Giacomo Leopardi, il poeta malinconico
Quando «il naufragar m’è dolce in questo mare»

Giacomo Leopardi

A. Ferrazzi, Giacomo Leopardi, circa 1820, Casa Leopardi, Recanati (Italia)

Giacomo Leopardi nacque a Recanati, nelle Marche, nel 1798, da una nobiltà di provincia. La storiografia ce lo presenta affetto da una salute malferma, mezzo cieco, tartassato dai geloni e gobbo, e senza affetti: un misantropo e un solitario, uno degli spiriti più infelici della poesia mondiale. Niente di più errato: Leopardi fu un formidabile autodidatta, un grande filologo, un eccellente poeta e un ottimo prosatore, e non fu affatto un pessimista; rinserrato in casa da Adelaide, una madre uggiosa, oppressiva e dispotica e da Monaldo, un padre buono ma conservatore e reazionario, passava le giornate a salire e scendere la grande scala che collegava l’ampio ingresso ai piani superiori insieme alla sorella Paolina e al terzo fratello Carlo. Non era un ragazzino tranquillo: allergico al sapone e refrattario all’idea di lavarsi, nei giochi voleva sempre vincere, le suonava di santa ragione al fratellino ed era un fantasioso inventore di novelle, che riusciva a portare avanti per diversi giorni aggiungendovi man mano particolari in più. Intanto divorava volumi su volumi, animato da una vera e propria abulimia letteraria: a 14 anni padroneggiava tre lingue antiche (latino, greco, ebraico) e si espimeva fluentemente in tre idiomi moderni (inglese, francese, spagnolo); nel 1813 scrisse una Storia dell’astronomia e due anni dopo un Saggio intorno agli errori popolari degli antichi. Si sbizzarriva a dissertare su questioni di logica, morale, fisica teorica e sperimentale; leggeva Parini, Alfieri, Monti, Foscolo. Finchè, diventato ormai malinconico, pensoso, cupo, decise che stare a Recanati non gli avrebbe giovato e che doveva assolutamente andar via di casa.

Non che fosse una cosa facile: per molto tempo, l’unica fuga che gli fu permessa fu quella con la fantasia. Saliva su al colle, quello che oggi è noto come colle dell’Infinito, e lì scrisse una delle più alte liriche della poesia universale:

«Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare».

(Su quel colle ci sono stato anch’io, ed è veramente affascinante: sedersi sull’erba, dinanzi alla «siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude» – la stessa siepe dinanzi alla quale sedeva Laopardi – e lasciare libera l’immaginazione di vagare ove vuole).

Infine ebbe il permesso di lasciare la casa: andò a Roma, poi a Milano, in seguito a Firenze. Conobbe e strinse amicizia con Gino Capponi, Niccolò Tommaseo, Giovanni Battista Niccolini, Pietro Colletta, il gruppo di letterati che faceva parte del Circolo Viesseux (di amicizie femminili, neppure l’ombra: non è che lui evitasse le donne, erano le donne ad evitare lui!). Si trasferì a Pisa, a Napoli, ma finiva sempre per tornare a Recanati, quasi spinto da una forza soprannaturale.

La gloria di Leopardi, uno dei più grandi poeti della letteratura italiana, è affidata ai Canti; alcuni di questi come L’Infinito (già ricordato), Alla luna, A Silvia (dedicata a Teresa Fattorini, figlia di un dipendente del padre, morta precocemente di tubercolosi ed al quale il poeta non trovò mai il coraggio di rivolger la parola, malgrado ne fosse innamorato), Il passero solitario, La quiete dopo la tempesta, toccano vertici di purissima poesia. La mia preferita è Il sabato del villaggio:

«La donzelletta vien dalla campagna,
in sul calar del sole,
col suo fascio dell’erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e di viole,
onde, siccome suole,
ornare ella si appresta
dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dì della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch’ebbe compagni dell’età più bella.
Già tutta l’aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
giù da’ colli e da’ tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore:
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dì del suo riposo.

Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l’altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s’affretta, e s’adopra
di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.

Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l’ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.

Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
ch’anco tardi a venir non ti sia grave».

Oltre ai Pensieri, alle Operette Morali (intrise di sarcasmo e di feroce ironia) ed allo Zibaldone (tanto per citare gli scritti principali) ha composto un Epistolario definito «l’unico veramente grande della nostra letteratura». La ginestra o il fiore del deserto è il suo struggente testamento spirituale, un messaggio di speranza a cui un uomo visto come malinconico, infelice e solitario non ci aveva mai abituati: egli ipotizzò che solo l’unione, una comunione metaforica tra gli uomini avrebbe salvato gli uomini stessi –

«Libertà vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltà, che sola in meglio
guida i pubblici fati».

(luglio 2017)

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