale che l’aveva preceduto, il «Primo Imperatore», attribuendo a tutta l’estensione di quel nuovo Impero il nome del suo antico staterello (Tsin: Cina), e organizzando le forze di quella che per la prima volta nella storia fu la Cina, rivelò una personalità inconfondibile di monarca dalle idee chiare e dagli obiettivi precisi.

A Shih-Huang-Ti si deve infatti l’abolizione del sistema feudale e la divisione del Paese in province, allo scopo di ottenere una più agile organizzazione amministrativa.

Subito dopo marciò contro i Tartari, gli eterni nemici del Settentrione; ma, pur avendo riportato la vittoria, fu costretto a tornare indietro per sedare, nel suo Paese, i germi di lotte intestine, secondo un costume si direbbe costante nel mondo orientale.

C’è chi vede in questa sgradevole situazione politica la ragione principale per cui l’Imperatore si decise ad attuare, contro eventuali nemici nordici, un’opera difensiva concepita con una grandiosità senza pari. Altri pensano, invece, che l’Imperatore si sia lasciato andare all’istinto ambizioso di gran costruttore rivelato anche dai Faraoni egiziani. In effetti egli ispirò ancora altre opere di eccezionale grandiosità: fece erigere nella capitale un palazzo con una sala capace di accogliere diecimila persone; la configurazione topografica delle palazzine appartenenti alle sue mogli, site nel Parco Imperiale della Foresta, era fatta ad immagine del cielo stellato.

La verità, forse, come spesso accade, sta nel giusto mezzo: la megalomania edile, propria dei monarchi assoluti e dei dittatori, assalì il Primo Imperatore, favorita dalla necessità di porre improrogabilmente riparo alle invasioni.

«Non aver paura della tigre del Sud, guardati dal gallo del Nord». Così si esprime un antico motto cinese; e tenendo presente questo saggio avvertimento, Shih-Huang-Ti pensò forse di affidare alla pietra il proprio nome per i secoli a venire. Inoltre alla sua decisione non dovette essere del tutto estranea una certa forma di superstizione che, assai diffusa in tutto il mondo orientale, assume addirittura carattere religioso per i seguaci del taoismo. Sappiamo infatti che l’Imperatore fu mosso alla grande impresa dopo un sogno profetico, nel quale credette ciecamente, che lo avvertì del pericolo che incombeva dal Nord. Del resto, senza scomodare le apparizioni più o meno precise del mondo onirico, al nostro spirito occidentale, più smaliziato e positivo, appare evidente che se c’era da approntare una difesa, questa doveva necessariamente guardare a Nord.

Data la grandiosità della costruzione, non era facile passare dal progetto alla realizzazione. Ma Shih-Huang-Ti non si lasciò spaventare né cogliere alla sprovvista. Mobilitò, per adibirli al lavoro della Muraglia, un terzo dei suoi sudditi di sesso maschile. In precedenza aveva ordinato che fossero bruciati tutti i classici cinesi, comprese le opere venerate da Confucio; tale provvedimento, per noi poco comprensibile e privo di logica, aveva invece una grande importanza per i Cinesi i quali consideravano come il più grande dei tesori il sapere, tramandato dagli antichi nei loro libri, incisi su tavolette di bambù e ritenevano i sapienti che li avevano scritti al di sopra dei Re e dei mercanti.

Da un lato, quindi, Huang-Ti intendeva riaffermare la propria superiorità su chiunque, anche sui dotti scrittori, dall’altro aveva il comodo pretesto per spedire ai lavori forzati per un periodo di quattro anni almeno, chi possedesse ancora un libro. E ce n’erano tanti.

Non è difficile comprendere, ad ogni modo, che la maggior parte degli studiosi reclutati in questo modo difficilmente seppe resistere ai disagi, alle fatiche, alla pena di quel lavoro bestiale. Né è da credere che i sorveglianti e gli assistenti ai lavori fossero teneri con i deboli e gli inadatti. Li uccidevano, anzi, e disponevano che i cadaveri fossero gettati sotto i sassi e le pietre che costituivano le fondamenta. Per cui riuscirebbe difficile, oggi, calcolare il numero di ossa umane su cui sorse la Grande Muraglia.

Non sarà sfuggita una sorta di contraddizione, caratteristica della figura di Huang-Ti, il quale, secondo una linea di condotta sovente osservata dai dittatori, da un lato manifestò grande coraggio nell’intraprendere l’immane costruzione, dall’altro si compiacque di gesti spietati e crudeli. Perciò se come afferma il proverbio cinese: «La distruzione di una generazione ha prodotto la salvezza di altre», è pur vero che la Grande Muraglia è stata ben a ragione definita «il cimitero più lungo del mondo».

La Grande Muraglia, la cui lunghezza, abbiamo detto, supera i 2.400 chilometri, ha una altezza che va dai quattro metri e mezzo ai nove metri; lo spessore è di oltre sette metri e mezzo alla base, di quattro e mezzo alla sommità. L’altezza e la grossezza del muro diminuiscono leggermente man mano che si procede verso Occidente, ma fino alla fine esso mantiene la sua rara qualità di opera eccezionale.

Partendo da Shan-hai-kwan, il «Muro dei Diecimila Li» corre verso Occidente lungo la montagna, finché raggiunge Calgan; è attraversato dall’importante strada occidentale di Pechino. Non molto distante, al passo di Nankow, la strada ferrata attraversa la Grande Muraglia. Questa, in alcuni punti, presenta varie cortine di muratura che formano come altrettanti festoni o frange che fanno da complemento alla Muraglia centrale. Esistono, infatti, due diverse diramazioni presso Liangchowfu e un altro ramo racchiude un largo tratto di territorio ad Occidente di Pechino. Dopo questa città, la Muraglia si avanza nella pianura e sulle catene minori del bacino dell’Huang-ho o fiume «Giallo», attraversandone il corso; da questo momento l’enorme barriera segue fedelmente il confine tra la Mongolia e la Cina, fino a Cauchan dove il Muro raggiunge il suo limite meridionale.

Non è possibile stabilire quanto tempo abbia richiesto la erezione della Muraglia. È però noto che Huang-Ti non poté vedere il compimento dell’opera e che morì quando ancora fervevano i lavori.

Il Geil suppone che siano state erette in un primo tempo le torri e che in seguito sia stato completato il raccordo murale tra di esse. Il fatto che l’opera fosse compiuta da Lin Pang, primo della dinastia degli Han, non può costituire termine esatto di riferimento, perché certe opere, come da noi San Pietro non si possono mai dire compiute. E se, come sappiamo, alcuni Imperatori della dinastia dei Ming restaurarono la Muraglia, questo dimostra appunto che, in un’opera di così grande mole non si può mai dire la parola fine per quanto concerne lo stato dei lavori.

Con l’andar del tempo un’aria di leggenda avvolse la Grande Muraglia e se ne cominciò a favoleggiare come di un grande dragone di pietra eretto contro gli spiriti maligni, che frequentemente animavano la mitologia cinese. Ci fu ancora chi cantò Huang-Ti quale mago, dotato di poteri sovrannaturali, che, a cavallo di un destriero celeste sposta con la sferza le montagne e devia il corso del fiume Giallo. In effetti, le generazioni che seguirono quella, per così dire, condannata all’erezione forzata della Muraglia, osservando attraverso la prospettiva del tempo, i risultati concreti dell’opera e finendo con l’ignorare l’enorme sacrificio umano che era costata, erano portate a magnificare quello che ormai era divenuto un patrimonio comune, a mitizzare la figura dell’animatore che di quel patrimonio aveva posto le fondamenta. Soltanto i diretti discendenti delle vittime, gli intellettuali, i dotti scrittori non perdonarono mai a Huang-Ti lo scempio dei libri del sapere e, accesa la fiaccola dell’odio all’incendio che aveva distrutto il loro patrimonio culturale, propagarono per secoli e per generazioni il ricordo del Tiranno e non quello del grande costruttore.

La Grande Muraglia esercita ancora sul visitatore un fascino che nessun altro monumento riesce a trasmettere.

Oggi siamo abituati a definire l’importanza di una grande costruzione calcolando le giornate lavorative occorse per realizzarla o il numero di quintali di cemento, impiegati per l’armatura. In mancanza di dati tecnici così precisi, come al solito, la fantasia ci risponde cercando di dare un quadro adeguato all’opera in costruzione osservando l’opera ormai costruita. Sappiamo, ad esempio, che per trasportare le pietre furono impiegate le capre, o, più verosimilmente, il dorso dell’uomo. Questo era ancora sotto Huang-Ti, la bestia da soma più a buon mercato. Ma ciò che più impressiona è la diversità della natura del suolo attraversato dalla Muraglia. Si pensi che il passo di Liangchowfu e di Lan-chow si trova a milleduecento metri sul mare e che fin lassù si dovette far pervenire il materiale; e che in alcune zone desertiche fu necessario erigere fino a tre muri esterni di difesa o di riparo perché, durante i lavori, la Grande Muraglia non venisse sepolta dalla sabbia trasportata dal vento.

Scrive a questo proposito il Geil già citato: «Quando noi riflettiamo al lavoro richiesto per erigerla, a poco a poco indoviniamo la fatica imposta a turbe innumerevoli; il sudore, le lacrime, il sangue che devono essere stati versati e siamo preparati a udire che, dopo due millenni, il nome di “Chi” è maledetto in tutta l’estensione della Muraglia dai discendenti di coloro che furono costretti all’odioso compito, che lavoravano in mortale angoscia, per paura che quando carne e sangue mancassero di rispondere alla sferza dell’aguzzino, dovessero essere gettati nella mole allo scopo di provvedere maggiore quantità di materiale al mostro divorante. È una Muraglia di sangue».

Ripetiamo che il sangue versato nella costruzione doveva, nei secoli, impedire che altro sangue si versasse, garantendo alla Cina l’imprendibilità da parte delle popolazioni del Nord. Vale a dire l’enorme sacrificio del popolo cinese era in certo modo giustificato dall’utile che ne doveva derivare. Purtroppo la Grande Muraglia, sorta come opera militare difensiva, si rivelò, quando fu necessario far ricorso ad essa, una qualsiasi linea Maginot. Non riuscì, infatti, a fermare le truppe di Gengis Khan, né ad arginare l’invasione dei Manciù.

Il fatto si può spiegare con due ordini di motivi. Il primo (e se è stato fatto riferimento alla Maginot «absit iniuria verbo»), è che non basta una grande muraglia per difendere un Paese quando i suoi abitanti non posseggono un carattere e un animo più saldi della stessa difesa approntata; e i Cinesi, è noto, non furono in passato formidabili guerrieri. Il secondo è che la Grande Muraglia, estesa per migliaia di chilometri, non mostrava in ogni sua parte uguale compattezza. In certi punti, anzi, era soltanto costituita da un terrapieno formato da terra di riporto trovata sul luogo, innalzata per lo spessore di circa otto metri e ricoperta sui fianchi di pietre e mattoni.

Non altrimenti, del resto, si spiega la ragione del silenzio di Marco Polo, nelle sue relazioni, riguardo la Grande Muraglia. Egli, infatti, recandosi in Cina alla corte di Kublai Khan attraversò la regione del Gobi, dove assai meno imponente era la Muraglia e probabilmente, non ne rimase così impressionato da ritenere necessario farne cenno.

Wan-li Ch’eng, la «Muraglia dei Diecimila Li», tradì in certo senso, lo spirito per cui era stata costruita e finì per dimostrare che il popolo cinese a troppo caro prezzo aveva pagato la megalomania del suo Primo Imperatore. E strano contrasto fanno le due lapidi, poste senza grande rilievo, ai due estremi della Muraglia: «Il cielo fece il mare e le montagne», dice la prima, posta nel lato orientale; si avverte in queste parole quasi una voce di umiltà, la voce di chi è consapevole della grandiosità dell’opera appena intrapresa.

«Baluardo guerresco di tutto ciò che è sotto il sole» afferma la seconda lapide, posta all’estremo occidentale; qui l’umiltà è sparita, si avverte come uno squillo di tromba di guerra, audace e sfrontato, quasi una sfida.

Gengis Khan e gli altri provvidero poi a smentire tale presunzione, contribuendo così al perpetuarsi della cattiva fama di Huang-Ti, l’ispiratore della Muraglia, la grande divoratrice di carne umana!

(anno 2003)

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