Un duca d’Antico Regime: Carlo Ludovico di Borbone
La questione protestante come substrato politico del periodo risorgimentale

I Sovrani d’antico regime rappresentarono con il loro stile di vita e le modalità di governo adottate un sistema politico che non seppe rigenerarsi di fronte alle sfide della modernità. Tuttavia in alcuni casi, con molte sfaccettature, che rivelarono le contraddizioni del periodo, questi Sovrani riuscirono ad essere una sorta di testata d’angolo, tale da far temere delle serie ripercussioni di sistema a Vienna, a partire proprio dall’interno del sistema stesso.

Nessuno più del bizzarro ma intelligente duca borbonico Carlo Ludovico di Borbone fu monitorato e sorvegliato speciale per le sue manifestazioni d’intolleranza verso i governi d’Antico Regime; molti storici, a partire da Giorgio Spini, ritengono che la vicenda umana del duca andrebbe scandagliata ancor più nel profondo, per comprendere le dinamiche stesse del nostro Risorgimento. Avendo io discusso una tesi su vicende vicine a quelle del duca, intendo qui presentare il personaggio, ponendo l’accento su aspetti che poco sono conosciuti.

Carlo Ludovico di Borbone nacque nel 1799 e morì nel 1883. Era figlio di Ludovico I, duca di Parma, e di Maria Luisa, appartenente al ramo spagnolo della famiglia. Fu nominato Re d’Etruria con il nome di Ludovico II a soli tre anni e la reggenza fu quindi assunta dalla madre Maria Luisa. Dopo il Congresso di Vienna i Borbone di Parma ricevettero, fino alla morte della duchessa Maria Luisa d’Austria, il piccolo ducato di Lucca, con la prospettiva di ritornare a Parma in quel frangente, cedendo Lucca al granduca di Toscana. Carlo Ludovico con questo nome successe nel 1824 alla madre alla guida del ducato e durante il suo regno varò numerose riforme di pubblica utilità. Nel 1824 promosse il riassetto delle acque e delle strade, creando un apposito consiglio che dirigesse i lavori. Nel 1826 emanò una legge per il riordino del Catasto del Ducato; si occupò anche dei beni artistici e storici della città, creando un’apposita commissione per la loro conservazione e restauro. Favorì la costruzione di una rete ferroviaria e permise la pubblicazione, per la verità soggetta come il sistema voleva a severa censura, di alcuni periodici. Sorsero in quegli anni l’«Opera degli Asili d’Infanzia» e la «Cassa di Risparmio» (nel 1835).

Il duca però non fu molto popolare nel ducato, soprattutto per le eccessive spese per sé e per la corte che portarono al deficit il piccolo Regno.

Nel 1847 un episodio di violenza fu la causa di un’insurrezione popolare cui seguì la richiesta della guardia civica e del ristabilimento della Costituzione del 1805. Tuttavia il duca nel mese di settembre di quel 1847 abdicò e cedette, senza preavviso, per ragioni di bancarotta, non rispettando quindi gli accordi previsti a Vienna, il suo Regno a Leopoldo II, granduca di Toscana. Si trasferì, come stabilito nel 1815, a Parma ed ivi assunse il nome di Carlo II.

Fin qui tutto rientra nel novero delle situazioni preventivabili del periodo. Ma leggendo tra le righe il comportamento del duca, ci rendiamo conto di quanto la sua bizzarria rispecchiasse le complesse situazioni risorgimentali.

Come ricorda Giorgio Spini, «la strana avventura religiosa del duca Carlo Lodovico di Borbone, “di Lucca il protestante don Giovanni”, come ebbe a definirlo in un verso famoso Giuseppe Giusti» c’introduce in scenari a dir poco inconsueti.

«Al solito, malgrado l’interessante studio dedicatogli da Narciso Nada» – riferisce lo Spini – «neppure questa avventura può dirsi interamente chiarita nei particolari. Anch’essa, ad ogni modo, sembra riferibile sempre a quel tempestoso ribollire di fermenti innovatori, che tiene dietro alle Trois Glorieuses del luglio 1830. Quel principotto mezzo spagnolo e mezzo italiano, dal carattere eccentrico e perpetuamente instabile e dalla condotta notoriamente scapestrata» – sono ancora le parole di Spini – «è anch’egli sulle prime spaurito dalla bufera rivoluzionaria e implora la protezione austriaca, rivolgendosi supplichevolmente all’ambasciatore imperiale de Bombelles. Ma nella sua stramba testa ha pure delle confuse velleità di giovare al suo popolo, che alimentano qualche speranza nei liberali lucchesi. E sente anch’egli abbastanza l’influsso dell’atmosfera di quegli anni da mettersi a studiare la Bibbia ed i problemi religiosi. Già allora infatti è verosimile che il duca abbia contatti con protestanti svizzeri od anglicani: è abbastanza sospetto, per esempio, che proprio nel 1830 il reverendo Nott, successore dello Hall nell’ufficio di cappellano inglese di Livorno, faccia stampare in Lucca una traduzione italiana del Common Prayer Book.

Le inclinazioni del duca al protestantesimo maturano comunque nel corso di un lungo soggiorno all’estero, che egli fa dal 1831 al 1833, in compagnia del suo ciambellano, marchese Cesare Boccella. In una data non precisata, ma presumibilmente non anteriore al 1832, Carlo Ludovico è a Ginevra e si stringe di calorosa amicizia con un pastore, Philippe Basset, di cui ammira incondizionatamente un commento al libro dell’Apocalisse. Anche quando il duca di Lucca soggiorna a Vienna, lo si vede tutto occupato a studiare la Bibbia, spulciando testi ebraici e siriaci o meditando sull’Apocalisse, e lo si sa in contatto col pastore luterano della città.

Più che a Vienna ama soggiornare a Berlino, presso la corte pietista degli Hohenzollern. E nell’estate del 1833 notizie ancora più inquietanti raggiungono Metternich: a Strasburgo il duca si è confidato con quel concistoro riformato, palesando le sue convinzioni religiose e chiedendo di potere restare protestante solo occultamente, per ragion di Stato, per cui dal concistoro stesso gli è stato concesso di continuare ad assistere alle cerimonie ufficiali cattoliche, a patto di astenersi dalla comunione; più tardi si saprà che a Strasburgo ha preso contatto anche col sindaco della città e per il suo tramite con il Ministro Francese de Broglie, chiedendo l’appoggio francese per l’eventualità di un urto con Vienna, in seguito al proprio mutamento di convinzioni.

E che il passaggio al protestantesimo debba essere accompagnato da analogo passaggio dal campo reazionario a quello liberale, non sembra dubitabile da alcuno: compagno del duca anche nell’avventura protestante è oltre tutto il Boccella, che passa per liberale quanto mai pericoloso agli occhi della corte viennese. A luglio si sparge la notizia che Carlo Ludovico è stato visto al culto luterano in Dresda e che ivi ha preso la comunione secondo il rito protestante. Di analoga comunione dalle mani di un ministro anglicano si parla poco dopo, durante un passaggio del duca da Baden. Benché il Borbone smentisca queste notizie, affermando di essere entrato solo per curiosità in una chiesa luterana a Dresda, è con estrema apprensione che Metternich lo vede tornare a Lucca, ove tutti si attendono il licenziamento dell’onnipresente Ministro Mansi, il trionfo dei liberali e l’inizio di riforme.

E un delirio di applausi saluta infatti il rientro di Carlo Ludovico nella sua capitale nell’agosto 1833. Le velleità liberali del Borbone non andranno al di là del proverbiale "espace d’un matin".

Benché circuito immediatamente dall’abilissima diplomazia austriaca, spalleggiata un po’ da tutti gli altri rappresentanti delle potenze europee, decisi ad attraversare la strada alla Francia, Carlo Ludovico continua a carteggiare con Basset, per tramite del console francese di Livorno; vuole nientemeno che pubblicare una sua propria traduzione del Vangelo in italiano ed un’altra d’un riassunto dell’opera di Basset sull’Apocalisse. Oltre a questo, si mette a carteggiare pure con Bunsen, notorio protettore di ogni iniziativa protestante in Italia e fautore di una politica di moderato riformismo nello Stato Pontificio stesso; gli apre le preoccupazioni del suo animo, chiedendogli di potersi abboccare con lui o con un suo inviato. Da Roma Gregorio XVI, allarmatissimo, invia nell’ottobre 1833 il Cardinale Odescalchi a Lucca, perché si accerti dello stato religioso del duca e comunque ottenga che egli dia inequivocabilmente smentita alle voci circolanti sul conto suo. Ma il principe gioca d’astuzia, tranquillizzando il Cardinale con equivoche profferte di rispetto alla Santa Sede e rimandandolo con questo in pace, mentre continua la serie dei propri rapporti con i protestanti. Si saprà, a dicembre, che è stato a Livorno al culto anglicano nella cappella del reverendo Nott; si sospetterà allora che abbia fatto visita alla Calandrini a Pisa. È possibile che la visita non sia avvenuta: ma è certo comunque che Carlo Ludovico era ammiratore della Ginevrina e volle fossero introdotti asili infantili anche a Lucca sull’esempio di quelli promossi da lei a Pisa e a Firenze.

Intanto il rappresentante spagnolo Zea Bermudez assilla il duca, chiedendogli pubblica e solenne prova della sua adesione al Cattolicesimo. E quelle insistenze sono particolarmente minacciose per Carlo Ludovico, che dalla Spagna trae forti rendite finanziarie, la cui sospensione, per lui, crivellato di debiti a causa della sua prodigalità irresponsabile, significherebbe la catastrofe. Metternich dal canto proprio lavora d’astuzia per indurlo a lasciare daccapo Lucca ed a tornare a Vienna, ove conta di persuaderlo definitivamente a mettere la testa a partito. Ed ai primi del 1835 il principe è già in viaggio alla volta dell’Austria, iniziando così un’altra serie di peregrinazioni europee che lo terranno lontano quasi sempre da Lucca per lunghi anni. Tuttavia continua la sua peregrinazione anche spirituale, abbandonando l’area riformata o luterana per quella High Church dell’anglicanesimo e facendosi ricevere formalmente nel seno della Chiesa d’Inghilterra. Si tratta di un atto compiuto in gran segreto, così che nulla se ne seppe allora e nulla se ne saprebbe ancora oggi, se non ne fornissero notizia esplicita due abbozzi di testamento, redatti da Carlo Ludovico, l’uno in una data collocabile fra il 1835 e il 1841 e l’altro nel 1841 o più tardi ancora. Nell’uno di questi abbozzi il duca dichiara di voler morire «nella Santa Fede Cattolica Apostolica, ma non già Romana, le cui superstizioni io rigetto, attenendomi alla Chiesa Anglicana Episcopale (High Church) della quale faccio parte dal 6 agosto 1835».

Nell’altro esplicita: «Credo in tutto quello che la Fede ci insegna per mezzo della Santa Scrittura, ma non ammetto in alcun modo articoli di Fede fuori di quelli che ammette la Scrittura, e rinunzio adesso, come già da un pezzo ho rinunziato a tutte le invenzioni umane che la Chiesa di Roma ha voluto per i suoi fini, e per tirar partito dalla credulità degli uomini, far passar per divini. E mi dichiaro vero Cattolico che segue di preferenza i riti della Chiesa Episcopale Anglicana».

Nel 1835 il Movimento di Oxford era nel suo pieno fiore e i Tracts for the Times stavano destando vasti consensi. Nulla di strano che Carlo Ludovico si sia preso una cotta per le dottrine puseyete, come qualche anno prima se n’era presa una per le dottrine apocalittiche del pastore Basset. Non c’è dubbio possibile infatti sull’identità dell’anglicanesimo «Catholic» e «High», ma non Romano, professato dal duca di Lucca con le posizioni dei «Tractarians», soprattutto negli anni iniziali. Altri particolari lo confermano.

Il Movimento di Oxford era caratterizzato dalla sua appassionata rivalutazione della liturgia e la materia della liturgia era una delle divisioni più vistose tra High Church e Low Church nell’anglicanesimo. Carlo Ludovico, tanto appassionato di studi liturgici e biblici, radunò una collezione preziosa di incunaboli e manoscritti su tali argomenti, lasciata da lui al nipote Roberto; tale raccolta trovasi oggi alla Braidense di Milano.

L’ideale del Movimento di Oxford era ritrovare l’antica Cattolicità, anteriore alle lacerazioni della Riforma e alle deviazioni del Papato; il che implicava una considerazione rispettosa per l’antica Chiesa Greca. Anche Carlo Ludovico si fece costruire una cappella di rito greco unito nella sua villa di Marlia. Può darsi che nella scaldata per l’anglicanesimo puseyeta siano entrati fattori personali. Nelle bozze di testamento sopra menzionate, il duca esprime la speranza di poter chiudere gli occhi in Inghilterra, dopo essersi ritirato dagli affari di Stato, ed esservi sepolto presso un caro amico, Charles William Crook, un giovane inglese morto in duello nel 1841. «Il che fa pensare ad una infatuazione per l’Inghilterra in genere e per questo Crook in particolare, da parte di un cervello bizzarro [le frasi sono ancora dello Spini].

Non si trattò però di una cosa del tutto effimera. Malgrado il segreto in cui è avvenuta questa vicenda di Carlo Ludovico, si sa che un personaggio così serio come il Bunsen ebbe con lui un incontro nel 1838 e daccapo un attento colloquio nel 1839 a Londra. Sempre nel 1839, durante una puntata a Roma, Carlo Ludovico, recatosi a fare omaggio al Papa, avrà una lavata di capo a proposito delle sue convinzioni religiose e ad essa reagirà protestando vivacemente presso l’ambasciatore prussiano Buch e quello austriaco Lutzow, e chiedendo di essere lasciato in pace nelle faccende della propria coscienza.

Nel 1841, anzi, essendosi ammalata la duchessa Maria Teresa – una Savoia devotissima Cattolica e quanto mai invisa all’irrequieto consorte – il Borbone si metterà a dire che, se rimarrà vedovo, si risposerà con una protestante. Manifesterà anzi propositi per avviare al protestantesimo pure suo figlio Ferdinando, che sarà poi duca di Parma col nome di Carlo III e ispirerà un giorno, con la sua fine misteriosa, un libro ben noto di Giansiro Ferrata ed Elio Vittorini.

Più tardi correrà voce che il duca di Lucca nel 1844 abbia abiurato nelle mani del Patriarca di Venezia insieme al Boccella, rientrando così nel grembo della Chiesa Romana. Se la notizia è vera, si potrebbe dire che Carlo Ludovico precedette di un anno, in questo passo, John Newman, l’esponente più illustre del Movimento di Oxford. Non mancano però notizie anche dopo quella data di contatti ulteriori del duca di Lucca con qualche ecclesiastico anglicano. È possibile dunque che solo più tardi sia finita questa singolare avventura religiosa, tanto tipica dell’atmosfera corrente per l’Italia dopo la scossa tempestosa del 1830. È nella stessa atmosfera che quel Bunsen, di cui si è vista la partecipazione nell’avventura di Carlo Ludovico, svolse inutilmente il suo tentativo di avviare anche lo Stato Pontificio verso un moderato riformismo».[1]

Per quanto l’analisi dello storico Spini sia magistrale sul piano politico, lascia dubbiosi circa l’insistenza sulla bizzarria del personaggio. Lo storico fiorentino è assolutamente in linea con quanto la storiografia ufficiale decreta sul duca borbonico. Ma, come riferito, intendo proporre delle brevi osservazioni, scaturite dalle mie ricerche per una recente tesi discussa, che fanno riflettere più dall’interno sulle questioni trattate.

Il duca lucchese, sostenuto da alcune famiglie aristocratiche, proteggeva molti patrioti italiani nei suoi territori. Oltre al conosciuto Carlo Luigi Farini, che avrà un peso rilevante nel neonato Stato unitario, anche alcuni esponenti della famiglia Bonaparte, in quel periodo fuggiaschi perché rivoluzionari convinti circa le questioni nazionali italiane pendenti, coincidenti peraltro con gli stessi loro interessi familiari del periodo.[2]

In un piccolo paese della Lucchesia, Benabbio, nel comune di Bagni di Lucca, Nicola Laganà registra, menzionando una pubblicazione, la presenza di Luigi Napoleone Bonaparte, futuro Imperatore dei Francesi, come ospite del duca borbonico nel 1837, quando era perseguitato da Luigi Filippo d’Orléans.[3]

In realtà egli precisa pure che nei documenti d’archivio da lui rintracciati non ha trovato questo personaggio bensì un suo cugino, Luigi, figlio di Luciano Bonaparte, il quale il 13 settembre 1834 implorò il duca di concedergli l’asilo politico nei suoi domini, e quest’ultimo glielo concesse il 23 dello stesso mese.[4]

Qualche anno dopo, nel 1839, Carlo Ludovico tenne contatti con Antonio Panizzi, il celebre patriota esiliato a Londra e già direttore del British Museum. Dai documenti rintracciati il Panizzi, nonostante fosse un illustre ricercato politico, era stato invitato dal duca a venire in incognito a Lucca per riordinare la sua biblioteca. Il duca gli aveva procurato un lasciapassare a Torino, dove Panizzi soggiornò indisturbato. Ma una volta giunto a Genova per dirigersi verso Lucca e per recapitare nel contempo alcune lettere di Giuseppe Mazzini alla madre di questi, Maria, fu intimidito pesantemente dal governatore della città e fece perciò marcia indietro, ritornando in fretta e furia a Londra. Per l’occasione Mazzini scrisse alla madre se a Torino i Sovrani erano uno oppure due. Ed il duca borbonico si lamentò bonariamente col Panizzi per non aver proseguito il viaggio.[5]

In verità risulta che Panizzi avrebbe nell’occasione voluto far visita anche ai suoi parenti di Reggio Emilia. Semplice cortesia o tentativo di prendere contatti, anche di natura politica?[6]

Sempre nel 1839 il duca borbonico faceva ripetute visite a Londra, come risulta da documenti d’archivio, in contatto con numerosi patrioti fra i quali il celebre editore piemontese Pietro Rolandi, peraltro traduttore, nella capitale inglese, anche dei testi sacri tanto cari al Sovrano.[7]

Il riferimento di Giorgio Spini ad Ascanio Mansi, Segretario di Stato Lucchese, definito notoriamente come un reazionario, non collima con le carte a lui inviate dalla marchesa Eleonora Bernardini: la nobildonna infatti proteggeva in incognito patrioti esuli dentro e fuori la Penisola.[8]

Ancora in quel 1839 il duca lucchese incaricò un padre rosminiano, ex Gesuita, di recarsi in Corsica a predicare la Quaresima. Il religioso in questione però, aristocratico, amico e confidente della marchesa Bernardini, aveva molti trascorsi in Piemonte come docente e rettore di collegi, prima da padre gesuita, poi, una volta espulso dall’Ordine, negli istituti comunali di Cuorgnè e Rivarolo Canavese.

Venne espulso dal Piemonte nel 1834 per una frase incriminata dell’Ode di Lanzo, scritta, letta e pubblicata nel 1831 dallo stesso in onore di sua maestà il Re Carlo Felice. L’ex Gesuita conosceva alcuni esponenti di casa Savoia e frequentava assiduamente in Torino la famiglia d’Azeglio. Era stato compagno di studi in Sant’Andrea al Quirinale in Roma di Luigi Taparelli, fratello dei più celebri Massimo e Roberto, noti liberali. In seguito docente a Novara, nel periodo in cui lo stesso Taparelli fu rettore del collegio gesuita (dal 1822 al 1824), egli scrisse «L’amico d’Italia», giornale del marchese Cesare, padre dei d’Azeglio, ed organo ufficiale delle «Amicizie Cristiane Torinesi». In quel periodo però iniziò a maturare le sue convinzioni rosminiane.

Le successive peregrinazioni in Corsica del sacerdote durarono per circa un decennio (certamente fino al 1846) e da una pubblicazione che abbiamo di tali predicazioni, ne registriamo la rilevanza più sul piano politico che religioso.[9]

In un documento rintracciato 1846,[10] risulta addirittura che lo stesso ex padre gesuita fosse un sacerdote rivoluzionario, con legami stretti col Piemonte, dove peraltro, nonostante l’espulsione, continuò a lungo a predicare.[11]

Gli interessi del partito bonapartista córso, florido in quegli anni, come ipotizza lo storico Luigi Venturini[12], collimarono verosimilmente con gli interessi del duca borbonico Carlo Ludovico.

Prima di recarsi a Parma, come previsto dal Congresso di Vienna, il duca pare intendesse non lasciarsi sfuggire l’occasione propizia per rendere più appetibile la condizione politica del piccolo ducato lucchese, ampliandone gli orizzonti.

Benabbio, il paese della Val di Lima dove i Bonaparte si rifugiarono accoglieva, di concerto con alcuni proprietari del luogo, i protestanti inglesi, secondo un disegno economico e, si presume, politico, vantaggioso per la stessa cittadina termale. Alcuni di loro erano in contatto con esponenti della famiglia Bonaparte rifugiatisi a Londra, come ricorda lo storico inglese Richard Newbury,[13] e vicini a patrioti toscani, come annovera lo storico Ersilio Michel.[14]

In questo complesso quadro politico Carlo Alberto di Savoia scrisse nel 1830 a Francesco IV, duca di Modena, che Carlo Ludovico di Borbone stava tramando con gli Inglesi e i Francesi per diventare il Re d’Italia![15]

Considerate le frequentazioni dei Bagni [di Lucca], se i Francesi erano i Bonaparte, forse la dichiarazione di Carlo Alberto poteva non essere priva di qualche fondamento. E soprattutto ritengo sia doveroso chiedersi se nel 1839 il Sovrano Sabaudo condividesse ancora i suoi timori dei primi anni Trenta, o se anch’egli nel frattempo si fosse impegnato segretamente nel tentativo di scompaginare l’ordine costituito a Vienna nel 1815! Non è affatto casuale che nel 1833 lo storico Luigi Cibrario, visti i suoi stretti rapporti con casa Savoia, fosse in contatto epistolare con il cavalier professor Gioacchino De Agostini torinese, a cui il missionario predicatore lucchese indirizzò tutte le sue lettere «missionarie».[16]

Il religioso lucchese, nel 1846, ancora una volta in Ajaccio, il 29 marzo, dove attendeva i rinforzi da Parigi e dal Nord Africa (forse Algeri, luogo d’incontro dei vari patrioti nostrani e non solo), ci stupisce con le sue frasi, date le conoscenze che attualmente abbiamo delle vicende risorgimentali.

Dovremmo considerare lo scritto del predicatore sui rifornimenti attesi un riferimento ad eventuali coinvolgimenti francesi e/o inglesi in un ipotetico tentativo del partito bonapartista córso di separare l’isola dalla Francia di Luigi Filippo? Gli Inglesi avevano incluso la Corsica nei loro progetti politici, che volevano il controllo dell’area mediterranea? E tergiversarono ancora, come era accaduto subito dopo la restaurazione del 1815, quando lo scrittore córso Salvatore Viale, menzionato nelle lettere dal missionario toscano, era stato coinvolto negli avvenimenti rivoluzionari córsi, e perciò caduto esule a Roma in seguito a tali vicende?

Visto quanto riferisce Giorgio Spini sui tentativi del duca lucchese, insieme all’amico Bunsen, di mitigare la chiusura conservatrice dello Stato Pontificio, è verosimile che alcuni ambienti vaticani non fossero completamente estranei a tali manovre.[17]

Fino al Concordato con l’Austria del 1855, che annullò la legislazione giuseppinea, le tensioni tra lo Stato Pontificio e l’Impero Asburgico non mancarono. Il missionario lucchese ribadì nel 1866, a chi lo accusava in Curia, a Lucca, d’essere stato un prete rivoluzionario che, se rivoluzione c’era stata, questa era avvenuta alla luce del sole! Stando alle parole del religioso, erano informati dei suoi movimenti l’Arcivescovo di Firenze, monsignor Minucci, l’Arcivescovo di Siena, monsignor Mancini, il Vescovo di Ajaccio, monsignor Casanelli d’Istria, senza contare il vicario lucchese del tempo, suo amico, il rosminiano monsignor Bertolozzi.[18]

Sono però soprattutto le citazioni delle memorie del Cardinale Pacca, ex Segretario di Stato Vaticano di Pio VII, all’epoca ancora in vita, cui il religioso fece riferimento nell’orazione funebre in memoria di monsignor Pino, Bastiese, contenuta all’interno dello scritto sulla Corsica, che lasciano perplessi. Lo storico Luigi Venturini si stupì di questo, osservando che persino «i ciottoli delle strade di Bastia conoscevano le vicende del Pino».[19] Il religioso volle, utilizzando le Memorie, dare un tono di ufficialità alle sue missioni e cercare nello stesso tempo di evitare di riferire quanto monsignor Pino fosse stato, in passato, perseguitato dal regime bonapartista, poiché in quel momento egli ne sosteneva la causa. È quanto traspare da un’ulteriore lettera rinvenuta, indirizzata nel 1840 dall’allora vicario córso monsignor Pino al sacerdote lucchese.[20]

In Vaticano qualcuno poteva essere più morbido nell’ipotizzare un rafforzamento politico della dinastia Bonaparte, momentaneamente messa in ombra, ma che stava ricevendo all’epoca per alcuni dei suoi numerosi esponenti, la protezione degli ambienti vaticani. Ritengo opportuno ricordare che Papa Gregorio XVI, tutt’altro che tenero coi rivoluzionari, arrivò a commutare la pena capitale con l’espulsione a Pietro Napoleone Bonaparte, figlio di secondo letto di Luciano, rivoluzionario coinvolto nei moti romagnoli col cugino Luigi Napoleone, ed anch’egli vicino ai patrioti toscani.

Si tratta certamente di ipotesi, che per essere suffragate necessiterebbero di una più nutrita documentazione ed indagine. Ma la stessa vicenda del duca «pseudo rivoluzionario» lucchese, ricordato anche dallo storico Eugenio Lazzareschi in «Archivio di Corsica»[21] come aspirante alla Corona d’Italia, soprattutto negli anni Trenta del XIX secolo, e protettore di patrioti come Giovanni La Cecilia, in amicizia sia con Domenico Guerrazzi che col Bini, induce ad approfondire ulteriormente le questioni trattate.

«Solo col Risorgimento», citando sempre Giorgio Spini, «il rapporto fra mondo protestante e Italia acquistò un rilievo cospicuo sul piano culturale e su quello politico. Il Risorgimento ebbe un preludio romantico con Corinne à l’Italie della Stael ed un primo manifesto nella Histoire des Rèpublique Italienne du Moyen Age di Sismondi; due redenti appassionati in quel Cristianesimo liberale, rousseauiano e neo-sociniano, che era allora la fede protestante di Ginevra. Ebbe il maieuta geniale e tenace della sua cultura liberale in Gian Pietro Vieusseux; ancora un altro oriundo di Ginevra. All’influenza determinante, esercitata sulla prima generazione risorgimentale dal “ginevrismo” neo-sociniano, sottentrarono poi l’influenza neopietista degli “evangelicals” britannici e del “Rèveil” franco-elvetico, quella delle dottrine di Vinet sulla libertà religiosa o quella del modello di indipendenza dallo Stato offerta dalle “Chiese Libere” della Francia, della Svizzera, della Scozia o dal protestantesimo degli Stati Uniti.

Durante il trentennio successivo al 1830 vi ebbero a che fare, in modo or più or meno intenso – a prescindere da presenze protestanti significative – personaggi come Enrico Mayer e Matilde Calandrini in Toscana e non pochi tra i protagonisti del Risorgimento: Cavour, Lambruschini, Mamiani, Montanelli, Ricasoli. Perfino il duca di Lucca Carlo Ludovico [prosegue ancora Giorgio Spini] si prese una cotta solenne per il protestantesimo».[22] Le conclusioni dello storico fiorentino sulla semplice «cotta» del duca, alla luce di quanto rinvenuto, forse dovrebbero essere parzialmente rilette.


Note

1 Giorgio Spini, Risorgimento e protestanti, Milano, Il Saggiatore, 1989, pagine 181-188.

2 Come avrò modo di chiarire più avanti.

3 Nicola Laganà, Da Menabbio a Benabbio, comune di Bagni di Lucca, edizione del gennaio 2007, pagine 203-204. L’Autore fa riferimento alla precedente pubblicazione di B. Cherubini, I Bagni di Lucca, pagina 184.

4 Archivio di Stato di Lucca, R. Intima segreteria di Gabinetto numero 65 (1834), Indice e numero 293 (1834), protocollo numero 1148. Luigi Luciano Bonaparte (1803-1891) fu un esperto della lingua basca. Egli era fratello di Carlo Luciano (1803-1857), principe di Canino, molto appassionato di studi scientifici e di politica.

5 Costanza Brooks, Antonio Panizzi letterato e patriota, Manchester, Stamperia universitaria, 1931, pagine 85-86. Ed ancora Luigi Fagan, Lettere di Antonio Panizzi di uomini illustri e di amici italiani (1823-1870), Firenze, G. Barbéra, 1880, pagine 130-139.

6 Giulio Caprin, L’esule fortunato Antonio Panizzi, Vallecchi Editore.

7 Archivio di Stato di Lucca, Legato Cerù, volume 18, lettera di Gabriele Rossetti ed a seguire di Pietro Rolandi nel fascicolo in ordine alfabetico alla voce Rossetti.

8 Archivio di Stato di Lucca, Carte Mansi, Filza numero 4, riferimento 206 e dono Carafa, Carteggi diversi, Filza numero 4, riferimento 1326.

9 Gioacchino Prosperi, La Corsica e i miei viaggi in quell’Isola, Bastia, Editore Fabiani, 1844.

10 Archivio di Stato di Lucca, Legato Cerù 142, riferimento 7.

11 Ce lo riferisce il religioso in La Corsica e i miei viaggi in quell’Isola, Bastia, Editore Fabiani, 1844.

12 Luigi Venturini, Di Gioacchino Prosperi e del suo libro sulla Corsica, Milano, Tipografia Thyrrenia, 1926.

13 Richard Nuwbury, autore di alcuni libri sui regnanti inglesi fra i quali Elisabetta I e la Regina Vittoria, ha pubblicato sul «Corriere della Sera» del 9 dicembre 2003, a pagina 37, diverse notizie relative alla famiglia Rossetti, i cui membri sono stati protagonisti in ambito culturale nella Londra del XIX secolo, e in ambito politico nelle vicende risorgimentali italiane. Interessanti le dichiarazioni dell’Autore sui numerosi rapporti tra i membri di questa famiglia di fuoriusciti e alcuni esponenti dei Bonaparte, rifugiatisi a Londra.

14 Ersilio Michel ha scritto in Guerrazzi e le cospirazioni politiche in Toscana dall’anno 1830 al 1835 che lo Janer, lasciata Livorno ed il Guerrazzi, una volta fuggito a Londra, conobbe e frequentò il poeta Gabriele Rossetti. Per la biografia dello Janer vedere F. Pera, Appendice ai ricordi e alle biografie livornesi, Livorno, Vannini, 1877.

15 A. Mancini, Storia di Lucca, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, pagina 330.

16 Su De Agostini vedere precedente articolo pubblicato su www.storico.org.

17 Padre Prosperi non fu mai scomunicato e morì sacerdote, parroco nella sua chiesa di Sant’Anna fuori le mura a Lucca nel 1873.

18 Biblioteca Statale di Lucca, Busta 687.3.

19 Luigi Venturini, Di Gioacchino Prosperi e del suo libro sulla Corsica, Milano, Tipografia Thyrrenia, 1926. Monsignor Sebastiano Pino aveva un passato a Fenestrelle come prigioniero durante il periodo napoleonico ed ivi conobbe sia monsignor Pacca, che Cesare d’Azeglio, entrambi prigionieri a Fenestrelle.

20 Biblioteca Statale di Lucca, Man. numero 3117, lettera all’abate Prosperi del 3 giugno 1840.

21 «Archivio di Corsica», rivista soppressa diretta nella prima metà del XX secolo da Gioacchino Volpe, anno XIV, numero 2, pagine 242-268.

22 Giorgio Spini, Risorgimento e protestanti, Milano, Il Saggiatore, 1989, pagina 10.

(settembre 2012)

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