Goffredo Mameli e Michele Novaro, autori del Canto degli Italiani
Poeti, compositori e patrioti

Viene spontaneo chiedersi chi siano gli autori dell’Inno Nazionale della Repubblica Italiana, noto con diversi nomi come, oltre a quello riportato nel titolo, Canto degli Italiani, come Fratelli d’Italia, Canto Nazionale, Inno d’Italia. Si tratta di un canto di carattere risorgimentale, di un inno che si propone di spronare i popoli oppressi a cercare di uscire dalle situazioni cui sono sottomessi da prepotenti e arroganti colonialisti provenienti da altri lidi. I suoi versi, scritti in previsione di una possibile guerra contro l’Austria, sono un richiamo a fatti fra i più significativi che hanno interessato quell’umanità che, stanca dell’oppressione e dell’arroganza dei potenti, si vuole affrancare e toglierseli di dosso, e ciò fin dai tempi più antichi; e in pochi tratti, il poeta è riuscito a concentrare ciò che la storia riporta estesamente, com’è giusto, in voluminosi trattati.


Goffredo Mameli

Il testo è uscito dalla penna del Genovese Goffredo Mameli dei Mannelli, semplicemente chiamato Goffredo Mameli, che nacque a Genova nel Regno di Sardegna nel 1827. Come tanti altri giovani italiani, studenti e non, della sua epoca, male sopportava il dominio straniero sul sacro suolo della patria. Era il 1847 e il patriottismo da tempo allignava nei pensieri di tantissimi giovani della Penisola che, allora, era suddivisa in diversi Stati. Quando il futuro inno nazionale fu scritto, erano in fase di preparazione i moti del 1848 che, scoppiati contro i regimi assolutisti, sconvolsero gli Stati Europei. Fu esclusa da questi la Gran Bretagna vittoriana, non solo perché allora era in grande stabilità politico-economica, ma anche perché insieme con altre riforme era stata emanata la Legge del 1832 sulla Rappresentanza del Popolo, con la quale erano state introdotte ampie modifiche al sistema elettorale inglese e gallese, con lo scopo di «prendere le misure necessarie per correggere vari abusi che hanno prevalso a lungo nella scelta dei Membri del Parlamento». E pure la Russia scampò al pericolo, ma nel suo caso la ragione fu diversa: infatti, almeno allora, non c’era una classe borghese capace di opporsi al regime zarista (il Novecento era ancora lontano). I moti si proponevano di abbattere i Governi della Restaurazione, che tentavano di ristabilire il potere sovrano assoluto e che erano nati dopo la fine di Napoleone per sostituirli con altri liberali, cioè più rispettosi, fra l’altro, dei diritti individuali. Fu un fallimento totale, tanto che nel linguaggio di tutti i giorni, per «fare confusione, disordine, tumulto» era stato coniato il detto «fare un quarantotto». Tutta l’Italia era in agitazione, a partire dalla Sicilia, dove scoppiò la rivoluzione del 1848 contro il dominio dei Borbone, per arrivare al Nord, a Padova, Milano (le Cinque Giornate), Venezia. Poi, ci fu la Prima Guerra d’Indipendenza, che vide da un lato il Regno di Sardegna e volontari italiani e dall’altro l’Impero Austriaco; durò dal 23 marzo 1848 al 22 agosto 1849. Praticamente furono fatte due campagne contro l’esercito austriaco, ma tutte e due finirono in scottanti sconfitte, i cui avvenimenti maggiormente decisivi furono la battaglia di Custoza, combattuta alla fine di luglio 1848, quando si trovarono di fronte Carlo Alberto di Savoia, abbandonato dagli Stati Alleati, e il Maresciallo Josef Radetzky, e quella di Novara, svoltasi nel marzo del 1849, fra lo stesso Radetzky e il Generale Polacco Wojciech Chrzanowscki, che era a capo dell’Armata Sarda.

Il Mameli, che nel 1849 partecipò alla difesa della seconda Repubblica Romana, fu ferito e la piaga infetta ne procurò la morte: aveva appena 22 anni. Per questo, purtroppo, non c’è molto da dire sulla sua vita.

L’Inno di Mameli divenne subito molto popolare e fu cantato dai patrioti e da tutti gli oppressi della Penisola durante tutto il Risorgimento, ma, quando nel 1861 si giunse all’unità del Paese, grazie a Garibaldi e a Vittorio Emanuele II, data la sua caratteristica di vocazione repubblicana, non era per nulla adatto alla nuova situazione di elezione monarchica, tanto che a rappresentare il Regno d’Italia si preferì la Marcia Reale, che era il brano ufficiale di Casa Savoia.

Forse la musica dell’inno non è delle migliori, però quando si sentono gli ottoni alzare le loro potenti note metalliche e accompagnare il coro di migliaia di voci, si sente una specie di formicolio e la pelle si raggrinza, mentre un senso di partecipazione attiva entra nelle regioni più recondite, inaccessibili e inconfessate di tutti noi. Fa capire che il suolo della Patria è sacro e inviolabile e, come tale, deve essere difeso anche con il sacrificio della propria vita.


Michele Novaro

Michele Novaro nacque a Genova nel 1818. Fu una persona modesta che, però, ha il grande pregio di aver musicato il Canto degli Italiani, un inno che, a distanza di un paio di secoli, gode della soddisfazione di essere il brano emblematico dello Stato vagheggiato da coloro che l’avevano ideato.

Novaro era Genovese, come Mameli, con qualche anno in più, e fin da giovane frequentava gruppi che avevano, come ideale, quello di far cessare la presenza dell’esercito austriaco sul suolo patrio e di fondare un’unica Repubblica Italiana, derivata dal disfacimento degli Stati che la dividevano in sette porzioni territoriali guidate da regimi completamente diversi fra di loro (Regni, Ducati, potere temporale della Chiesa).

Amava la musica e il canto, e il suo spirito patriottico non gli impediva di comporre inni e canti – per le genti oppresse – sempre premonitori del Risorgimento Italiano. Per quel che riguarda il canto, era dotato di una bella voce, che spiegava come secondo tenore in opere liriche teatrali, anche di grande rilievo, quali il Don Pasquale di Donizetti e La Gazza Ladra di Rossini. Come secondo tenore e maestro dei cori sia del Teatro Regio sia di quello di Carignano, era presente a Torino nel 1847.

Anton Giulio Barrili, patriota, scrittore e politico, racconta che una sera autunnale, nell’abitazione del patriota e scrittore Lorenzo Valerio, si presentò il pittore e incisore Ulisse Borzino, il quale, dicendo «To’, lo manda Mameli», consegnò un foglietto a Novaro. Era un componimento del giovane Mameli. Novaro lo lesse, si entusiasmò per il contenuto e, secondo Barrili, fu sconvolto ed emozionato; a chi gli chiedeva di cosa si trattasse, disse «una cosa stupenda», quindi cominciò a provare ad abbozzare un’aria, che poi completò a casa: nacque così quell’inno che divenne il più sentito e appassionante di tutti quelli che erano stati sfornati continuamente sia in italiano che vernacolo.

Un fatto, che ha una parvenza di singolarità, è quello relativo alla associazione del Canto degli Italiani non all’autore della musica, bensì a quello dei versi. Parlando, per esempio, dell’opera Aida, si dice che è di Verdi e non di Ghislanzoni, oppure citando la Turandot la si associa a Puccini e non ad Adami e Simoni; così, i librettisti restano noti solo agli addetti ai lavori. Qui, è avvenuto il contrario: il Canto degli Italiani diventa di Mameli, non di Novaro, che passa in secondo ordine. Pazienza! Ecco perché mi piace spendere due parole su questo signore. Però, bisogna avere presente che Mameli scomparve a soli 22 anni, mentre interveniva in prima persona e attivamente alla difesa della Repubblica Romana, cioè quando stava avvenendo ciò che l’irredentismo degli Italiani sperava si verificasse: per questo, forse, e per l’immortalità raggiunta, il suo nome è rimasto connesso ai suoi versi patriottici, costringendo quello di Novaro al dimenticatoio.

Il contributo di Novaro alla musica fu notevole, impegnandosi non solo nelle opere liriche, ma pure nella composizione di pezzi da camera, di ballabili e, naturalmente, di inni di guerra; il primo fra questi ultimi fu Suona la Tromba su testo di Mameli e ripreso poi da Giuseppe Verdi.

Più tardi, nel 1864, ritornò a Genova, dove fondò la Scuola Corale Popolare; l’incarico ottenuto come maestro di canto comportò un piccolo miglioramento alle sue condizioni.

Novaro, persona tranquilla e modesta, non godette molto dei diritti che potevano derivare dal suo inno, e la sua esistenza passò più in difficoltà economiche che in altro; in condizioni di povertà e con gravi problemi di salute, la sua vita si concluse all’età di 67 anni, nel 1864.

È stato sepolto nell’ottocentesco cimitero monumentale di Staglieno, forse uno dei più importanti musei a cielo aperto d’Europa, visitato da personaggi famosi, quali il filosofo Nietzsche, gli scrittori Mark Twain ed Ernest Hemingway, l’Imperatrice d’Austria Elisabetta, nota come «Sissi», e luogo di eterno riposo di persone illustri quali Gilberto Govi, Nino Bixio, la moglie di Oscar Wilde, tanto per citarne alcuni. La sua tomba, posta nel Boschetto Irregolare a fianco di quella di Giuseppe Mazzini, è costituita da un monumento in marmo, a forma di tronco di piramide quadrata, riportante in cima una croce latina; al centro una corona d’alloro alloggia nel suo interno una lira; al di sotto, un epitaffio inizia con le seguenti parole: «Artefice di possenti armonie» e continua ricordando come egli abbia spronato gli Italiani, dalle Alpi alle Terre dei Vespri, alla riscossa contro il dominio straniero.

(giugno 2021)

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