Gino Capponi e i suoi tempi[1]
La storia di famiglia, la giovinezza,la maturità, i suoi amici

Entrare a piccoli passi nella vita di uno statista del secolo XIX, la cui famiglia segnò non solo la storia di Firenze ma dell’intero nostro Paese, è un po’ come guardar filtrare dal buco della serratura le mostre «magnifiche sorti e progressive». È questo quanto mi propongo di fare rivisitando una celebre biografia che spopolò nel XIX secolo sulla figura di Gino Capponi. L’autore del testo, Marco Tabarrini, fu senatore del Regno, impegnato in politica a livello locale e poi nazionale a lungo e grande amico di Massimo D’Azeglio e della nomenclatura moderata. Morì nel 1901 e gli fu fatta una commemorazione presso l’Università di Pisa nell’Aula Magna.[2]

Gino Capponi visse 84 anni, seppur per lungo tempo in stato di cecità. Dopo aver rappresentato per l’intero Continente Europeo e non solo per l’Italia una figura di riferimento, si spense in Firenze in un palazzo gentilizio. Dei Capponi si ha notizia in Firenze fino dal 1250.

In ogni caso possiamo tranquillamente sostenere che nelle Matricole delle Arti di Firenze sono trascritte per i Capponi case nei Fondaci di Santo Spirito, accanto ai Vettori coi quali erano consorti. Il primo celebre avo di Gino Capponi fu Neri di Recco, di parte popolare, che nei tumulti fiorentini del 1343 assicurò la vittoria del popolo sui magnati, assalendo alle spalle i Nerli che tenevano asserragliato il ponte della Carraia. Da lui nacque Gino, amico e partigiano di Rinaldo degli Albizzi contro i Medici. Fu commissario della guerra di Pisa, e governò la città dopo la resa, usando i crudeli ordini del Comune vincitore. Suo figlio Neri fu veramente il maggior uomo della casata: ebbe parte grandissima nelle guerre col Visconti e collo Sforza, «né si trattò negozio di gravità del Comune che non fosse richiesto del suo consiglio». Morì nel 1457. Da Neri e da Maddalena Mannelli nacque Piero, famoso per l’atto di coraggio col quale rintuzzò la baldanza di Carlo VIII; «ma nelle parti fu mutabile, onde Lorenzo il Magnifico soleva dire, ora parergli l’avo, ora il padre»; perché non lo aveva né amico né avversario costante. I Capponi, che avevano fatto le loro ricchezze con la mercatura e col cambio ne continuarono l’esercizio anche dopo spenta la Repubblica. Tenevano banchi a Lione e in altre città della Francia; e nel 1596 un Capponi prendeva in appalto la zecca di Baviera. Assodato il dominio mediceo, alcuni dei Capponi cospirarono e perdettero la vita e gli averi; altri rassegnati si contentarono di uffici di Corte, o passarono la vita negli studi delle lettere. Da Girolamo, fratello del celebre Piero, esce la linea che fa capo al nostro Gino; che si ricongiunse nel 1750 circa alla linea diretta di Piero, quando l’ultimo di questi discendenti chiamò suo erede il marchese Pier Roberto, padre del Nostro. Il marchese Pier Roberto ebbe la prima giovinezza assai travagliata e fu generale «senza battaglie». Nonostante questo i Fiorentini «gliene attribuirono tre, perché portavano questo nome tre signore da lui corteggiate». Lasciò il patrimonio assai oberato ed egli, perché i creditori fossero soddisfatti, si rassegnò a vivere in grandi strettezze; «dalle quali lo trasse il cognato Alessandro Capponi, ultimo della sua linea, che lo chiamò suo erede, lasciandogli con un cospicuo censo il palazzo di Via Sebastiano in Firenze».

Rifatta così la sua fortuna, il marchese Pier Roberto si accasò con Maddalena Frescobaldi, madre di Gino. Nel periodo rivoluzionario, il marchese Pier Roberto rimase sulle prime in Firenze (1799); solo nella primavera del 1800 riprese la via di Vienna insieme con la consorte e col piccolo Gino, nella speranza che in breve sarebbe potuto ritornare nella sua città assieme al Granduca. La battaglia di Marengo fece andare in fumo questi sogni, e mutò in esilio il soggiorno dei Capponi a Vienna.

Il loro rientro coincise col periodo in cui (1808) la Toscana era ridotta a provincia francese e governata da una Giunta della quale era segretario Cesare Balbo, Uditore al Consiglio di Stato. La conformità dei sentimenti avvicinò il Balbo a Gino Capponi e sin d’allora cominciò quella schietta amicizia che durò poi inalterata tutta la vita.

Che un marchese in quel periodo si proponesse sul serio di diventare un uomo dotto era cosa ritenuta ridicola. Si faceva una eccezione per le scienze matematiche e naturali perché «per alcuni esse erano un piacevole balocco», per altri un mezzo per avvantaggiare la propria fortuna. «A studiare per onore del sapere e per crescere decoro alla Patria pochi o nessuno pensava allora. Possiamo dir questo per la maggior parte dell’aristocrazia italiana; ma Firenze ebbe le sue eccezioni con un Cosimo Ridolfi[3] ed un Vincenzo Antinori[4]. Gino Capponi fu cultore delle Lettere e delle Arti in ogni modo, nonché molto impegnato sul fronte politico, in Italia ed in Europa».

Sposatosi giovane con Giulia Riccardi Vernaccia, rimase vedovo dopo tre anni e con due figlie. Per riuscire a superare il dolore si dedicò ai viaggi, in Italia ed Europa.

«Egli per gran parte della sua giovinezza viaggiò; né solo volle conoscere palmo a palmo l’Italia, ma visitò con diligenti e studiose osservazioni la Francia, l’Inghilterra, l’Olanda e la Germania. A Londra Capponi stette col Foscolo, stringendosi con lui in tale amicizia». L’Europa rappresentò per lui una fucina d’idee e possibilità. Quando oggi ci riempiamo la bocca di Europa, ripensare ai nostri progenitori che vi si affacciarono, come il Capponi, in punta di piedi ma non per questo asserviti, è certamente nostro dovere. L’Europa di allora come quella di oggi non fece sconti, e pur tuttavia la vita di questi personaggi rivela una autentica e disinteressata voglia, a prescindere da convincimenti ed osservazioni politiche più o meno fondate col senno di poi, d’esserci e di costruire. Si tratta dunque senza alcun dubbio delle nostre attuali fondamenta politiche.

Potremmo parlare abbondantemente del Gino Capponi fondatore con Gian Pietro Vieusseux dell’«Antologia», la celebre rivista fiorentina che fece scuola in Italia ed Europa. La cui vera anima culturale fu il Capponi più ancora del Vieusseux, che ne era l’anima finanziaria.

Non mi calerò in un contesto complesso come il Gabinetto Vieusseux, se non con dei riferimenti finali agli amici di Gino Capponi che insieme con lui ne furono l’anima, ma cercherò di fare accenni al Capponi politico, così contestato dai vincitori dell’Unità e forse non riscoperto fino in fondo.

«Siamo nel 1848. Sullo scorcio del medesimo anno fu il Capponi invitato dal Principe Leopoldo II a far parte di una Commissione incaricata di proporre una forma di governo rappresentativo adatta alle condizioni ed ai bisogni della Toscana. Gli avvenimenti che l’uno all’altro si succedevano, gli esempi di Napoli e del Piemonte richiesero sollecitudine estrema nel preparare lo Statuto che doveva servire di norma al futuro sistema governativo. La medesima Commissione faceva in seguito le altre leggi organiche promesse dallo Statuto, ed istituiva un Consiglio di Stato in cui il Capponi era meritatamente tra i primi designato a sedere. Prima della sessione legislativa era pure eletto senatore, ed allora, quando nell’agosto del 1848 il Ministero presieduto da Cosimo Ridolfi fu costretto a dimettersi, si affidava a lui il difficile e geloso incarico di comporre un nuovo Gabinetto e di assumere la presidenza. Giunse al potere in momenti difficilissimi e per brevissimo tempo vi rimase. Tutti gli atti del suo Governo furono diretti a riaffermare gli ordini liberi; a favorire la guerra d’indipendenza, e ad ottenere una unione federativa tra i Principi della Penisola, in modo che potesse rappresentare la nazionalità italiana come principio e come fatto, la qual cosa appariva soltanto in quel momento possibile. E nella veduta di conseguire un così nobile intendimento, mandava ambasciatore a Napoli il senatore Griffoli a perorarvi presso quel Re la causa della Lega Italiana mentre in Roma si facevano contemporaneamente pratiche al medesimo scopo, mercé le quali ottenevasi da Pio IX l’approvazione in massima della desiderata federazione».

L’intento del senatore Tabarrini e di chi perorò la causa moderata, elogiando l’operato del Capponi non voleva, ritengo, porsi obiettivi scientifici, quanto piuttosto far riflettere sul momento e sulle difficoltà politiche che il nostro Paese attraversò.

«Dal Ministero Toscano non dipese se di poi non fu ottenuto l’intento; fu colpa dei tempi, delle circostanze e degli uomini. Desideroso oltremodo di riuscire ad assicurare l’indipendenza d’Italia, non appena ebbe contezza che l’Austria mandasse un Legato a Bruxelles per conferire con i plenipotenziari che vi avevano mandati i Governi di Francia e Inghilterra, i quali si erano offerti mediatori per porre un termine alle vertenze italiane, il marchese Capponi deputava alla Dieta di Francoforte il professor Matteucci, noto liberal moderato, mentre a Parigi e a Londra mandava il marchese Ridolfi al fine di farvisi patrocinare le ragioni degli Italiani». In Londra del resto sia Capponi che Ridolfi e molti loro amici aristocratici avevano alcuni sostenitori. Ma i timori di Pio IX di vedersi trascinare in un conflitto che gli avrebbe alienato le simpatie della cattolica Austria ed il terrore che le forze protestanti inglesi prendessero il sopravvento nel Paese fecero il resto. Le cose precipitarono e furono accusati il Capponi ed il suo Ministero. «Ma chi accusò non pose mente alle difficoltà dell’impresa; alle condizioni in cui versava allora il Paese; e soprattutto alla mancanza assoluta di forza ed alla notoria ripugnanza del Granduca per qualunque misura che uscisse dai limiti dell’usata mitezza, probabilmente anche lui consigliato dall’Austria al fine di spingere le cose agli estremi. Minato dai continui assalti del partito che voleva spingere la Toscana al di là delle vie di una libertà onesta e moderata, il Ministero Capponi cadeva nell’ottobre del 1848, dopo due soli mesi di Governo; ma cadeva seco portando il rammarico dei buoni, i quali si rattristarono [questi i giudizi del Tabarrini] allorché videro succedergli al potere quegli uomini stessi che avevano fino ad allora capitanata la rivoluzione. [Prosegue il Tabarrini:] Non è qui luogo narrare come i rivoluzionari costringessero Leopoldo II ad abbandonare i suoi Stati, e come avvenisse la promulgazione di un Governo provvisorio il dì 8 febbraio 1849, che durò al potere circa due mesi. Il Capponi si tenne frattanto lontano da ogni politica feconda vedendo inutile ogni sforzo tentato a favore della Patria».

Ad onor del vero il triumvirato rivoluzionario di Gurrazzi, Mazzoni e Montanelli[5] fu un’esperienza certamente non circostanziata e proficua sul piano politico ma importante per le idee che professò e come apripista verso il triumvirato della Repubblica Romana di Mazzini, Saffi ed Armellini. È anche doveroso ricordare che il gruppo moderato non era affatto compatto. Il 20 gennaio 1849 tra gli Amici del Popolo a Firenze venne arrestato un certo Cesare Pierotti, rivoluzionario che in una pubblicazione di Ferdinando Martini[6] viene spacciato per un popolano e che il professor Bertini dell’Università di Firenze recentemente, per il bicentenario della nascita di Guerrazzi ha definito nella sua pubblicazione nella giusta veste, ossia di aristocratico. Era peraltro tale Cesare padre di un amico e collaboratore al Vieusseux dello stesso Capponi: quell’amico Giuseppe di cui ci sono lettere alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, che gli studiosi hanno sin qui ignorato. Cesare venne arrestato ma non condannato da Leopoldo II per inopportunità politica. Ancora nel 1860 (morirà nel 1901) invocava la protezione di Tommaso Corsi (lettera a Firenze) perché era di fatto un perseguitato politico. Date le circostanze, non c’è da dubitarne. Del figlio Giuseppe (1827-1884), noto pittore con posizioni moderate, parlerò successivamente, definendo gli amici di Gino Capponi.

Perché ancora tanti silenzi? Chi si teme, la figura di Capponi? Forse sì, prima ancora del ruolo vero assunto dai repubblicani, peraltro assolutamente in sintonia con i moderati, almeno in un primo momento delle nostre vicende risorgimentali.

Capponi, divenne cieco, ma non per questo si arrese. La sua condizione fisica non lo fermò dell’essere e restare un nume tutelare nelle vicende storiche del nostro Paese. All’interno della sua villa di Verramista raccolse con religiosa e delicata attenzione le spoglie mortali dell’amico suo, lo storico Colletta; ed ebbe sereni colloqui con Manzoni, Lamartine, Cobden e Thiers. Segno evidente che l’Europa tutta guardava a lui come all’interlocutore naturale delle vicende nazionali. Gli furono vicini uomini come Giacomo Leopardi, Giuseppe Giusti e il Niccolini. Un quadro del pittore Pierotti, il cui autoritratto è possibile rintracciare agli Uffizi, è stato esposto a Palazzo Medici Riccardi nel 2010 in occasione delle celebrazioni delle vicende unitarie in una mostra dedicata alla Toscana. Ritrae a Meleto Cosimo Ridolfi con Gino Capponi, Vincenzo Antinori e l’Abate Lambruschini mentre Ridolfi presenta i suoi figli a Gino Capponi. Da quanto da me rilevato in Lucca Giuseppe, il pittore, era figlio del rivoluzionario cui ho fatto cenno[7] ed aveva col Gabinetto Vieusseux legami. Ci sono due sue lettere sempre alla Biblioteca Nazionale Fiorentina. Una indirizzata al celebre Telemaco Signorini. L’altra allo stesso Gino Capponi, cui si rivolge in maniera confidenziale su scavi archeologici relativi al 1200 in Castelnuovo Garfagnana con questa espressione: «Capponi mio, il cavaliere è tuo, non è mio». Le origini feudali della sua famiglia evidentemente imponevano certi richiami allo statista Gino Capponi.

Furono questi moderati, ed il nostro in primis, soddisfatti dell’avvenuta Unità Nazionale? Possiamo accusarli fino in fondo, visti i loro rapporti talvolta tumultuosi con gli stessi repubblicani, della mancata risoluzione del 1848? Certamente no. Probabilmente vissero l’Unità Nazionale come il male minore, dato il modo in cui si erano svolte le note vicende, in quanto non in sintonia con la loro iniziale visione gradualistica, seppur eurocentrica.


Note

1 Il titolo ed i riferimenti sono tratti dal testo di Marco Tabarrini che nel XIX secolo scrisse la più interessante biografia sul celebre studioso e statista.

2 Lo studioso e storico Giovanni Pierotti, amico e compagno di studi di Giosuè Carducci, pronunciò nell’Aula Magna di Pisa un discorso sul celebre senatore del Regno, Marco Tabarrini, appena deceduto.

3 Pensiamo all’esperienza di Meleto del marchese Ridolfi.

4 Illustre scienziato.

5 Giuseppe Montanelli, il nonno di Indro.

6 Ferdinando Martini, Il quarantotto in Toscana. Riferimento alla data 20 gennaio 1849. Il nome del rivoluzionario è mutato in Perotti. Ma alla stessa data e con riferimenti questa volta più circostanziati troviamo la pubblicazione del professor Bertini del dipartimento di Storia dello Stato dell’Università di Firenze nel volume edito sulla figura di Guerrazzi per il bicentenario della sua nascita.

7 Verificando lo stato di famiglia di questi personaggi si rileva che la data di nascita e di morte di Giuseppe coincide con quella di un figlio di Cesare, la cui famiglia ha peraltro vari agganci con le complesse situazioni politiche risorgimentali.

(agosto 2014)

Tag: Elena Pierotti, Italia, Risorgimento, Gino Capponi, Marco Tabarrini, Massimo D'Azeglio, Firenze, Maddalena Frescobaldi, Pier Roberto, battaglia di Marengo, Giulia Riccardi Vernaccia, Gian Pietro Vieusseux, Giovanni Pierotti.