L’incendio del Reichstag
All’inizio del 1933, il Palazzo del Parlamento Tedesco venne dato alla fiamme. Nazisti e comunisti si accusarono a vicenda. Le reali responsabilità di quell’atto sono tuttora fonte di dibattito storiografico

L’incendio del palazzo del Parlamento Tedesco, il Reichstag (denominazione della Dieta Imperiale Tedesca, la massima istanza politica dello Stato nella Repubblica di Weimar), è considerato pressoché da tutti gli storici uno degli eventi che più contribuirono alla rapida ascesa del nazismo. Chi abbia avuto la responsabilità di aver provocato il rogo, invece, è dubbio: le autorità del tempo individuarono il piromane in un giovane minorato olandese pseudo-comunista, mentre la maggior parte degli storici odierni ritiene che a organizzare tutto furono i nazisti i quali, in effetti, furono gli unici a trarre un vantaggio dall’evento. Soprattutto, la storiografia di sinistra ne addossa la responsabilità ai militanti del Partito Nazionalsocialista di Hitler con una sicurezza che si potrebbe definire «sconcertante». In realtà, quello dell’incendio del Reichstag è un vero e proprio «giallo» che sembra ancor oggi lungi dall’avere una conclusione accettata da tutti. Vediamo quali sono i fatti. Ognuno potrà trarre le conclusioni che più ritiene probabili.

È il 27 febbraio del 1933, una sera fredda e ventosa. Il grande palazzo in pietra del Reichstag di Berlino è quasi vuoto, i deputati se ne sono andati; rimangono solo alcuni guardiani notturni, per spegnere le luci e controllare i corridoi e l’unica entrata che rimane aperta.

Poco dopo le 21, uno studente di passaggio ode il rumore di vetri infranti, alza lo sguardo e scorge una figura su un balcone del primo piano con in mano qualcosa simile a una torcia accesa. Corre subito al posto di polizia più vicino per dare l’allarme. L’ufficiale in servizio, Karl Buwert, va a controllare di persona, vede il vetro rotto e il bagliore rossastro all’interno dell’edificio, capisce che il fuoco sta già ardendo in diversi punti. Si precipita ad avvisare le autorità, e dopo pochi minuti in tutta Berlino risuonano le sirene dei vigili del fuoco. Le foto dell’epoca mostrano uno scenario apocalittico, in cui le fiamme sembrano voler avvolgere le colonne e il tetto del palazzo in un abbraccio mortale.

Agenti e guardiani si danno un gran daffare ad aprire le porte per consentire ai vigili del fuoco di entrare nell’edificio; passano 19 minuti fra il momento in cui lo studente ha visto l’intruso e quello in cui la prima persona riesce a entrare nella sala delle riunioni.

Qui l’incendio arde con maggiore intensità, sono preda delle fiamme i pesanti tendaggi ai lati della porta e alcuni pannelli di legno; attraversata la stanza, il fuoco ha raggiunto la tribuna dello stenografo, e una quantità di focolai più piccoli ha già interessato i banchi dei deputati.

Un agente, tornando di corsa a una delle entrare per riferire su ciò che ha visto, nota che le fiamme si sono sviluppate in diversi cestini per la carta e che ci sono stracci infuocati sparsi dappertutto; cosa più importante, trova un berretto e una cravatta abbandonati. Sono le prove che l’incendio è stato appiccato di proposito, da una o più persone.

Alle 21,25 giungono nella sala delle riunioni l’agente Helmut Poeschel e l’ispettore dell’edificio Alexander Scranowitz per decidere sul da farsi. All’improvviso un giovane senza camicia, sporco di fuliggine e scarmigliato, sfreccia davanti a loro. All’ordine di fermarsi e di alzare le mani, non fa resistenza e si lascia perquisire: con sé ha un temperino, un portafoglio e un passaporto olandese intestato a Marinus van der Lubbe, nato il 13 gennaio 1909 a Leida.

Scranowitz è sicuro di avere in mano il colpevole. «Perché l’hai fatto?» gli chiede.

«Per protesta» mormora l’altro.

Mentre gli agenti portano via van der Lubbe, arrivano 15 squadre di vigili del fuoco; in capo a pochi minuti, 60 pompieri gettano fiumi d’acqua sull’edificio in fiamme. Dopo un’ora e mezzo, l’incendio è domato: l’edificio è salvo, ma la sala delle riunioni è andata completamente distrutta e il soffitto di vetro è esploso in mille schegge che ricoprono tutto il pavimento.

Il Ministro degli Interni Hermann Göring sta cenando con il neoeletto Cancelliere della Germania (nonché capo del Partito Nazionalsocialista) Adolf Hitler quando la notizia dell’incendio lo raggiunge. Si scusa con il Führer e si affretta a raggiungere il Reichstag. Interrogato dai giornalisti su chi possa essere il responsabile dell’attentato, non ha esitazioni a puntare il dito sui comunisti, contro i quali i nazisti stanno conducendo un’intensa campagna di repressione: «Questo è un atto criminale comunista contro il nuovo Governo» dichiara. E quando qualcuno gli fa notare che è stato preso un solo attentatore, Göring ribatte: «Uno solo? Non è stato un uomo solo, ma dieci, venti! Questo è il segnale delle rivolta comunista!» Alla domanda di come i piromani possano essersi introdotti nell’edificio ed essere poi fuggiti tutti tranne uno, Göring ipotizza che abbiano usato il passaggio sotterraneo che collega i suoi uffici al Reichstag. Il Ministro, furibondo, giura di procedere immediatamente al rastrellamento e alla punizione dei membri di quello che definisce il «Terrore rosso»: sono arrestati e inviati in campi di concentramento – i primi dei quali sono Oranienburg e Dachau – oltre 4.000 militanti e dirigenti del Partito Comunista, tra i quali lo stesso segretario del partito, E. Thälmann, che morirà nel campo di Buchenwald nel 1944.

Al di fuori dei circoli nazisti, sono in molti a non concordare con il giudizio espresso da Göring. I comunisti tedeschi si trovano in una fase di debolezza ed è difficile immaginare che una tattica incendiaria possa far loro guadagnare il favore di un’opinione pubblica diffidente. Senza contare che le gallerie che consentirebbero loro di entrare e uscire dal Reichstag sono sotto il controllo di Göring e della sua polizia. Viceversa, sono molti i motivi per cui i nazisti potrebbero trar beneficio da un incendio spettacolare, specialmente se, a una settimana da importanti elezioni nazionali, vi possano implicare i loro grandi avversari. Del resto, lo stesso Göring ha promesso di far fuori i «rossi» con mezzi «indiretti», ma solo al momento opportuno, dopo lo scoppio di quella che egli chiama la «rivoluzione bolscevica».

Il Ministro degli Interni non perde tempo, presentando un Decreto per la protezione del popolo e dello Stato che, in pratica, concede ai nazisti tutti i poteri legali per instaurare un regime dittatoriale. La mattina seguente l’incendio, Göring si presenta nell’ufficio dell’ormai vecchio e debole Presidente della Repubblica di Weimar, Paul von Hindenburg, per chiedergli di firmare e trasformare in legge un decreto di ampia portata «contro gli atti di violenza dei comunisti», restrittivo della libertà personale, della libera espressione delle opinioni, compresa la libertà di stampa e il diritto di riunione e associazione. In luogo di queste libertà, il decreto concede al Governo il controllo dei servizi postali e telefonici, la facoltà di perquisire le abitazioni senza preavviso e di confiscare proprietà private in nome della sicurezza dello Stato.

Mentre si procede al rastrellamento dei comunisti, alcune voci coraggiose si levano dai centristi per chiedere che il Governo promuova un’inchiesta obiettiva sull’incendio e restauri i diritti civili, senza esito. Così come senza risultato rimane la pubblicazione a Parigi del Libro nero: firmato da un gruppo di comunisti in esilio, il documento avrebbe lo scopo di raccontare la vera storia di come i nazisti hanno dato fuoco alla sede del loro stesso Governo; ma lavorando a distanza e senza il supporto di prove dirette, gli autori del libello non si fanno scrupolo di inventare delle «prove» del coinvolgimento di Göring e di altri esponenti di grado del Partito Nazionalsocialista, confondendo ancor più l’opinione pubblica all’estero. Non bisogna comunque dimenticare che i capi della polizia sono ancora quelli nominati dai precedenti Governi, e quindi le indagini non dovrebbero essere state alterate dai nazisti al potere.

Nel frattempo, gli uomini di Hitler procedono indifferenti per la loro strada. Göring, in particolare, diventa più arrogante nel vedere i comunisti guardati con sempre maggiore diffidenza dalla gente. Due giorni prima delle elezioni del 5 marzo, si rivolge alla folla con queste parole: «Camerati tedeschi, le misure che ho adottato non saranno invalidate da nessun tribunale. […] Io non devo preoccuparmi della giustizia. […] Questa lotta sarà una lotta contro il caos».

Il 22 marzo, tre settimane dopo l’arresto di van der Lubbe, i magistati della Suprema Corte di Giustizia dichiarano che «le indagini hanno dimostrato che il comunista olandese van der Lubbe […] poco prima dell’incendio fu in contatto con comunisti non solo tedeschi, ma anche stranieri». Aggiungono che queste altre persone sono state arrestate: si tratta di Ernst Torgler, esponente di punta parlamentare dei comunisti tedeschi, e tre Bulgari (tra cui il dirigente comunista G. Dimitrov). Due giorni dopo, Hitler è investito di pieni poteri: la maggioranza dei deputati comunisti e qualche socialdemocratico è già in prigione.

Il processo a carico degli incendiari (o presunti tali) si celebra dal 21 settembre al 23 dicembre sia a Lipsia che a Berlino, e sembra dar credito, in una certa misura, alle voci che sostengono l’estraneità dei comunisti dall’incendio: non si riesce a «montare» un caso contro Torgler o i Bulgari, né – nonostante la comparizione di molti testimoni a favore del Governo – a stabilire collegamenti diretti fra van der Lubbe e i quattro chiamati in causa; anzi, Dimitrov trasforma il dibattimento in un atto d’accusa contro il nazismo e riesce persino a far cadere Göring in alcune contraddizioni; durante il controinterrogatorio, che conduce per conto proprio, lo fa innervosire a tal punto da fargli perdere le staffe e proferire minacce di morte (Dimitrov sarà in seguito oggetto di uno scambio di prigionieri tra la Germania e l’Unione Sovietica).

Quanto a van der Lubbe, l’Olandese non manifesta alcun interesse nei riguardi della sua difesa. Fin dall’inizio confessa di essere stato lui ad aver appiccato il fuoco e non si muove mai da questa posizione. Pur essendo interrogato a lungo sulle motivazioni del suo gesto e sui suoi collegamenti, tutto quello che si riesce a fargli dire è di aver agito da solo, di essere stato lui ad appiccare tutti i fuochi all’interno del Reichstag e di essere impaziente di venir giudicato per il suo crimine.

Gran parte di coloro che osservano quell’individuo apatico, col capo chino, nella gabbia degli imputati, stentano a credere che abbia potuto agire da solo e in modo tanto rapido: oltre a essere mezzo cieco a seguito di un incidente accadutogli nell’infanzia, van der Lubbe si muove con difficoltà. Oltretutto, nelle rare occasioni in cui risponde alle domande che gli vengono rivolte, le sue spiegazioni risultano incoerenti e infantili; richiesto di chi lo abbia incaricato di appiccare l’incendio, insiste nell’affermare di aver agito su comando di voci interiori. In quanto al suo credo politico, non è in grado di dimostrare la sua appartenenza al Partito Comunista, a parte una breve esperienza in una «cellula» olandese quando aveva 16 anni.

Il difensore d’ufficio di van der Lubbe – che l’Olandese ha tentato invano di ricusare fin dall’inizio – dipinge un ritratto di barbone ribelle, un vagabondo mentalmente ritardato, che fin da bambino ha avuto problemi con la polizia; è portato ad agire impulsivamente in cerca di quel tipo di attenzione che l’essere arrestati comporta, non sa neppure lontanamente che cosa siano gli ideali rivoluzionari. Ma questo ritratto non convince del tutto: sottoposto a uno stringente interrogatorio circa la notte del 27 febbraio, van der Lubbe dimostra una notevole conoscenza di ogni dettaglio; quando la polizia gli fa ripercorrere tutti i passi che ha fatto per appiccare il fuoco, cronometrando i tempi, tutto viene a coincidere in modo perfetto. Usando una sostanza facilmente infiammabile e brandelli della sua giacca, una persona sola avrebbe potuto benissimo accendere tutti quei fuochi. Per quanto sia i nazisti che i comunisti preferiscano l’ipotesi dell’atto terroristico, è plausibile che questo strano giovane, disabile fisico e anche un po’ mentale, abbia potuto concepire e attuare un simile piano, a condizione di impegnarsi con tutte le sue energie.

La mancanza di prove determinanti costringe la Corte ad assolvere dall’accusa di complotto i quattro comunisti, che vengono immediatamente deportati. Van der Lubbe, che senza dubbio ha avuto qualche ruolo nell’incendio, è condannato a morte; dopo alcuni vani appelli di clemenza, il 10 gennaio 1934 la sentenza viene eseguita.

Anche se il caso si chiude ufficialmente con la morte di van der Lubbe, non si sono mai finite di avanzare ipotesi sull’incendio del Reichstag. La maggior parte ne vedono responsabili i nazisti. Il 5 aprile del 1933, alcuni operai che lavorano nei pressi di Berlino si imbattono in un cadevere insanguinato abbandonato in un fosso ai lati della strada: è quello del famoso chiaroveggente ebreo Jan Erik Hanussen, diventato negli anni Venti il beniamino dei capi nazisti per le sue predizioni, soprattutto preannunciando l’ascesa di Hitler; la sera del 24 febbraio 1933, tre giorni prima dell’incendio del Reichstag, aveva predetto che un grande edificio avrebbe preso fuoco, e questo sarebbe stato il segnale di una sorta di sommossa popolare; fu ucciso perché sapeva che i responsabili dell’incendio sarebbero stati i nazisti, o forse – sembra più probabile – perché aveva incautamente prestato a un ufficiale nazista una grossa somma di denaro? Parecchi imputati del processo di Norimberga per i crimini di guerra, dopo la Seconda Guerra Mondiale, hanno testimoniato che dietro l’intricata vicenda ci sia stata la mano di Göring: il Generale Franz Halder, capo dello Stato Maggiore Tedesco nei primi anni della guerra, ha ricordato come lo stesso Ministro degli Interni, a un ricevimento in onore di Hitler nel 1942, si sia vantato del ruolo avuto nell’incendio, dicendo che «l’unico a conoscere veramente i fatti riguardanti il Reichstag sono io, poiché sono stato io a dargli fuoco!» Stava dicendo la verità o si trattava solo di una delle sue proverbiali millanterie? Forse non lo sapremo mai. Nel 1959 William Shirer, all’epoca corrispondente di una grande agenzia di stampa statunitense in Germania, così ha descritto l’incendio del Reichstag: «Dal palazzo del Ministro dell’Interno, che allora era Göring, un passaggio sotterraneo, costruito per le condutture del riscaldamento centrale, portava all’edificio del Reichstag. Attraverso questa galleria, Karl Ernst, ex inserviente d’albergo divenuto capo delle SA [milizie del Partito Nazionalsocialista di Hitler] di Berlino, la notte del 27 febbraio aveva guidato un piccolo reparto di uomini dei reparti d’assalto nel Reichstag, dove essi sparsero benzina e sostanze chimiche autocombustenti, tornando poi rapidamente nel palazzo da cui erano venuti. Nello stesso tempo, un comunista olandese semideficiente che aveva una mania per gli incendi, Marinus van der Lubbe, era penetrato nel gigantesco edificio, da lui non conosciuto e immerso nell’oscurità; per conto suo aveva appiccato qua e là qualche fuoco. Per i nazisti, questo piromane semideficiente sembrò inviato dal cielo. Era stato fermato dalle SA un paio di giorni prima, essendo stato sorpreso mentre si vantava in un bar di aver tentato di dar fuoco a diversi edifici pubblici e diceva che prossimamente avrebbe tentato di incendiare il Reichstag». Si potrebbe anche ipotizzare (ma questa è una mia idea) che van der Lubbe sia stato convinto a fare quel gesto da emissari di Göring che si sono presentati a lui sotto le false spoglie di comunisti. Non è dato sapere quale di queste – o di altre – ricostruzioni sia quella vera, o quella più vicina alla verità. L’unico punto sul quale tutti gli storici concordano è che l’incendio del Reichstag contribuì notevolmente all’ascesa al potere del nazismo e la dura repressione del Partito Comunista e di ogni altra opposizione in Germania.


Bibliografia

AA.VV., Fiamme su Berlino, in «Enigmi della Storia», Selezione dal Reader’s Digest S.p.A., Milano 1993, pagine 359-363

AA.VV., Reichstag, in «Treccani – Dizionario di Storia», 2011

Jean-Baptiste Duroselle, La Repubblica di Weimar e l’ascesa di Hitler, in La Storia, volume 13, L’età dei totalitarismi e la Seconda Guerra Mondiale, De Agostini Editore S.p.A., Novara 2004, pagine 242-245

William L. Shirer, The Rise and Fall of the Third Reich, New York, 1959-1960, pagine 300-301.

(maggio 2022)

Tag: Simone Valtorta, l’incendio del Reichstag, 1933, Palazzo del Parlamento Tedesco, Dieta Imperiale Tedesca, Repubblica di Weimar, ascesa del nazismo, Partito Nazionalsocialista, Berlino, Karl Buwert, Helmut Poeschel, Alexander Scranowitz, Marinus van der Lubbe, Hermann Göring, Adolf Hitler, Terrore rosso, campi di concentramento, Thälmann, rivoluzione bolscevica, Paul von Hindenburg, Ernst Torgler, Dimitrov, Germania, Jan Erik Hanussen, processo di Norimberga, Franz Halder, William Shirer, Karl Ernst, SA.