Niccolò Bettoni
Un tipografo tutto genio e sregolatezza, vissuto a cavallo tra XVIII e XIX secolo

Nel nostro Paese molte sono le figure storiche, talvolta pressoché dimenticate, che hanno dato lustro con la loro attività alle questioni politiche e/o culturali e sociali della Penisola. A volte, come in questo caso, chi si è proposto come innovatore è stato al tempo stesso incapace di uscire dalle maglie di comportamenti incongruenti, dovuti anche a vicende politiche che nel nostro Paese hanno sempre molto condizionato l’operato dei più grandi artisti. Così i posteri debbono spesso prendere atto della loro genialità ma anche della limitata efficacia nel tempo dell’opera profusa.

Niccolò Bettoni ne è certamente un valido esempio. Grande spirito imprenditoriale, egli divenne tra XVIII e XIX secolo ed in breve tempo uno dei più valenti tipografi italiani. Sostenne infatti la pubblicazione di opere divenute nel tempo classici della nostra letteratura, per poi cadere in disgrazia, avendo voluto strafare senza tener conto adeguatamente dei tempi e del valore commerciale dell’impresa posta in essere. Una vecchia pubblicazione[1] sul suo conto, che ho rintracciato recentemente, ce lo mostra il 21 aprile 1834, ormai vecchio tipografo «della Patria nascente», scrivere mestamente da Parigi, dove viveva di fatto esiliato per i suoi dissesti economici, a Francesco Orioli[2]: «Voi certo non avete dimenticato che non ha guari, parlandovi di me, non mi nascondereste come qui m’avessi perduta la confidenza di parecchi e notevoli Italiani, e che il mio nome, tacendo, se n’andrebbe altamente compromesso». Poi, dicendosi crudelmente calunniato, promettendo sue pubbliche difese, presentava quattro lettere scritte in Patria [Venezia] nel 1829, nelle quali narrava egli stesso la combattuta sua vita. Il suo biografo Federico Odorici nel XIX secolo ce lo presenta come «un infelice che avrebbe forse pareggiato col più celebre tipografo parmense Bodoni[3], «se gli fosse arrisa l’eguale fortuna». Nato in Portogruaro il 24 aprile 1770 da Giovanni ed Angiola Zanon, figlia del ricco industriale del settore tessile ed autore di scritti economici Antonio Zanon, moriva solo e sconsolato a 72 anni il 18 novembre 1842, in quella immensa Parigi «dov’altri nostri e sventurati ingegni, disperando degli uomini e del cielo, ebbero chiusa la stanca loro vita». L’agiatezza e l’amore del padre gli valsero una completa educazione che sembra volesse terminare da sé nella biblioteca di famiglia, se non che, forse più delle cure paterne, gli valsero quelle di uno zio. Compiuti i suoi studi in Seminario a Portogruaro, iniziò a frequentare la facoltà di giurisprudenza di Padova, ma soltanto per un anno. I tempi agitatissimi che si trovò a vivere «lo sbalestravano qua e colà».

Sui diciotto anni lo troviamo in Verona, nel vortice degli affari, anche di natura amministrativa. Presente all’ultimo sfacelo e al triste dramma della terra veneziana, schernita prima, e poi venduta, fu rimandato dalle autorità veneziane ad Udine presso il vincitore, perché facesse da moderatore con la Francia per Venezia. Ma ritornati poco dopo gli Austriaci (1799), povero economicamente «ma ricco dell’affetto dei suoi concittadini, se ne tornò a Portogruaro, nel seno della domestica tranquillità».

La pace non era per lui. D’anima irrequieta, lasciato il padre giungeva in Brescia, e divenuto qui segretario della prefettura, iniziò a rendere sin d’allora al vecchio Bodoni un importante servizio. Dopo tale esperienza, abbandonato quel posto, assunse quello di direttore della tipografia dipartimentale di Brescia e parve allora trovare la sua dimensione professionale. Riuscì con la sua inventiva e la sua professionalità a rinnovare quella importante istituzione iniziando la sua nobile carriera, che in poco tempo lo fece diventare in Lombardia il più accorto e capace tipografo del tempo. Così come in Parma splendeva il Bodoni nella medesima arte.

Nel 1807, ascritto all’Ateneo milanese, vi lesse pochi cenni sulla vita proprio del Bodoni, con cui aveva intrattenuto ottimi rapporti d’amicizia.

Il nostro divenne esso stesso un autore, e ci lasciò in tal modo «gli scritti suoi vivacissimi, di molto acume e di non facile disinvoltura». Ne sono esempio le succose lettere sull’Alceste dell’Alfieri; alcune vite di Italiani illustri; la «Farfalla», giornale di lettere, arti e teatri; le lettere tipografiche e le Mémoires biografiques (scritte queste ultime nel 1805 e tradotte nel 1806 a Parigi in italiano).

Qualche nitida ed elegante edizione giungeva nel 1806 al Torriceni, Prefetto del dipartimento milanese, avendo l’anno prima stampato, fra le altre cose, il Sallustio tradotto dall’Alfieri, ed un magnifico Senofonte; ed il Guilton, nel periodico ufficiale faceva gli elogi dell’edizione del Corniani, mentre l’Aldini e il Di Breme lo facevano di quelle che il Bettoni, come valente rappresentante della tipografia bresciana, mandava ai Ministeri italici, fra i quali si distingueva allora La spada di Federico II, di Vincenzo Monti, paragonata ai tipi del Bodoni e del Didot. Una edizione di quel poemetto in 18°, stampata in pergamena, giunse al principe Eugené de Beauharnais, Viceré d’Italia. Bettoni pubblicava nel 1807 l’Alceste di Alfieri; l’Iliade di Omero tradotta dal Monti; il Bardo della Selva Nera; i Sepolcri del Foscolo; i Ritratti dell’Albizzi; Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria ed altre opere diverse a lui commesse dai più nobili ingegni di quel tempo.

Ascritto all’«Accademia italiana di Scienze, Lettere ed Arti», e dei «Filareti» di Venezia, continuò indefesso la propria professione; cosicché, meditando di aprire in Padova un nuovo stabilimento, lo si nominò «tipografo dell’Accademia Patavina e di quella Università». Con dispaccio del 2 marzo 1808 fu scritto nell’albo degli elettori del collegio dei Dotti; e quell’anno gli venne proposta l’edizione in più volumi della Storia critica dei teatri italiani del Signorelli, e della Storia d’America del Botta, membro allora del Consiglio legislativo. È singolare che fra tanti lavori tipografici egli mai dimenticasse la guardia nazionale di Brescia, di cui era tenente. Cosicché nel 1809 il colonnello Calini in quella città lo nominò capitano. Quando da Padova fu chiamato il 18 di agosto non dimenticò i volontari di quella guardia. E, come disse il capitano Calini «una scintilla del fuoco che serpeggiava nel suo cuore si mosse»: e si tenne pronto per ogni evenienza circa un suo eventuale impegno come capitano, tanto che «il Ministro dell’Interno ebbe a farne gli encomi ed i ringraziamenti». Ma avendo egli un «animo incontenibile e coraggioso», riprese il progetto di realizzare la pubblicazione delle Vite e ritratti d’Illustri Italiani. Riuscì perciò a «mettere in campo i più felici intelletti nazionali». Fu lui a pubblicare dell’Amoretti la vita del Fumagalli; del Napione Galeani quelle del Palladio e del Muratori; dall’Isidori quella del Bramante; dal Cicognara quella di Tiziano; dallo Zurla quella di Marco Polo, come altre dal Botta, dal Mustoxidi, e così via. Ricevette perciò gli encomi dell’Istituto Italiano, la promessa dal Viceré che i comuni del Regno Italico avrebbero sottoscritto le sue pubblicazioni. Ma soprattutto dallo stesso Napoleone I in dono un magnifico gioiello. «La fortuna fin qui gli arrideva. Posto a fianco del celebre Bodoni, di cui seguiva le tracce meravigliose, in lieta ed operosa corrispondenza, gli pareva quasi certo di avere davanti a sé uno splendido avvenire».

Fondò allora in Milano un istituto calcografico e tipografico, serbando sempre l’antico da lui tenuto in Brescia; maggiore in questo del Bodoni che, «se fu contento il Parmigiano all’eccellenza dell’arte propria» non ebbe mai il senso dell’imprenditorialità del Bettoni, anche in parte poco calcolata, ma tale da non acquietarsi un istante. In quel periodo il Corniani[4] gli propose la fondazione di un giornale letterario, che mancava nel Regno Italico di recente formazione. Egli non solamente offriva la propria tipografia, ma l’assistenza del Monti[5], del Lamberti, del Foscolo, del Rosmini, del Rossi, del Paradisi che gliel’avevano promessa, quando in Milano aveva già meditato un uguale proposito. Bettoni accettò e come tipografo in pochi anni fu conosciuto in tutta Italia. Non fu mai ricco. Pochi mesi prima della caduta dell’Impero Napoleonico, in virtù d’un decreto Vicereale, tutti i comuni del Regno Italico, ed erano più di 4.000, avevano sottoscritto al programma Le vite ed i ritratti degli Italiani Illustri, edizione che in meno di tre anni gli avrebbe portato il guadagno di un milione di franchi.

Ma quel raggio di fortuna sparì velocemente; ed i disastri dell’Impero furono, come per altri, anche per Bettoni dissipatori del suo avvenire, e della sua, com’egli soleva dire, brillante posizione. Perché non solo, caduta allora la sottoscrizione dei comuni, fu dileguato il sogno delle sue speranze, ma fu dagli Austriaci obbligato a rimborsare in trenta giorni la somma di ventimila franchi che il governo italiano precedente gli aveva concessa. Fu questo il primo colpo scagliato contro il tipografo «dalle grette spilorcerie dell’Austria avara».[6] Il conte Thiene, senatore del Regno, si fece garante di quella somma, ma l’onesto Bettoni, che non volle approfittarsene e gravare sul suo protettore, sacrificando a fatica diecimila franchi, trovò di che saldare in via provvisoria l’«inesorabile governo», rimanendo col debito di trentamila.

È necessario mettere qui in rilievo l’operazione culturale oltre che finanziaria che fece del nostro l’anima dei tempi nuovi. L’epoca napoleonica, con le sue indubbie contraddizioni, dette l’avvio ad un’era diversa sia sul piano tecnico-scientifico che culturale. Le idee politiche che filtrarono da molti autori che il Bettoni rese celebri, certamente non furono gradite agli Austriaci ed egli fu in parte inviso anche per tale motivo.

Con tutto ciò «l’avversa fortuna», – sottolinea l’Odorici – «che agli impotenti è freno, stimolo al forte, destò in quell’anima risoluta il coraggio delle imprese e la fermezza tenace del porle in atto».

Mai domato dall’avversa fortuna nel 1824 presentava agli Accademici di Brescia un torchio a cilindro di sua invenzione, ottenendone il premio destinato alle arti.

Grazie all’intervento del Viceré, per i suoi indubitabili meriti, fu nominato direttore in Milano della Regia Tipografia. Egli preferì la sua amata Brescia, anche quando Milano gli arrideva ancora. Cessò in quel periodo ogni pubblico ufficio ed iniziò a godere di un’annuale retribuzione, proprietario del tipografico stabilimento bresciano. A questo punto commise l’errore di sobbarcarsi qualche socio cui rimettere la parte economica ed amministrativa, riservandosi egli la letteraria, e l’interno procedimento dell’Istituto. Egli evidentemente si conosceva, e sapeva di non essere sempre accorto sul piano finanziario.

Sapeva di essere dissipatore per natura delle ricchezze che riusciva ad accumulare; di avere spesso la mente piena di colossali progetti, sentendo che gli mancava sovente «quell’economica disciplina» utile nel mondo degli affari.

Si era sposato qualche anno prima dell’ingresso dei soci con Maddalena Bellegrandi, Bresciana.

I primi otto anni di quell’unione passarono tranquilli. Divenne padre di quattro bimbi, e tutto sembrava scorrere felicemente. Ma i dissesti economici, come si è accennato, erano dietro l’angolo.

Il divorzio fu dunque l’ultimo e triste risultato di quella tempesta. Ed una seconda sventura finì con l’abbatterlo completamente. L’Imperatore Austriaco tornò alla carica con la richiesta dei famigerati quattromila fiorini da restituire, che solo parzialmente aveva potuto rendere, ritenuti dall’amministrazione austriaca indebita appropriazione, con evidente riferimento al legame del nostro col precedente regime politico.

Molte furono le delazioni che, nella impotenza di rendere la somma, egli ottenne, anche da chi apparentemente gli era stato amico in momenti più felici. Quando il Demanio gli intimò una proroga estrema di venti giorni, nonostante le vane suppliche del nostro, giunta la scadenza del termine, l’esattore fiscale prese possesso dei suoi torchi, dei suoi caratteri, di tutto il materiale dello stabilimento di Milano, del valore di sessantamila lire, che fu venduto all’asta per una miseria. Così cadeva la tipografia Istituzione, ch’era forse allora la più bella e la più florida in circolazione. «Reclamava il Bettoni; riempiva dei suoi lamenti i Dicasteri. Una volta recatosi a Vienna, l’Imperatore promise di prendere in considerazione il suo caso. In realtà si trattò di inutili promesse: il povero Bettoni più non risorse. Non solo, ma fu persino derubato nel periodo in cui soggiornò a Vienna ed al suo ritorno, trovò la tipografia bresciana vuota. Il ladro pertanto aprì altra tipografia e nonostante i processi che ne seguirono, il nostro restò in brache di tela».

Anche la nuova tipografia di Portogruaro, dove vivevano i suoi figli e sua terra natale, fu distrutta con egual metodo da un altro suo associato. Si recò egli a Firenze, sperando qui di pubblicare il Pantheon delle Nazioni ed il Corso di studi per la gioventù italica.

Sembrò ancora una volta per breve tempo che le sue sventure avessero fine ma dopo poco si ritrovò nuovamente nelle maglie dei precedenti suoi ex collaboratori infedeli. Solo il pensiero dei figli lo fece andare avanti. Era ben giusto che dopo cinque milioni di volumi da lui stampati, e cinque stabilimenti tipografici aperti in venticinque anni di vita agiatissima e laboriosa, riuscisse a godere finalmente di qualche giorno di pace. Riprese a lavorare in Firenze ma quando il primo fascicolo della sua grande opera era pronto per essere divulgato, egli cadde infermo, ed una parte dei fondi destinati al suo lavoro dovettero sopperire alle spese della malattia.

Appena convalescente, senza denari, entrò nelle maglie degli usurai, terminando così la sua rovina. Avendo avuto notizia che l’edizione del Corso degli studi, la sola che in qualche modo continuasse a reggere, per la morte dell’azionista Mazzocchi era sospesa, si rivolse al Parigino Firmin Didot.[7] «Quest’ultimo, conoscendo le difficoltà finanziarie del nostro, non lo sostenne. Che fare dunque? Fuggire all’estero? Che cosa avrebbero fatto i creditori? Pensò di rivolgersi per denaro ai suoi rappresentanti in Italia. Nessuna risposta. I creditori strepitavano e già si parlava di arresto. Vi fu un istante in cui l’indigenza, la fame l’obbligarono ad elemosinare da un ricco italiano, un letterato, un amico da quindici anni, la misera moneta di dieci franchi, e n’ebbe un rifiuto! Arrestato, chiuso nel carcere dai creditori, si considerò finito».

«In così misero stato era caduto l’amico del Paradisi, del Vaccari, del Marescalchi, del Di Breme; il tipografo del Foscolo, del Pindemonte, a cui gli egregi artisti Longhi, Appiani, Canova, Morghen, Hayez, Palagi consideravano della nobile schiera che di quel tempo rappresentava la rinata splendidezza delle arti e delle lettere italiane! Eppur, nel bel mezzo delle sue disgrazie, mai lo abbandonò il pensiero della Patria». Finalmente uno straniero gli si propose come azionista del progetto del Pantheon, progetto che gli era stato fatale, «cagione di tutti i suoi guai!». Restò nella condizione di uomo «affamato, estenuato, senza modi a saziare la fame, eccetto i patti che gli venivano imposti, ed ebbe in ultimo un sussidio, che gli valse la ricupera dei suoi pegni, delle sue carte».

Finalmente un elegante appartamento lo attendeva nel centro di Parigi. Soddisfatti i creditori, la turba degli amici, come al solito, ricomparve velocemente, ricominciò un’altra vita. Col 1° di aprile 1835 doveva essere divulgato il fascicolo I del Pantheon.

Ma offerto al Ministro dell’Interno francese un esemplare col ritratto di Enrico IV, e con suppliche perché venisse accordato all’artista di poterlo presentare, non gli fu nemmeno risposto. Incerto ancora dei suoi destini, ma risoluto ad affrontarli, in pochi giorni scriveva in una lettera «il problema del mio destino sarà deciso». Effettivamente, il 30 luglio 1835, trovato un finanziatore che assumeva le spese di completamento dell’opera, disse agli amici di «essere risuscitato da morte a vita». Egli pregustava di nuovo un destino felice. Si era anche «prefissato di affratellare due perfezionamenti, a lui dovuti, nella tipografia e nella incisione; vale a dire nel processo della stereotipia coll’uso dell’acciaio sostituito al rame, per cui venivano moltiplicate le prove serbando la freschezza dell’impressione».[8] «Ma» – riferisce il biografo Odorici, – «tanta operosità, tanto ardire, così tenace costanza di un indomito artista, non valsero a rompere le ferree sbarre che a mezzo il corso lo trattenevano». Niccolò Bettoni morì deserto e come Ugo Foscolo, suo amico, «condannato a giacersi in una tomba eretta da mani straniere in terra straniera».[9] Avvalendosi di un lavoro del Sandri, – ricorda Odorici – che scrisse un pietoso articolo sul Bettoni, inserito nell’ultima edizione della Nuova Enciclopedia Popolare del Pomba,[10] il biografo cercò di ripresentare le vicende di questo illustre editore. Mettendo a confronto i due grandi tipografi del periodo, il Bodoni ed il Bettoni, l’editore Pomba nel suo articolo già aveva sottolineato come il primo fosse «l’espressione più eloquente della bellezza che non fu mai contrastata e fatto segno di applausi dai Principi e dai popoli, morendo nel 1813», proprio quando il Bettoni iniziava ad essere celebre. Le due personalità furono contrastanti, per quanto vissute in epoche cronologicamente vicine, ma profondamente diverse sul piano politico. La visione del Bettoni, finanziariamente poco accorta, fu certamente a tutto tondo sul piano culturale ed editoriale. Il Pomba lo volle mettere in chiaro col suo articolo, riferì infatti che era stata quasi provvidenziale la nascita dell’arte del Bettoni, tale da permettere la riproduzione delle migliori opere di tutti i secoli, non necessariamente legate al classicismo, come fu nel Bodoni. Ciò a grande beneficio delle lettere italiane. Giudizio ripreso dal biografo Odorici.


Note

1 Federico Odorici, Niccolò Bettoni, cenni biografici, Torino, c/o Augusto Federico Negro Editore, via Lagrange numero 10, 1869.

2 Francesco Orioli fu un celebre poeta, letterato, politico e scienziato italiano, che ebbe un ruolo rilevante nella Repubblica Romana.

3 Giovanni Battista Bodoni (Parma 1740-1831).

4 Giovan Battista Corniani (Orzinuovi 1742 – Brescia 1813). Commediografo, saggista e critico letterario.

5 Vincenzo Monti, il noto letterato.

6 La pubblicazione dell’Oderici è del 1869!

7 Firmin Didot (Parigi 1764-1836). Incisore francese.

8 Da un articolo dell’«Omnibus» di Parigi del 13 settembre 1835.

9 La citazione è di Giuseppe Mazzini, da Prefazione agli scritti politici di Ugo Foscolo.

10 Giuseppe Pomba (Torino 1795-1876). Tipografo ed editore italiano.

(settembre 2013)

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