Missionari italiani in Cina nella prima metà del XX secolo
Cenni storici del periodo e vicende di un gruppo di religiosi. Uno sguardo dall’interno

La Cina di oggi, ancora in balia di molte contraddizioni sia sul piano politico che culturale, è tuttavia considerata il Paese emergente che aspira alla leadership planetaria. Riflettere su che cosa fu il suo passaggio dal Celeste Impero ai regimi nazionalista e comunista aiuta a porre l’accento sulle reali dinamiche cui da subito tutto l’Occidente Cristiano dovette confrontarsi, a seguito delle trasformazioni politiche che la videro protagonista nel corso del XX secolo.

Ritengo rilevante prendere atto delle difficili situazioni vissute in quel periodo così particolare dai missionari di ogni colore, autentici testimoni dei cambiamenti epocali che visse quel Paese. Ho, per tale motivo, illustrato, partendo dall’esperienza di un padre missionario lucchese e dei suoi compagni di viaggio in Oriente, il coinvolgente percorso di alcuni di loro, quasi tutti di nazionalità italiana, che furono testimoni dall’interno di quegli avvenimenti. Le situazioni che li videro coinvolti riguardarono in specifico i territori dell’Hoi Fung e di Hong Kong, terre queste che più di altre si trovarono in prima linea in momenti successivi della storia cinese del XX secolo, fino all’avvento al potere dei comunisti, nel 1949. Si tratta unicamente di una fedele testimonianza, prescindendo da ogni osservazione politica in senso stretto, che richiederebbe una disamina approfondita dei controversi rapporti tra i vari regimi succedutisi in Cina ed il ruolo che le Missioni di ogni credo religioso ivi ricoprirono.

Uno dei missionari presenti nelle carte del PIME[1] è padre Raffaele Della Nina, figlio di Annibale e Rosalia Quartaroli, che nacque il 28 settembre 1904 a Rughi, nelle vicinanze di Porcari, in provincia di Lucca. Accostandomi alle sue vicende ho potuto prendere visione dell’intero contesto missionario in cui egli operò. Della Nina infatti, dopo la scuola elementare, entrò nel Seminario della sua città. Qui attese alla sua formazione spirituale e compì gli studi ecclesiastici, fino al 1928 quando, sentendosi chiamato alla vita missionaria, entrò nell’Istituto del PIME a Milano. Al momento in cui il giovane Della Nina fece domanda per essere accettato tra i membri del PIME, i superiori dell’Istituto chiesero, come era loro abitudine, informazioni di lui presso il Seminario di Lucca.

In data 24 settembre 1928 fu risposto: «Il seminarista Raffaele Della Nina è un ottimo elemento, e umanamente parlando ci dispiace della sua partenza. La sua condotta è irreprensibile, il carattere serio, soave, socievole, la sua pietà non lascia niente a desiderare… la sua volontà è quella dei superiori e quella di Dio…».[2]

Egli così, «entrato in Istituto, si preparò al sacerdozio e fu ordinato a Milano dal Cardinale Idelfonso Schuster il 19 aprile 1930; nel novembre dello stesso anno partì per la missione cinese per lavorare nella non facile terra di Hong Kong».[3]

Già qualche anno prima, precisamente «verso la metà del 1922, il quadro cinese si presentava deprimente. La Cina sembrava condannata a restare preda in perpetuo della rapacità dei “Signori della Guerra”, le cui avide mire erano incoraggiate dalle macchinazioni delle potenze straniere. La rivoluzione di Sun Yatsen nel 1911, con le sue speranze di rigenerazione nazionale, era servita solo a far precipitare il Paese in una situazione più miserevole».[4]

Gli storici non si sono risparmiati nella descrizione delle miserrime condizioni dell’ex Celeste Impero in quel periodo: «Le campagne cinesi erano percorse da orde di soldati, vagabondi in uniforme, senza disciplina o paga, che si arricchivano alle spalle della gente. Essi erano autorizzati a razziare, a rubare il frumento, ad uccidere senza incorrere in alcuna punizione. I proprietari terrieri si rifugiavano nelle città per sfuggire a questi disordini, lasciando sul posto amministratori incaricati di continuare a riscuotere i loro tributi. La rivoluzione cinese era diventata una confusione incredibile. La fuga delle ricchezze dalla campagna ed il prevalere di un banditismo ben poco diverso dalle estorsioni dei militari distrussero l’equilibrio delle campagne, portarono rapidamente alla miseria dei contadini e lasciarono nell’incuria le grandi opere di irrigazione e di drenaggio.

Inondazioni disastrose, una carestia senza rimedio, tranne i soccorsi dall’estero, la fine del commercio con l’interno del Paese, la disorganizzazione delle comunicazioni, tutto contribuiva alla rovina del vecchio ordine della società”.[5]

Il gruppo di religiosi dell’Hoi Fung, cui si unì padre Raffaele nel 1931 era guidato da padre Lorenzo Bianchi, futuro Vescovo di Hong Kong. Un quadro storico di riferimento si rende perciò necessario per comprendere l’esperienza missionaria di padre Raffaele e dei religiosi che con lui la condivisero.

Sin dal 1922 padre Bianchi fu responsabile della Missione di San Giuseppe, nel remoto distretto montano dello Hoi Fung, nel Guandong e svolse qui la sua missione religiosa. Nel medesimo periodo un altro straniero giunse in Cina, esattamente nell’ottobre del 1923, e collaborò ad alto livello al rafforzamento della rivoluzione nazionalista cinese, preparando la strada alla vittoria di un’altra rivoluzione, quella comunista.

Mikhail Borodin, questo il suo nome, inviato dal Cremlino presso il governo di Sun Yatsen a Canton; egli si presentò al Presidente Sun con queste frasi: «Sono venuto per mettermi a disposizione della rivoluzione nazionale cinese. Il vostro scopo è uguale al nostro: combattere l’imperialismo straniero. Quanto al comunismo in Cina, almeno per il momento non ne vedo l’opportunità».[6]

Tali affermazioni rassicurarono Sun Yatsen. La Russia non appoggiava il piccolo nucleo di comunisti cinesi, e Sun accettava aiuti militari e consiglieri sovietici.

Scrive in proposito Piero Gheddo: «Borodin non perse tempo: riorganizzò l’esercito nazionalista che, galvanizzato dal nuovo verbo rivoluzionario, rivelò subito una forza e una compattezza nuove, conseguendo vittorie folgoranti sui Signori della Guerra e sul debole governo di Pechino. Nel gennaio 1924 si votò l’annessione del Guomindang al Partito Comunista Cinese, fondato a Shanghai il 1° luglio 1921 da dodici rivoluzionari, fra i quali il ventottenne Mao Tze Tung.

Ebbe allora inizio un periodo di tolleranza verso i comunisti e si realizzò quanto Borodin aveva programmato: gli agitatori sovietici ed i membri del Partito Comunista Cinese precedettero e accompagnarono l’esercito nazionalista, rafforzando la presa del Partito sullo stesso e sulla popolazione, creando cellule di propaganda e di azione, organizzando processi e uccisioni di proprietari terrieri, di autorità mandarinali invise alla gente, campagne contro le religioni organizzate.

Così, mentre l’esercito nazionalista unificava la Cina attraverso l’azione militare e diplomatica, al suo interno i “Soviet” la bolscevizzavano. Sun Yatsen non fece in tempo ad accorgersi di questo pericolo: morì infatti il 12 marzo 1925 a Pechino, dove era andato per trattare un’intesa col “governo del Nord”. Se ne accorse invece molto bene il “Generalissimo” Chiang Kai Shek, che era stato educato a Mosca e poi messo da Borodin a capo dell’Accademia Militare di Whampoa, creata dallo stesso a Canton nel luglio 1924 e finanziata dai Sovietici, per formare i capi militari alla disciplina leninista del centralismo democratico. Consigliere militare dell’Accademia era il Generale Sovietico Vassili Blucher, commissario politico il Cinese Chu En Lai. Solo più tardi, nel 1927, Chiang Kai Shek, che era rimasto fervido nazionalista, per nulla comunista, e aveva nel frattempo preso il posto di Sun Yatsen, ebbe la forza sufficiente per assumere il controllo totale dell’esercito e del governo e rompere col Partito Comunista che diventò il nemico numero uno del suo progetto, che prevedeva una Cina unificata sotto l’insegna del nazionalismo, indipendente anche ideologicamente da ogni potenza straniera, URSS compresa.

L’ideologia del governo di Chiang Kai Shek conteneva i famosi Tre Principi (nazionalismo, democrazia, benessere per il popolo) di Sun Yatsen, che in nessun modo vennero in accordo col marxismo-leninismo d’obbedienza sovietica.

Il futuro Vescovo di Hong Kong e futuro compagno di missioni di padre Raffaele, ossia padre Lorenzo Bianchi, visse in quel travagliato periodo in quel distretto di Hoi Fung, non molto lontano dalla città rivoluzionaria di Canton, l’esperienza della bolscevizzazione delle campagne cinesi, sperimentata dapprima proprio nell’Hoi Fung e nel vicino Luk Fung e poi estesa, gradualmente, a tutta la Cina.

La vita dei missionari ivi presenti coincise con l’inizio del movimento comunista nelle campagne, acquistando importanza storica, anche da un punto di vista politico. […] Possiamo così notare che l’impronta iniziale di rivoluzione contadina, che avrebbe poi assunto il comunismo cinese venne, più che da Mao o da altri capi universalmente conosciuti, proprio da un uomo dell’Hoi Fung e del vicino distretto di Luk Fung, quel P’eng P’ai fondatore dell’Unione Contadini.

Verso la fine del 1923, P’eng P’ai si iscrisse al Partito Comunista e portò in esso la sua organizzazione contadina, già ben diffusa nell’Hoi Fung e nel vicino distretto di Luk Fung,[7] e ciò proprio quando, iniziando la collaborazione fra i nazionalisti del governo di Canton e i comunisti, a questi ultimi si aprì la strada dell’agitazione sociale in città e nelle campagne, sotto la protezione del Fronte Unito del Guomindang. Nel 1924 P’eng P’ai diventò segretario del “Dipartimento Rurale” del Guomindang e dette inizio a Canton alla scuola per l’addestramento di propagandisti rurali, che nel 1926 sarà Mao stesso a dirigere.

Nazionalisti e comunisti avevano lo stesso interesse nelle campagne: minare il potere dei latifondisti e dei grandi proprietari, che sostenevano i Signori della Guerra e il governo di Pechino, rappresentante l’ordine antico e la Cina Imperiale. Così nelle campagne del Kwan Tung, e specialmente nei distretti di Hoi Fung e Luk Fung, i comunisti realizzarono in quegli anni (1924-1927) cioè fino alla rottura dell’alleanza fra il Guomindong e il Partito Comunista Cinese, l’unico esperimento di agitazione politica dei contadini e le uniche Repubbliche Sovietiche Rurali.

La missione che accolse in quegli anni padre Raffaele era stata investita poco tempo prima del suo arrivo da quelle vicende rivoluzionarie dell’Hoi Fung alle quali possiamo far risalire la prima esperienza di padre Lorenzo Bianchi con i bolscevichi».

«Alla fine del 1925 ci furono manifestazioni anticristiane nei principali centri della regione […]. Le prime rivolte contadine e tentativi di creare dei “soviet” nelle campagne furono volti anche contro le religioni e le missioni, che crearono violente reazioni nei grandi proprietari locali e nelle forze militari e politiche del Guomindang.

L’estate 1925 vide una campagna anticomunista nell’Hoi Fung con terribili vendette contro i “rossi” che vennero presi. Il Generale Chung Ching T’ang assunse i pieni poteri per purgare i villaggi nello stile imperiale antico. Egli proclamò che era meglio ammazzare mille comunisti per sbaglio che lasciarne uno solo in vita.

Padre Bianchi e i suoi collaboratori si sentirono solo spettatori; sembrò loro di ritornare dalla Russia bolscevica all’antica Cina, e che il tempo non fosse ancora maturo per l’accettazione del comunismo.[8] Ma la repressione anticomunista passò presto. Nel quadro della collaborazione tra il Guomindang e il Partito Comunista Cinese, pur condannandone gli eccessi, il governo di Canton fu costretto a lasciar correre.

Nel 1926 i due distretti di Hoi Fung e Luk Fung conobbero un intenso movimento di politicizzazione, da parte dell’Unione Contadini e del Partito Comunista Cinese: nei villaggi nacquero ovunque gruppi di studenti, di donne, di pescatori, di artigiani, mercanti, contadini. Si convocarono comizi, la gente si abituò a parlare, a far valere i propri diritti. L’Unione Contadini riuscì a far ridurre gli affitti delle terre del 25 ed anche del 40% […].

Nel settembre del 1926 lo stesso Mao condusse gli studenti della scuola di animazione rurale di Canton per quindici giorni fra le montagne dell’Hoi Fung per un’esperienza di rivolta agraria, sotto la direzione di P’eng P’ai. Nel marzo 1927 su 850 villaggi ben 340 avevano una sede locale per il Partito Comunista Cinese e in ogni villaggio c’era una cellula del Partito. Tutto questo lavoro sfociò poi nelle rivolte contadine del 1927 e nella prima Repubblica Sovietica […].

Le missioni si sentirono escluse dalla partecipazione a questo “nuovo ordine”, che fece della lotta contro le superstizioni religiose una bandiera. La Chiesa Cattolica, diretta da missionari italiani, venne presa di mira nelle manifestazioni contro gli stranieri e l’imperialismo delle grandi potenze.

Nel corso del 1926 cappelle e residenze missionarie furono requisite, le scuole chiuse.

Padre Bianchi scrisse al Vescovo di Hong Kong, monsignor Enrico Valtorta, chiedendogli di intervenire presso il governo di Canton per ottenere la restituzione del maltolto. Interessare il governo si era già rivelata una buona mossa in passato, ma monsignor Valtorta era pessimista: egli pensava che le autorità cinesi volessero stancare i preti cattolici e costringerli ad andarsene, come già avevano fatto con i protestanti. Nel 1927, due rivolte dirette dall’Unione Contadini e dal Partito Comunista Cinese locale dell’Hoiluk Fung scoppiarono improvvise e non programmate: dal 20 aprile al 9 maggio e dal 17 al 25 settembre. Sebbene soffocate nel sangue, esse indicarono che i tempi stavano maturando per la conquista del potere da parte dei comunisti.

Anche se il 1927 fu l’anno della rottura fra Chiang Kai Shek e il Partito Comunista Cinese, e quindi segnò l’inizio della caccia al comunista, nell’Hoi Fung fu l’anno del trionfo dei comunisti e dell’Unione Contadini. Il 23 settembre il Comitato Centrale del Partito approvò un piano per instaurare nell’Hoi Fung e nel Luk Fung un governo comunista. Cambiò così la linea politica generale, che dava fiducia alla Cina rurale per la rivoluzione nazionale e la conquista del potere. Il 18 novembre 1927 ad Hoi Fung si tenne il primo congresso dei soviet che avevano occupato i distretti di Hoi Fung e di Luk Fung, creando ufficialmente un governo sovietico della regione, posto sotto il controllo del Comitato Speciale del Partito per il fiume dell’Est, di cui P’eng P’ai fu il segretario generale.

Il governo comunista dell’Hoiluk Fung, che durò dal 20 novembre 1927 al marzo 1928 si caratterizzò per quello che gli storici chiamano “terrore rosso”.

Negli ultimi mesi del 1927 venne occupato anche il villaggio cristiano di San Giuseppe dove si trovavano i missionari padre Lorenzo Bianchi, padre Robba ed il padre cinese Wong, mentre ad Hong Kong, nel Natale del 1927, si era sparsa la voce della cattura di tutti i religiosi della regione. Monsignor Valtorta al riguardo interessò il governatore inglese che spedì un cacciatorpediniere a Swabue, col Vescovo e un sacerdote cinese, padre Chang, a bordo. Il governatore inglese aveva prima interessato del fatto il governo rivoluzionario di Canton, il quale rispose che considerava l’insurrezione comunista dell’Hoi Fung come semplice atto di brigantaggio.

Il 27 dicembre, al mattino, la nave da guerra si presentò all’ingresso del porto di Swabue, mentre il Vescovo, monsignor Valtorta, chiedeva di non bombardare la città […]. Tre mesi dopo, nel marzo 1928, l’esercito nazionalista aveva ripreso il potere nell’Hoi Fung ed allora i missionari italiani rientrarono in città […].

Nella regione il terrore rosso e la repubblica dei soviet finirono nel marzo 1928, con altrettanta rapidità di come erano nati. Dopo il marzo 1928, quando i tre sacerdoti che erano riparati ad Hong Kong (padre Robba, padre Wong e padre Bianchi) ritornano alle loro residenze, i rossi erano ormai stati cacciati sui monti. La situazione nei centri principali si andava normalizzando, come scrisse del resto padre Lorenzo Bianchi, ma tra le montagne era ancora viva la guerriglia rossa e i pericoli non mancarono».[9] Questa digressione storica aiuta a comprendere la condizione generale delle missioni al momento in cui padre Raffaele Della Nina fece il suo ingresso in Cina nel 1931 da giovane missionario, raggiungendo padre Lorenzo ed i suoi collaboratori.

«Per il sottoscritto fu più che un fratello», scrisse di lui il futuro Vescovo di Hong Kong, padre Lorenzo Bianchi. Monsignor Valtorta (allora Vescovo di Hong Kong) «ci chiamava – egli riferì – “i due inseparabili”».

Per dare un’idea delle fatiche di un missionario nell’Hoi Fung di quel tempo bastino queste poche righe del diario di monsignor Bianchi, risalenti al 1929: «Una giornata campale: due estreme unzioni a Kong P’eng e a San Giuseppe: andata e ritorno, sotto la pioggia, 120 chilometri in bicicletta, con strade infami […]». Nel 1932 un avvenimento tragico: l’assalto dei bolscevichi al villaggio di San Giuseppe il 12 luglio, in cui venne barbaramente torturato e ucciso il servo di padre Bianchi. Ecco i fatti narrati dal futuro Vescovo: «Una decina di bolscevichi cercarono di catturare alcune donne del paese mentre attendevano al lavoro dei campi, appena fuori le mura. Si dette l’allarme, una trentina di giovanotti, armati alla meglio corsero in aiuto alle donne. Ma ecco che mentre lottavano per strapparle dalle mani dei predoni, già abbastanza distanti dal paese, 150 altri comunisti sbucarono alle loro spalle armati di tutto punto…».

Il racconto di padre Bianchi è drammatico, con molti particolari: «Lotta furibonda, altri Cristiani accorsero in aiuto. Finalmente tutti riuscirono a tornare a San Giuseppe, con un morto ed un ferito; Paolo [il servo di padre Lorenzo], cadde nelle mani dei rossi». Ed ancora: «Il piano era stato concertato per far entrare gli assalitori nel villaggio in pieno giorno. Sarebbe stato un massacro di Cristiani ed il sottoscritto e padre Della Nina sarebbero caduti nelle loro mani. Ma il piano fallì per il coraggio disperato dei nostri giovani. Gli anni scorsi non sarebbero state possibili queste imboscate, perché l’autorità era severissima nel punire il paese che nascondeva i rossi. Così la situazione si fece davvero critica per un paese di contadini, che dovevano lavorare i campi per vivere. I campi lontani dal villaggio rimasero incolti; fu una perdita di almeno 500 tam di riso per un villaggio già tanto povero. Molte famiglie dovettero presto lasciare il paese, scacciate tanto dal bolscevismo, quanto dalla fame, non avendo una difesa sufficiente per avventurarsi a coltivare i campi vicini ai paesi che già dettero due volte rifugio ai bolscevichi».[10]

«La fine del bolscevismo nell’Hoi Fung si dovette ad un Generale di divisione, quando ordinò di setacciare i monti e le foreste, oltre che di dare a tutti i “ribelli” l’indulgenza plenaria dei loro crimini. Chi si presentò prima del 10 luglio 1933 al Generale, confessò i suoi misfatti, se ne dichiarò pentito e giurò odio al bolscevico, potette ottenere il perdono scritto e venne lasciato andare in pace […].

Gli anni dal 1934 allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale furono i più tranquilli per la Cina del Sud, nonostante la guerra con i Giapponesi al Nord e al Centro. Si poteva viaggiare anche da soli […]. Tornata la pace padre Bianchi ed i suoi visitarono tutti i Cristiani della zona, specie quelli più lontani da San Giuseppe, che non ricevevano la visita dei missionari da cinque o più anni.

“Non tutti furono degli eroi” – scrisse padre Bianchi –. “Io non ho osato rivolgere loro parole di biasimo. L’autorità degli uomini ha accordato facilmente il perdono ai bolscevichi rei dei più gravi delitti […]. Ho provato durante questa visita le consolazioni più care del mio ministero sacerdotale…”.

In quell’anno 1933, padre Lorenzo ed i suoi collaboratori ricevettero da Shanghai, da qualche organismo centrale della Chiesa Cattolica di Cina, “un magnifico formulario, ma per loro quasi inutile”. Erano infatti richieste le statistiche precise della missione dell’Hoi Fung: quante chiese, quante cappelle, quante scuole, quanti dispensari. Padre Lorenzo si accontentò di rimandare il formulario con le sole cifre dei Cristiani e dei catecumeni, perché “non era rimasto nulla di tutto quel che c’era stato in precedenza”. Aveva egli due miserabili scuolette in tutto il distretto, una delle quali dovette chiuderla perché gli mancarono le sovvenzioni. Eppure la scuola era importante, anzi necessaria, “lo capisco anch’io”, – riferì il religioso».[11]

Giunsero in quegli anni nuovi sacerdoti nell’Hoi Fung. Tre Cinesi, padre Paolo Lau, padre Felix Shek e padre Joseph Cheung; e tre Italiani: padre Antonio Zago, padre Raffaele Maglioni e padre Luciano Aletta, quest’ultimo a lungo attivo in Hong Kong.

«La nostra vita in quegli anni – ricordò ancora monsignor Bianchi – era di grande affiatamento con i Cristiani, tanto generosi e amanti dei loro padri. Padre Della Nina ed il sottoscritto eravamo sempre in giro, a piedi o in bicicletta, per le poche strade e sentieri […]».

I metodi «apostolici» di padre Lorenzo e di padre Della Nina non erano fatti per attirare la stima dei non Cristiani. I due religiosi, missionari del loro tempo, erano inseriti in una mentalità e metodologia missionaria che oggi giudicheremmo inadeguata. In una corrispondenza del 1933, padre Bianchi descrisse l’accoglienza di due villaggi che ricevettero il battesimo: padre Lorenzo e padre Della Nina, con i loro «zelanti» catechisti, demolirono a picconate i loro «polverosi idoli» con la «cara immagine della Madonna».

La distruzione di pagodine buddhiste a picconate non sarebbe certo un metodo missionario difendibile oggi.[12] Ma comprenderne il contesto storico diventa indispensabile per capire il comportamento dei due missionari.

«In tutta la mia vita nell’interno della Cina (1923-1952) – scrisse all’epoca padre Lorenzo – ho avuto solo cinque o sei anni di pace! E se aggiungiamo tifoni, inondazioni, colera, questi anni di pace e di tranquillità diminuiscono ancora…». A questo aggiungiamo che la loro formazione prevedeva una completa catechizzazione dei territori che si apprestavano a convertire.

Nel 1937 poi il Giappone invase la Cina; incominciò la guerra cino-giapponese, che continuò fino al 1945. I Giapponesi sbarcarono anzitutto a Shanghai, molto lontano dall’Hoi Fung, ma tutti gli Italiani furono subito sospettati, specie dall’anno seguente, quando si firmò l’«Asse Roma-Berlino-Tokyo», di cui i missionari non sapevano assolutamente nulla.

La politica li rese sospettati di essere spie del governo italiano e quindi in qualche modo d’accordo con i «diavoli stranieri», i Giapponesi conquistatori e colonizzatori.

Padre Zago, nel suo diario dattiloscritto racconta in proposito un episodio gustoso: «I soldati cinesi venivano spesso da noi per appurare se eravamo spie della nostra patria. Un giorno capitarono da padre Bianchi due ufficiali con l’ordine di ispezionare la sua casa. Io ero là, padre Bianchi aveva fatto in tempo a mettere in salvo sul tetto della casa la macchina fotografica e il binocolo, che gli servivano per tenere d’occhio eventuali movimenti di briganti verso la montagna, dietro la residenza. I soldati, girando per la casa, trovarono una macchinetta per mettere i tappi alle bottiglie, con treppiede. Si meravigliarono e chiesero perché lì si trovasse questo strumento di guerra. Padre Bianchi sorrise e prese una bottiglia e un tappo per far vedere loro come lo strumento funzionava. Ma essi non si accertarono della verità. Per i soldati si trattava del treppiede di una mitragliatrice; perciò lo requisirono e lo portarono via».

L’8 dicembre 1941 il Giappone invase anche Hong Kong, non dalla parte del mare come già gli Inglesi si attendevano e si erano preparati a contrattaccare, ma dalla parte della terra. I missionari nei distretti cinesi rimasero completamente tagliati fuori dal centro della diocesi. I Giapponesi infatti non si preoccuparono di conquistare l’interno della Cina Meridionale, che lasciarono al governo nazionalista di Chiang Kai Shek. A loro bastava avere le grandi città, i porti, le zone industriali.

I missionari dell’Hoi Fung, visti come «alleati» dei Giapponesi e «nemici» dei Cinesi, furono messi ancor più sotto stretto controllo. Radunati tutti assieme al villaggio di San Giuseppe «con un picchetto di soldati che vegliavano su di loro perché non scappassero» – scrisse all’epoca padre Bianchi.

Dopo un po’ diventarono amici e quando volevano recarsi a casa dei missionari, affidavano a questi i loro fucili.

I sei missionari italiani (Bianchi, Della Nina, Robba, Maglioni, Aletta e Zago) rimasero totalmente isolati da Hong Kong e senza aiuti, né dall’Italia né dal loro Vescovo. Dalla fine del 1941 all’aprile del 1943 essi fecero vita comunitaria al villaggio al San Giuseppe, ma nell’aprile del 1943, dato il pericolo che i Giapponesi si apprestassero a invadere anche l’Hoi Fung, retroterra agricolo di Hong Kong, giunse l’ordine del governo cinese di trasportare i padri verso l’interno della Cina.

I sei missionari italiani partirono, accompagnati da un Americano, quattro ufficiali e sei soldati cinesi come scorta. Camminarono sette giorni a piedi, una media di 40-45 chilometri al giorno. Una notte si fermarono da un missionario americano di Maryknoll, padre Murphy, che dette loro provviste per i giorni seguenti. Finalmente giunsero alla città di Ka-in, ai confini col Fu Kien, dove il Vescovo Americano, monsignor Ford, morto in carcere nel 1950, li attendeva.

Egli si fece garante presso l’autorità che i missionari italiani non sarebbero scappati, così ottenne di ospitarli presso il locale Seminario, evitando loro la caserma che, come notò padre Zago, «era peggio di un carcere in Italia».

In Seminario a Ka-in i sei missionari rimasero dall’aprile del 1943 fino alla fine della guerra, cioè più di due anni, rendendosi utili per l’insegnamento. Padre Bianchi insegnava teologia e filosofia, a padre Zago toccò insegnare il greco e il latino. Per il latino pazienza, qualcosa ancora ricordava, ma del greco – disse egli stesso – «ricordavo a mala pena l’alfabeto».

Il rettore del Seminario fu comunque irremovibile: «Per voi Europei è facile imparare e insegnare il greco». «Così» – raccontò ancora padre Zago – «attaccai con l’alfabeto e andai avanti. Mi proposi d’insegnare in latino […]».

Nell’agosto 1945 la bella notizia: la guerra era finita, i missionari italiani vennero liberati! Il Vescovo li chiamò dicendo loro di ritornare alla precedente missione e li ringraziò per quanto avevano fatto fino a quel momento. Partirono, e in quattro giorni di viaggio avventuroso, a piedi, in barca, in autobus, dormendo sul pullman o dove capitava, arrivarono nell’Hoi Fung.

«I Cristiani ebbero molto a soffrire negli anni scorsi – scrisse per l’occasione padre Lorenzo – per la carestia e l’occupazione dei Giapponesi. La mia casa a San Giuseppe la trovai quasi distrutta; tutto era stato usato dai Giapponesi come legna da ardere. Per un po’ rimasi senza domestico: per mangiare andavo in casa di Cristiani, ero ormai abituato alla loro brodaglia di patate».[13]

Nel gennaio 1946 padre Bianchi andò ad Hong Kong. Qui la popolazione era ridotta a mezzo milione, Inglesi e Americani internati. Dopo la guerra Hong Kong risorse rapidamente dalle distruzioni. In pochi anni passò da mezzo milione a due milioni nel 1949 ed a tre nel 1952, a causa anche dei molti profughi che giunsero dalla Cina.

Padre Lorenzo, quando tornò nell’Hoi Fung, vi trovò ancora una situazione stagnante, di povertà, d’insicurezza. La Cina stava nuovamente precipitando nel caos e nella miseria. Mentre nella colonia inglese di Hong Kong e in quella portoghese di Macao iniziava un periodo di vera pace e di rapido progresso economico-sociale, il grande corpo continentale della Cina non riuscì ad esprimere un governo stabile; anzi, con sempre maggior chiarezza si andò accendendo una nuova guerra civile. Questa volta non più contro i «Signori della Guerra» o il «debole governo dei Generali di Pechino», ma fra nazionalisti e comunisti, cioè le due forze che avevano fatto, assieme, la Cina moderna e repubblicana.

Ma andiamo per gradi. La situazione politica, del resto, sempre rimasta incandescente, richiede un’analisi accurata delle questioni che si posero sul tappeto, sin dalla lunga guerra contro il Giappone (1937-1945), combattuta dal governo nazionalista di Chiang Kai Shek, alleato di Inglesi e Americani. Il Generale aveva posto la sua base nell’interno della Cina, nello Sic Huan.

I comunisti di Mao si erano attestati più a Nord, a Yanan, nello Shaanxi ed i due governi e regimi cinesi, nazionalista e comunista, furono uniti in qualche modo contro l’occupante giapponese, ma divisi su tutto il resto. I comunisti accettarono di partecipare ad alcune battaglie in prossimità della loro sede centrale, sotto la guida di Generali nazionalisti, per ricevere aiuti dagli Americani durante tutta la guerra ed anche dopo, ma per il resto agirono liberamente, infiltrandosi con l’agitazione e la propaganda (agitprop) nelle zone occupate dai Giapponesi e anche dai nazionalisti, per creare i loro gruppi, punire i collaborazionisti con l’invasore, suscitare l’attesa della rivoluzione sociale e della riforma agraria che cambieranno il volto della Cina.

Durante la lunga guerra cino-giapponese, mentre il governo e l’esercito di Chiang Kai Shek, riconosciuti sul piano internazionale come legittimi rappresentanti del Paese, si accollarono il peso della guerra e dell’amministrazione delle regioni non raggiunte dai Giapponesi, i comunisti di Mao, che erano ritenuti in America «rivoluzionari della riforma agraria», ebbero campo libero per l’infiltrazione ideologica.

Sin da «dopo la conquista dello Shanxi da parte dei Giapponesi – scrive lo storico Melis[14] – nel novembre 1937, i reparti comunisti, invece di essersi schierati sulla linea arretrata del fronte, lungo il confine Shanxi-Shaanxi, si erano infiltrati nelle zone sguarnite delle retrovie degli invasori giapponesi, dando l’avvio alla formazione di nuove basi rivoluzionarie.

L’invasione giapponese era divenuta da subito l’occasione per il rilancio della rivoluzione in termini di controllo territoriale. Negli anni seguenti le basi avevano conosciuto una crescita esponenziale, fino a diventare una quindicina nel 1944. Il Partito Comunista Cinese nelle stesse aveva esteso in quel periodo il proprio controllo, anche a spese delle “basi bianche”, mantenute dal governo nazionalista di Chiang Kai Shek alle spalle dell’esercito giapponese. Le truppe di Mao le attaccarono e le eliminarono. I reparti comunisti guadagnarono così terreno anche ai margini del fronte, fra le truppe nazionaliste e i Giapponesi.

Il governo di Chiang Kai Shek, rifugiatosi a Chongqing, era riuscito a prendere qualche contromisura. Ne nacquero innumerevoli incidenti».[15]

Terminata la guerra col Giappone dunque, si presentò il problema di stabilire chi comandava in Cina. Il governo nazionalista di Chiang Kai Shek affermò subito la sua autorità su tutto il Paese, cercando di ripristinare ovunque le normali forme amministrative. Ma durante il decennio d’invasione giapponese parte del territorio cinese era passata sotto il controllo dell’Armata Rossa e dei guerriglieri del Partito Comunista Cinese, che aveva guadagnato molto peso e simpatia in tutta la Cina e reclamava il riconoscimento di un ruolo paritario accanto a quello del Guomindang.

Già a Natale del 1945 giunse a Chongqing il Generale Georges Marshall, inviato del Presidente Americano Truman per tentare una mediazione fra nazionalisti e comunisti. Il 10 gennaio 1946 giunsero in effetti alla firma di un accordo di tregua fra il Guomindang ed il Partito Comunista Cinese, che aveva tenuto solo qualche mese. In pratica, a partire dal 1946 si era scatenata in tutta la Cina la guerra civile fra i due governi e regimi, che cessò solo il 1° ottobre 1949 con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese a Pechino e l’occupazione di Taiwan da parte del governo nazionalista, autoproclamatasi rappresentante di tutta la Cina.[16]

Padre Lorenzo Bianchi con i suoi missionari, quando all’inizio del 1946 era ritornato nell’Hoi Fung, dopo la sua visita ad Hong Kong, con gli aiuti ricevuti e che avevano cominciato a giungere dall’Italia e dalla Santa Sede, aveva ripreso la sua normale esistenza, cioè come in tempo di pace. Intanto anche nell’Hoi Fung erano ricomparse le «milizie rosse», ma questa volta in modo ben diverso dagli anni Venti. Non si era trattato più di un movimento comunista rivoluzionario, sanguinario, antireligioso; ma di un movimento che si diceva rispettoso delle proprietà private, delle religioni, delle autorità locali e delle tradizioni. Fu una tattica usata in questi anni dai comunisti in tutta la Cina per darsi un’immagine di ordine, di disciplina, di moderazione, di fronte a tutto il mondo.

La Cina, invasa da giornalisti, consiglieri tecnici e militari, soprattutto americani, giunti per aiutare questo immenso Paese a ritrovare l’unità di governo, la pace interna, un cammino ordinato di progresso, nel momento in cui i comunisti di Mao si presentavano, negli anni 1946-1949, come riformisti che volevano una riforma agraria, non come rivoluzionari. È noto che l’URSS dell’immediato dopoguerra, e fino alla fine della guerra civile, ebbe relazioni amichevoli col governo nazionalista di Chiang Kai Shek e, anche se aiutava i comunisti di Mao, non mostrò mai di contare unicamente su di essi. Gli Americani avrebbero invece voluto un compromesso, un governo di coalizione; tentarono all’inizio questa soluzione, aiutando ambedue le parti in causa, ma visto il fallimento della loro mediazione, il 29 gennaio 1947, tornato in patria il mediatore George Marshall, si disinteressarono della Cina e non inviarono più alcun aiuto.

Nell’Hoi Fung i missionari videro proprio allora giungere le avanguardie dell’Armata Rossa e le trovarono «non più anticristiane». Anzi, si mostrarono gentilissimi con loro, non dettero fastidio e una volta che requisirono, ad esempio, la chiesa di San Giuseppe per sistemarvi duecento soldati rossi, il mattino dopo la restituirono a padre Bianchi pulitissima. Non avevano i missionari mai visto tanta educazione in militari e in comunisti. Ma si trattava in verità di una tattica per la conquista del potere; tattica comunque che permise ai missionari di vivere in discreta tranquillità per qualche anno.

«I maggiori capi comunisti della regione andavano spesso da padre Lorenzo Bianchi a bere il tè e richiedevano i loro servizi come infermieri. Con i pochi medicinali che riuscirono ad avere a disposizione, ricevuti da Hong Kong o acquistati al mercato, i missionari curarono non pochi comunisti feriti, salvandone alcuni anche dalla cancrena, o ammalati e malarici. Il comandante supremo dell’esercito rosso della regione diede a padre Lorenzo una sua lettera di ringraziamento e di riconoscimento, con ampie promesse che, quando avessero conquistato il potere, egli sarebbe stato onorato: nessuna di queste promesse fu in seguito mantenuta».[17]

Dal 1° ottobre 1949 la Cina diventò ufficialmente la Repubblica Popolare Cinese. In quel giorno Mao Tze Tung proclamò a Pechino, dalla loggia della Tienanmen, la nascita della Cina Popolare, mentre i nazionalisti ancora resistevano a Canton, che cadrà il 15 ottobre, poi a Chongqing, il 29 novembre e a Chengtu il 9 dicembre. Chiang Kai Shek, in rotta di fronte all’Armata Rossa, fuggì a Taiwan, portandosi dietro due milioni di profughi, tra cui gli alti quadri del Guomindang, che assunsero nell’isola i pieni poteri in nome di tutto il popolo cinese, di cui si ritenevano gli unici legittimi rappresentanti.

A Pechino la Repubblica Popolare Cinese fu guidata dalla Costituzione Provvisoria varata pochi giorni prima dalla conferenza politico-consultiva del popolo cinese, che definì la Repubblica Popolare Cinese «uno Stato socialista di dittatura proletaria, diretto dalla classe operaia e basato sull’alleanza operaio-contadina». Nella Cina popolare, anche se la libertà di culto era formalmente garantita, le religioni entrano presto in rotta di collisione con lo Stato totalitario e di rigida impostazione ideologica. Nell’estate 1948 il Vescovo di Hong Kong, monsignor Enrico Valtorta, accompagnato da padre Riccardo Brooks (missionario italiano del PIME), visitò i Nuovi Territori di Hong Kong e i distretti che dipendevano dalla diocesi nell’interno della Cina. Qui fu accolto con grandi manifestazioni di gioia, dopo sedici anni in cui non aveva potuto recarvisi, a motivo delle difficili situazioni politiche. In quel viaggio, monsignor Valtorta si rese conto che doveva nominare un suo Vescovo coadiutore con diritto di successione, in previsione anche di non poter più in seguito recarsi nelle regioni cinesi, che stavano cadendo una dopo l’altra sotto il dominio dei comunisti. Visitando i vari sacerdoti cinesi e missionari italiani, chiese a tutti una terna di nomi fra i quali scegliere il suo coadiutore. Venne scelto unanimemente padre Lorenzo Bianchi. Quest’ultimo non prevedeva certo la sua nomina a Vescovo. Egli riteneva che un Vescovo della scintillante e cosmopolita metropoli di Hong Kong avrebbe dovuto essere qualcuno della città, più brillante di lui, più inserito nel mondo inglese, con titoli maggiori dei suoi. Fu lui il successore designato da monsignor Enrico Valtorta. Prima però di divenire Vescovo subì, con i suoi compagni missionari, la prigionia.

In quegli anni padre Raffaele Della Nina si era recato in Italia per curarsi, ma il suo pensiero rimase sempre rivolto alla Cina. Egli dichiarò infatti apertamente: «I comunisti e la loro ondata rossa che stanno invadendo il territorio cinese non mi fanno paura e sono disposto a tutto pur di fare il missionario di Cristo. Cercherò di non lasciarmi acciuffare e lavorerò per neutralizzare l’azione sovversiva dei nemici, con la speranza di far conoscere loro l’amore di Cristo» e ripartì per Hong Kong dove incontrò tante difficoltà e contraddizioni.[18]


Le difficili dinamiche della prigionia del gruppo missionario di riferimento. La Cina di ieri e la Cina di oggi

Una volta giunto nuovamente in Cina, nel 1951, padre Raffaele venne imprigionato, assieme allo stesso valoroso gruppo di missionari, ancora capeggiato da padre Lorenzo Bianchi. Del gruppo di prigionia fecero parte, oltre lui, monsignor Bianchi, padre Aletta, padre Pagani ed il sacerdote cinese Giovanni Wong. Dopo l’arresto subirono lunghi interrogatori, furono costretti ad alloggiare, sotto stretta vigilanza, in un hotel. Le spese del vitto ed alloggio erano a carico dei missionari. Non era permesso ai prigionieri di celebrare Messa, di comunicare con l’esterno sia per scritto che per telefono, erano invitati a staccarsi da Roma ed aderire al clero nazionale cinese. Dagli scritti del padre Della Nina risulta che nessuno si arrese e tutti rimasero fedeli al Vangelo. Gli incidenti avvennero quando i Giapponesi invasero Hong Kong.

La rivista del PIME «Le Missioni Cattoliche» riferì che in quell’epoca furono imprigionati molti missionari di quell’Istituto. La conferma ai contenuti di un articolo della rivista missionaria la troviamo nei diari che padre Della Nina scrisse, ricordando che tra gli arrestati c’erano appunto anche monsignor Bianchi, padre Robba, padre Maglioni, padre Aletta, padre Zago, padre Wong, oltre ad altri catechisti e Cristiani Cinesi. Alcuni di questi testimoni della fede furono messi in carcere, altri invece furono obbligati a vivere in un accerchiato albergo isolati da tutti.[19]

La prigionia dei missionari durò fino al 1952.[20]

La descrizione tratta dal diario di prigionia dei padri Della Nina, Aletta e Pagani del PIME di Hong Kong del 10 giugno 1952 fu pubblicata nella rivista missionaria del PIME «Cronache di vita missionaria».

Essa bene illustrò la complessità del momento storico. I suoi contenuti, da soli, sono testimonianza di una vicenda sia storica che umana davvero rilevante: «Trascorsi appena otto giorni dalla consacrazione episcopale, monsignor Bianchi, con i padri Aletta, Pagani ed il sacerdote cinese padre Giovanni Wong si imbarcò a Stanley su di una giunca cinese a vela, la sera del giorno 17 ottobre 1949, diretta a Swabue, nell’Hoi Fung. Il viaggio, durato ben otto giorni, fu veramente avventuroso. In condizioni ordinarie e con vento favorevole, sarebbero potuti giungere in un sol giorno. La sera del 24 giunsero sani e salvi nella piccola baia di Ma Kiong, a tre ore di distanza da Swabue. Giulivi per gli scampati pericoli, prima di toccar terra, seppero che tutta la zona era ormai nelle mani dei rossi. Furono momenti di terribile trepidazione, data l’incertezza dell’accoglienza che avrebbero ricevuto. Grazie a Dio, tutto andò bene. Si sentirono incoraggiati e, da Ma Kiong, su due barchette a remi si diressero a Swabue, ove giunsero prima della mezzanotte.

I padri cinesi rimasti sul luogo e i Cristiani che già avevano saputo della loro partenza da Hong Kong, erano in grande apprensione per il misterioso ritardo e già temevano che fossero “andati ai pesci” o che fossero stati trattenuti dai rossi. A Swabue poterono sbarcare e recarsi alla loro residenza senza alcun inconveniente. Il giorno dopo si presentarono alla nuova autorità, ed il capo locale, ben conosciuto e beneficato in altri tempi – per lui tristi – da monsignor Bianchi, li assicurò che, in forza del principio comunista della libertà di religione, avrebbero potuto continuare indisturbati il loro apostolato come prima della liberazione. Ripresero perciò la loro vita ordinaria, ma nel contempo iniziarono subito ad intensificare il lavoro di organizzazione in ogni villaggio fra i Cristiani, in previsione di future lotte, che in realtà si aspettavano dietro l’angolo.

Lavorarono indisturbati nel loro lavoro apostolico fino alla festa dell’Immacolata del 1950. Durante quell’anno l’unico fatto degno di nota fu il ritorno di padre Della Nina che, dopo diciotto anni di lavoro nell’Hoi Fung, per ragioni di salute – nel 1948 – era stato rimpatriato. Tornato in Hong Kong nel dicembre del 1949, aveva trovato la situazione completamente cambiata. Nessun Europeo poteva entrare in Cina; a nessuno straniero era permesso varcare la “cortina di ferro”. Ciononostante, e contro ogni speranza sia del Vescovo, monsignor Valtorta, sia dei confratelli di Hong Kong, padre Della Nina tentò di raggiungere il suo antico distretto, ed il 23 gennaio 1950 potette sbarcare a Swabue, senza inconvenienti.

Immensa la gioia di monsignor Bianchi e dell’intero gruppo nel vederlo. Ma con la festa dell’Immacolata cominciarono le dolenti note. Si trovarono tutti nel villaggio cristiano di San Giuseppe, ove venne celebrata la grande festa con Pontificale ed uno straordinario concorso di Cristiani, convenuti dai villaggi dei vari distretti. I religiosi erano, in quel momento, veramente soddisfatti. Ma purtroppo già in quell’occasione dovettero accorgersi che l’autorità comunista cominciava ormai a manifestare apertamente sentimenti ostili verso di loro.

Fu il padre Aletta a subire il primo sentore del nuovo atteggiamento delle autorità. All’indomani della festa, egli si recò a visitare la cristianità di Sao-Kang, ove già era atteso per una gara catechistica. Giunto sul luogo si presentò a lui il capo comunista locale con l’intimazione di non muoversi senza previo ordine. L’indomani fu costretto in questura da un poliziotto e di là accompagnato all’ufficio centrale di polizia. Tutto questo motivato dal pretesto che padre Aletta era uscito abusivamente dalla propria residenza, senza i dovuti permessi.

Quantunque manifestamente innocente, egli fu obbligato a firmare una carta ove si riconosceva colpevole. Liberato, ritornò alla sua residenza; ma appena giuntovi, un altro poliziotto lo condusse alla questura locale in attesa, per molte ore, di ulteriori spiegazioni. Subì alla sera un terzo minuzioso interrogatorio, e fu costretto a firmare una ulteriore carta che ne sanciva la reclusione nella propria residenza.

Il 6 febbraio 1951 fu la volta del padre Pagani. Si era recato, con i dovuti permessi, al villaggio di San Giuseppe ove risiedeva monsignor Bianchi; tornando, fu fermato a metà strada dai poliziotti con la scusa che il di lui permesso non era in regola. Dopo un breve interrogatorio della polizia sul luogo di cattura, fu condotto alla polizia centrale, distante venticinque chilometri, costretto a viaggiare a piedi, così che giunse con i piedi gonfi e sanguinanti. Fu tenuto in prigione due giorni, ammanettato, finché, dopo un interrogatorio di cinque ore, costretto a riconoscere per iscritto il proprio torto, fu accompagnato da un poliziotto alla propria residenza. Per istrada, previa disposizione della polizia, fu assalito da guardie locali, percosso gravemente ed insultato. Giunto poi in residenza malconcio, lui pure ricevette l’intimazione di non uscire dai limiti del villaggio. Nel frattempo anche il Vescovo e padre Della Nina, nonché i padri cinesi, ricevettero il medesimo ordine di non muoversi dal proprio posto.

Senza altri inconvenienti, giunsero al giovedì santo, 23 marzo 1951. In questo giorno, Vescovo e padri ricevettero ordine di presentarsi l’indomani alla polizia centrale dell’Hoi Fung per una semplice registrazione. La mattina del 23 ognuno, ignaro che il medesimo ordine fosse stato comunicato agli altri, partì per Hoi Fung, e così nel pomeriggio si ritrovarono nelle aule della polizia. Furono mandati allora in una misera stamberga cinese con l’ordine di non muoversi, e rimasero ivi due giorni, all’oscuro di ogni cosa, in attesa di disposizioni. Fortunatamente, avendo ognuno di loro portato un po’ di vino da Messa e ostie, in previsione di possibili sorprese, il giorno di Pasqua, nottetempo, poterono avere la consolazione di celebrare la Santa Messa, naturalmente senza paramenti ed usando una tazzetta da tè, per calice. La sera dello stesso giorno un poliziotto li avvisò di preparare il denaro per il viaggio fino a Wai-Chou, località distante da Hoi Fung 180 chilometri e poi fino a Hong Kong. Ricevuto quest’ordine si convinsero che sarebbero stati espulsi dal territorio cinese. La mattina del 26 un poliziotto li accompagnò alla stazione degli autoservizi e fece loro prendere posto su una vettura, piena zeppa di giovani comunisti che durante tutto il percorso intonarono canti patriottici. Il viaggio fu orribile, sia per la pessima strada, rovinata dalle piogge, sia per i posti ove sedevano. Il poliziotto di guardia aveva loro ordinato di non muoversi senza previo permesso, altrimenti minacciava di aprire il fuoco. Sul far della sera arrivarono a Wai-Chow e furono condotti alla polizia. Qui, dopo aver dato a ciascuno quattro fogli da riempire, i poliziotti permisero loro di raggiungere la chiesa di quel loro distretto, dove arrivarono come ospiti inattesi, accolti festosamente da due padri cinesi, padre Mae e padre Chou e da padre Cantore. Dopo cena, con l’aiuto dei padri cinesi, lavorarono fin verso mezzanotte per riempire i moduli che dovevano essere presentati l’indomani mattina. Il giorno 27, cambiamento inaspettato di scena: mentre cenavano, un poliziotto ordinò loro di seguirli e li condusse tutti e quattro in una piccola stanza con due letti, nelle vicinanze della polizia. Questo luogo fu la loro abitazione per quattro giorni, durante i quali ognuno di loro subì un lungo e dettagliato interrogatorio. Richieste specifiche furono fatte ai padri su come pensavano il loro futuro, essendosi ormai convinti, dopo quanto appreso nell’Hoi Fung, di essere sulla strada dell’espulsione.

Monsignor Bianchi, a nome di tutti, chiese le modalità per ottenere l’immediato rimpatrio. Permisero loro di ritornare alla chiesa, coll’obbligo di non muoversi e fatta assicurazione che non avrebbero posto in essere contro di essa le pratiche necessarie. Passarono settimane e mesi nel silenzio assoluto, senza alcuna risoluzione, e finalmente, a seguito di ripetute loro istanze, fu comunicato che dovevano ritornare a Hoi Fung, ove l’autorità competente avrebbe provveduto al loro rimpatrio».[21]

Il giorno 26 agosto fecero ritorno ad Hoi Fung, sperando di essere giunti alla fase definitiva della loro odissea, che durò invece altri nove mesi, i quali furono nove mesi di reclusione.

Sulle vicende successive ai nove mesi di reclusione di padre Della Nina, che conosco personalmente, posso documentare che egli venne espulso immediatamente dalla Cina dopo questa difficile esperienza e, ritornato in Italia per riacquistare un po’ di salute, accettò l’incarico di padre spirituale degli aspiranti missionari per l’Istituto del PIME, situato a Treviso. Mantenne quella mansione per dieci anni ma, una volta peggiorate le sue condizioni di salute, fu mandato a Genova dove il clima gli era più propizio e qui destinato alla casa apostolica di Sant’Ilario Ligure.

Ivi rimase fino alla morte, esplicando il suo mandato. Sull’editoriale lucchese «Esare» e sul quotidiano fiorentino «La Nazione» apparve il 25 maggio 1965 un breve ed edificante suo testamento spirituale, che trascrivo per intero: «Sono nato e vissuto povero. Non ho beni di famiglia di cui disporre. Ho depositato presso il padre Rettore di questa Casa (Genova) una piccola somma di denaro che vorrei fosse usato per celebrazioni di Sante Messe a mio suffragio e per riparare ad intenzione di Messe che avessi tralasciato. Se qualche parente chiedesse un ricordo delle mie cose personali, vedete se è possibile soddisfarli. Chiedo perdono dei cattivi esempi che ho dato» (Fr. P. Raffaele Della Nina). Inutile dire che la bella figura sacerdotale e missionaria di padre Della Nina è rimasta impressa nella mente di molti sacerdoti e laici lucchesi.[22]

Le vicende di padre Bianchi, ormai Vescovo di Hong Kong, e ciò sino al 1969, quando venne incaricato un religioso locale di sostituirlo, sono piuttosto note. Non altrettanto quelle dei restanti padri, che almeno personalmente non conosco. Ma ad unirli certamente l’immensa passione per i contatti umani e la pietà religiosa che li pervase.

L’Asia di oggi è stata indicata dal Santo Padre nell’enciclica Redemptoris Missio come il continente verso cui dovrebbero orientarsi principalmente le missioni. Infatti in Asia vive il 60% dell’umanità e l’85% di tutti i non Cristiani, mentre i Cattolici sono appena 105 milioni, di cui la metà è concentrata nelle Filippine e sedici milioni in India. Le sfide delle missioni sono grandi e di varia natura: politiche, ideologiche, culturali e naturalmente religiose, non ultimo economiche e sociali. In ogni caso si tratta di questioni e rapporti irrisolti e rilevanti.

In Cina, a partire dal 1957, il governo costituì l’«Associazione Patriottica Cattolica Cinese», creata con l’appoggio dell’Ufficio degli Affari Religiosi della Repubblica Popolare Cinese, con lo scopo di controllare le attività dei Cattolici in Cina. Questa viene indicata come «Chiesa ufficiale» in contrapposizione alla «Chiesa sotterranea» costituita dal clero e dai fedeli. L’«Associazione Patriottica Cattolica Cinese» non ha rapporti ufficiali con la Chiesa Cattolica. La Cina e il Vaticano non hanno relazioni diplomatiche dal 1951, da quando la Santa Sede ha riconosciuto Taiwan. In Cina le istituzioni governative eleggono dunque propri Vescovi. A partire da Papa Pio XII, che con l’enciclica Ad Apostolorum Principis condannò tale pratica, tutto è rimasto com’era ed a tutt’oggi la situazione non è affatto cambiata. Periodicamente viene richiesto, da parte cattolica, il rispetto della libertà religiosa, unito ad una autentica regolamentazione giuridica dei reciproci rapporti. Ma, come avviene in ogni settore della vita politica cinese, una deregolamentazione generalizzata sta alla base della sua stessa immensa crescita, soprattutto produttiva. È evidente che gli inascoltati richiami della Chiesa avrebbero dovuto essere accompagnati da una più incisiva spinta di tutto l’Occidente industrializzato ad un progressivo inserimento del continente cinese in un’ottica di reciprocità, quasi sempre assente. La disamina del fallimento di tale prospettiva riguarda dunque laici e religiosi, credenti e non credenti. E si tratta di un difficile capitolo del nostro odierno percorso politico.


Note

1 PIME – Si tratta dell’Istituto Missionario per le Missioni Estere.

2 «Il Vincolo del PIME», Roma, numero 550.

3 Remo Baronti, Lucca Missionaria, Lucca, 1999, pubblicazione realizzata in Curia a Lucca in occasione dell’anno giubilare del 2000, pagina 213.

4 H. Mc Aleavy, Storia della Cina moderna, Milano, Rizzoli, 1969, pagine 268-269.

5 F. Schurmann e O. Shell, Cina tremila anni, Roma, edizioni Casini, pagine 302-303.

6 Borodin, eccezionale personalità di organizzatore e di rivoluzionario, vedere Piero Gheddo, Lorenzo Bianchi di Hong Kong, Novara, De Agostini Editore, 1988, pagina 64.

7 Dei due distretti di Hoi Fung e di Luk Fung viene denominata la prima «Repubblica Sovietica» in Cina: Hoiluk Fung (in lingua cantonese) e Ha-Lu-Feng (in lingua mandarina).

8 Frasi di padre Lorenzo Bianchi in «Le Missioni Cattoliche», 1° dicembre 1925.

9 Piero Gheddo, citato, pagine 71-87.

10 Lorenzo Bianchi, Un nuovo tentativo contro il villaggio di San Giuseppe, in «Le Missioni Cattoliche», 23 ottobre 1932.

11 Piero Gheddo, citato, pagine 88-93.

12 Ibidem, pagina 95.

13 Ivi, pagine 99-103.

14 G. Melis, F. De Marchi, La Cina contemporanea, edizioni Paoline, 1979, pagina 1069.

15 Ibidem.

16 Descrizione delle tattiche che vennero usate dai comunisti cinesi per la conquista del potere ed il controllo delle popolazioni si trova nel volume Nella terra di Mao Tse Tung (L’Arnia editore, Roma, 1951) scritto dal missionario del PIME padre Carlo Suigo, testimone oculare nella regione centrale dell’Honan. Si veda anche la biografia di padre Suigo, Nel cuore della Cina (Bologna, EMI editore, 1985) di Livio Mondini.

17 Piero Gheddo, citato, pagina 110.

18 Missionari del PIME, padre Della Nina, Milano, febbraio 1996, in Lucca Missionaria, di Remo Baronti, citato, pagina 213.

19 «Le Missioni Cattoliche», Milano, PIME, pagine 231-232, settembre 1952.

20 Remo Baronti, citato, pagina 214.

21 Remo Baronti, citato, pagina 214.

22 Da «Le Missioni Cattoliche», quindicinale del Pontificio Istituto Missioni Estere, anno 81, numero 17, 1° settembre 1952, pagine 231-235.

(novembre 2012)

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