I Maestri «silenziosi» di quella gioventù italiana che fece l’Unità nazionale
Accademia letteraria Pino, una costola del circolo letterario Vieusseux

Si è appena concluso l’anno dedicato ai festeggiamenti per il 150° dell’Unità nazionale e molto si è detto, soprattutto di quei personaggi considerati, non a torto, essenziali nel determinare le fasi cruciali del nostro Risorgimento. Ma esistono fatti e situazioni definite «minori» e individui talvolta dimenticati dalla storia, anche a causa del «tempo giustiziere e come tale talvolta spietato», che nel corso della loro esistenza furono forieri di novità e contenuti vibranti per la costruzione di un’epoca che li vide, in qualche modo, protagonisti. Tra questi certamente il Piemontese Gioacchino De Agostini.

Nato a Torino nel 1808 e deceduto a Vercelli nel 1873 il Cavalier Professor De Agostini, dopo aver preso i voti ed essersi dedicato all’insegnamento di grammatica superiore e lingua greca in vari collegi comunali piemontesi, passò al Regio Liceo di Vercelli, diventando il preside dell’Istituto.[1]

In quegli anni cruciali, in Piemonte, per la formazione del Regno costituzionale, che vanno dal 1830 al 1848, De Agostini si diede sia all’erudizione che al giornalismo, scrivendo prima sul «Messaggero Torinese» di Angelo Brofferio e successivamente fondando suoi giornali di stampo patriottico.[2] Alcuni documenti lo vedono in prima linea come docente di uomini che fecero il Risorgimento, altri lo mettono in luce, apparentemente solo per motivi culturali, per i suoi contatti con eminenti studiosi del tempo, fra i quali lo storico sabaudo Luigi Cibrario,[3] Massimo d’Azeglio, Alessandro Manzoni,[4] padre Francesco Calandri e, più tardi, Ferdinando Martini,[5] per citarne solo alcuni.

Egli fu inoltre al centro di coinvolgimenti politici di stampo rivoluzionario, al momento solo parzialmente documentabili e, da direttore del suo giornale, «Il Vessillo d’Italia», sostenitore negli anni Cinquanta del XIX secolo della politica cavouriana.

Nella sua famiglia[6] si contano una moglie, Adelaide Galli Dunn, sposata nel 1849, una volta dismesso l’abito talare, nata a Londra nel 1833, protestante fino al momento del suo matrimonio col De Agostini; rapporti di stretta parentela con la famiglia Arpesani di Milano, che ebbe un ruolo attivo nel corso del nostro lungo Risorgimento; un padre somasco, Giuseppe Galli.[7]

I padri somaschi furono strenuamente impegnati sul piano socio-politico anche in Lugano, crocevia di patrioti di ogni colore. Da qui proveniva l’ex rettore ed amico di De Agostini, il citato Calandri, in stretti rapporti anche con Alessandro Manzoni, prima di entrare a far parte della comunità religiosa somasca di Vercelli.

Di fronte ad un quadro tanto articolato un’osservazione regna sovrana: il personaggio in questione è stato del tutto dimenticato dalla storiografia locale e nazionale, quando avrebbe avuto, vista anche l’ampia bibliografia al suo attivo, tutti gli elementi per venir nel tempo confutato e valorizzato.

Sorte analoga, e coinvolgimenti politici tra due ambiti territoriali diversi della Penisola, per un Lucchese, Matteo Pierotti,[8] che ha in comune col nostro le origini cattolico-liberali, e i relativi contatti politici tra i rispettivi éntourages di provenienza. La comunione tra i due la possiamo intravvedere anche nel successivo passaggio di entrambi, dopo il 1848, verso quella che al tempo veniva definita «adesione» ai valori dell’Unità nazionale.

Matteo Pierotti, pur avendo studiato nel seminario della sua città, non prese i voti e si dedicò sin da giovanissimo all’attività politica, esponendosi in prima linea in sommovimenti, anche di stampo mazziniano.

Ebbe contatti serrati con numerosi esponenti della Toscana liberale che lo omaggiarono con la loro amicizia e solidarietà nel momento del bisogno. Venne infatti arrestato e subì la detenzione nel carcere lucchese perché sospettato, erroneamente, d’aver organizzato un attentato al Duca Carlo Lodovico di Borbone. Riabilitatosi, vista l’infondatezza delle accuse, una volta caduto il piccolo Regno, riprese la sua instancabile attività politica, fino a divenire deputato al Parlamento toscano nel 1859. Egli educò il figlio Giovanni, più celebre del padre, ai suoi valori e quest’ultimo, dopo essere stato studente con Giosuè Carducci, fu suo amico e seguace, anche sul piano letterario.[9]

Ma Matteo Pierotti viene ricordato in particolare per l’amicizia col conterraneo Antonio Mordini, garibaldino, membro della Società Nazionale e prodittatore siciliano ai tempi della spedizione dei Mille. È rimasta una lettera inviatagli dallo stesso dalla Sicilia e consultabile all’Archivio di Stato lucchese,[10] in cui il prodittatore non mette affatto in buona luce i Siciliani, descrivendoli con frasi che rivelano l’impreparazione e l’inadeguatezza della spedizione, senza nulla togliere però a quell’afflato leggendario che essa dovette suscitare nei contemporanei e non solo nella storiografia immediatamente successiva agli eventi.

Si trattò, sia nel caso del De Agostini che del Pierotti, di uomini desiderosi di cambiare realmente le sorti del loro Paese. Di Cattolici divenuti liberali e più tardi «trasformisti», dando a questo termine un’accezione positiva, che purtroppo noi contemporanei non sappiamo più cogliere.

Quella positività non ci appartiene più. All’epoca si poteva essere Cattolici e collaborare coi protestanti per una causa comune, che in quel frangente era abbracciare la modernità, senza incorrere necessariamente in scomuniche ufficiali, là dove si riusciva, come nel caso dei nostri, a restare «in bilico», senza cadere, per il bene della patria. E non certo per opportunismo, dal momento che i Cattolici liberali come loro furono solo dei vinti, che non ebbero né cercarono alcuna facilitazione politica e/o economica. Morirono quasi sempre in miseria, omaggiati al momento del decesso con orazioni funebri degne di nota e poi dimenticati.

L’aspetto più interessante, che scaturisce dall’analisi dei contesti politici in cui attivamente sia De Agostini che Pierotti furono coinvolti, è la stretta collaborazione «interregionale», in situazioni spesso diametralmente opposte che, visti i documenti rinvenuti, possiamo non solo ipotizzare, ma cogliere.[11]

De Agostini era in corrispondenza con un sacerdote vicino agli ambienti in cui Pierotti visse ed operò,[12] e lo rimase a lungo, a riprova che il dietro le quinte, soprattutto del nostro primo Risorgimento, rischiò di divenire un guazzabuglio politico ma anche una fucina di idee ed azioni.

A lungo il regionalismo venne considerato quasi un’ancora di salvataggio, l’unico mezzo per migliorare le sorti del Paese. Quando si presentò l’opportunità di un cambiamento di rotta, di concentrarsi su un più ampio contesto politico, si seppe in taluni casi (i nostri lo fecero) abbracciare questa ulteriore possibilità, zoppa, come quella che si verificò, ma certa nella realizzazione.

Gli uomini appartenenti o che gravitarono intorno al circolo di monsignor Clemente Pino[13] a Torino (il De Agostini fu certamente uno di quelli) ebbero ampia corrispondenza col gabinetto Vieusseux di Firenze, il cui fondatore, peraltro protestante e ginevrino di origine, fu anche collaboratore del Cattolico liberale Gino Capponi, con cui l’entourage di Pierotti era a sua volta in corrispondenza.[14] Il carteggio dello stesso Lorenzo Valerio rende piena testimonianza delle relazioni di allora tra il Piemonte e la Toscana liberali.[15]

Un discorso questo, che si fece ampio fin dal momento in cui ci si pose come obiettivo, proprio a partire dagli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo, di ricostruire sul piano ideale mondi che spesso erano divisi e «l’un contro l’altro armati», valorizzando quei tratti culturali che seppero interagire in un vortice di eventi. È il caso del gabinetto fiorentino Vieusseux e del gabinetto torinese Pino, sopra citato, valido tentativo quest’ultimo, soprattutto sul piano politico, di emularlo. Si cercò, proteggendo e valorizzando una comune matrice culturale, di sovrastare e in qualche modo governare le divisioni politiche. Ecco allora che le osservazioni che scaturiscono dall’analisi dell’operato del gabinetto Pino ci introducono in questo mondo fatto di interazione e fluidità politica.

In Piemonte uomini come i fratelli Valerio, Costantino Nigra, Quintino Sella furono amici e compagni di studi. C’è una nutrita corrispondenza tra il De Agostini e il Sella che suggella, ancora negli anni Sessanta del XIX secolo, l’antica amicizia tra l’ex studente e l’ormai vecchio professore. In alcuni tratti questa amicizia, per i toni e l’affetto, commuove.[16]

Il riuscire a calarsi in situazioni familiari e vicine ad un concreto vissuto aiuta a percepire che, se il Risorgimento non fu sempre un autentico movimento di popolo, rappresentò di fatto il popolo nella sua accezione più ampia; quantomeno quelle novità europee legate ad un generalizzato cambiamento economico e sociale, che investì, dove più marginalmente, dove meno, anche la nostra Penisola. Particolarmente conosciuto è il gabinetto Vieusseux con le sue vicende,[17] meno note ma altrettanto significative le esperienze condotte nell’Accademia letteraria di monsignor Pino, a Torino; ancor più significanti rispetto al circolo letterario Vieusseux sul piano politico, rappresentando di gran lunga un’esperienza votata ad una reale proposta di cambiamento, se visto in prospettiva.

Scrive Luigi Rocca, patriota, membro dell’Accademia e compagno di Luca Cordero di Montezemolo, Costantino Nigra, Lorenzo Valerio, Domenico Buffa, solo per citare alcuni dei più noti membri del gabinetto: «Volgeva l’anno 1832; Carlo Alberto, malgrado le mene dei partigiani della Santa Alleanza, i quali temevano, non a torto, le generose aspirazioni di lui, era succeduto da poco tempo al Re Carlo Felice, e quantunque già sino da quei giorni egli cercasse di migliorare le condizioni del Regno affidato alle sue cure, pur tuttavia da prepotenti ragioni costretto a procedere oltremodo cauto nella esecuzione dei suoi progetti, poco assai, e in principio anzi quasi nulla faceva per favorire l’istruzione e lo sviluppo delle intelligenze, intantoché per parte della setta gesuitica, o apertamente, o con celate arti, si macchinava senza posa per mantenere il popolo nella più crassa ignoranza. E si fu appunto in quel torno che l’operoso canonico Clemente Pino, animato dal desiderio di favorire i buoni studi allettando la gioventù con variate esercitazioni, immaginava, di concerto col canonico Denegri, di fondare a proprie spese e in casa sua un’Accademia Letteraria.

Né fu poca cosa per certo. Ché mentre il Governo si opponeva ad ogni riunione di cittadini, contrario gli si appalesava per anco l’Arcivescovo Fransoni, avverso sistematicamente ad ogni idea di progresso, come il dimostrava in varie circostanze, e singolarmente nell’osteggiare, benché invano, l’istituzione del Ricovero di Mendicità e delle Scuole Infantili. Ma già in tale circostanza veniva ad appalesarsi l’animo del Re, il quale, mentre nel sommo delle cose favoriva il partito dominante, talvolta ancora mostrava alcune velleità, dirò così, di liberalismo […]. Per suo espresso ordine impertanto venne accordato dal Ministero dell’Interno il consenso a quelle riunioni, coll’obbligo di dover rinnovare ogni anno la domanda, attenendosi a tutte le prescrizioni che sarebbero emanate in proposito».[18]

È ben vero che «quanto agli argomenti che [ivi] si potevano trattare, ben è chiaro che si vietavano assolutamente tutti quelli che potessero avere uno scopo politico, e medesimamente quanti accennassero direttamente a dottrine contrarie ai principii della religione cattolica. Largo campo rimaneva tuttavia aperto nella parte scientifica e letteraria, nel quale spaziarono efficacemente i soci con molteplici letture, alternando le più serie con quelle di amena letteratura, cosicché e le scienze fisiche e morali, e gli scritti di materie civili e di molti egregi uomini, ebbero assai eloquenti interpreti […]».

Pur tuttavia gli «eloquenti interpreti» cui Rocca si riferisce, spaziarono dalla cerchia mazziniana,[19] agli ambienti cattolico-liberali,[20] a quelli strettamente democratici[21]. L’Accademia torinese si sciolse nel 1840, causa la prematura scomparsa del suo fondatore; rimasero comunque vivi in Piemonte lo spirito e l’azione di quei ragazzi che nei «maestri della gioventù italiana» avevano trovato valido sostegno per le idee e le iniziative politiche da seguire.


Note

1 Troviamo traccia di Gioacchino De Agostini in un carteggio tra lo stesso e Quintino Sella che la Fondazione Sella-Biella mi ha gentilmente fornito, risalente agli anni Sessanta del XIX secolo.

2 Si tratta del «Carroccio di Casale Monferrato», fondato dallo stesso nel 1848 con Luigi De Marchi, Carlo Cadorna, fratello del generale e Pier Dionigi Pinelli, tutti membri, questi ultimi del gabinetto di Monsignor Pino, a Torino.

3 Lettera inedita di Luigi Cibrario a Gioacchino De Agostini del 1833 contenuta nella pubblicazione del 1871 dei fratelli Guglielmoni di Vercelli dal titolo Il conte Luigi Palma di Cesnola, console italiano a Cipro. Le rovine archeologiche a Roma e gli scavi a cura del senatore Rosa. Tale pubblicazione è rintracciabile alla Biblioteca Palatina di Roma.

4 Dal carteggio di Massimo d’Azeglio a cura di Guido Quazza, edito presso il centro Studi Piemontesi (periodo 1825-1848).

5 Ode in onore delle nozze di Gioacchino De Agostini scritta da padre Calandri nel 1849, edizioni Guglielmoni, Vercelli.

6 Si possono presumere, viste le origini ed il contesto, legami con i fondatori dell’attuale celebre casa editrice.

7 Fascicolo Sella-De Agostini, Fondazione Sella-Biella, citato.

8 Archivio di Stato di Lucca, Carte Pierotti.

9 Ibidem.

10 Ibidem.

11 Gioacchino Prosperi, La Corsica e i miei viaggi in quell’Isola, Bastia, tipografia Fabiani, 1844. Ed ancora Ersilio Michel, Esuli italiani in Corsica, edizione Cappelli, Bologna, 1938.

12 Gioacchino Prosperi (Lucca, 1795 – ivi, 1873).

13 Monsignor Clemente Pino, canonico, fondò in Torino un’Accademia letteraria ufficialmente nel 1834, Accademia che sopravvisse sino alla sua morte, avvenuta sempre in Torino nel 1840.

14 Giuseppe Pierotti, pittore (nato a Castelnuovo Garfagnana nel 1827 – deceduto nel 1884); ed ancora Agostino Pierotti, scrittore, che pubblicò negli anni Quaranta un testo sulle religiose di Rivarolo Canavese e sulle inondazioni di Pieve Santo Stefano. L’ingegner Rodolfo Pierotti (Lucca, 1845 – 1909), eroe a Goito nella Seconda guerra d’Indipendenza e deputato in Parlamento fino al suo decesso, era in corrispondenza con tali ambienti fiorentini, in particolare con Giosuè Carducci. Vedi Archivio di Stato di Lucca, alla voce «Rodolfo Pierotti».

15 Lorenzo Valerio, Carteggio (1825-1841), a cura di Guido Quazza, Torino, edizione Einaudi, 1991.

16 Fascicolo Sella-De Agostini, fondazione Sella-Biella, citato.

17 Fondato in Firenze dal banchiere ginevrino Gian Pietro Vieusseux nel 1819, in collaborazione col marchese Gino Capponi, fu sciolto nel 1833, ma riprese qualche anno dopo le pubblicazioni in «Nuova Antologia», attualmente edita in collaborazione con la fondazione di Giovanni Spadolini. Il Gabinetto Vieusseux rappresenta ancora oggi, con la sua instancabile opera culturale, un pilastro scientifico-editoriale del nostro Paese.

18 Accademia Letteraria Pino, Estratto dalle Curiosità di Storia Subalpina, volume III, puntata XI (città di Voghera, Biblioteca comunale, miscellanea, scaffale 06.45.III), 1909.

19 Umberto Levra, L’opera politica di Costantino Nigra, Bologna, Il Mulino.

20 Ibidem.

21 Ibidem.

(aprile 2012)

Tag: Elena Pierotti, maestri, Unità, Risorgimento, Ottocento, Italia, accademia letteraria Pino, circolo letterario Vieusseux.