In Corsica dopo Pasquale Paoli: la Legione Córsa
Ed a seguire alcuni riferimenti al coinvolgimento di membri della Legione anche nelle questioni isolane del primo periodo risorgimentale

Leggendo l’opera dello storico Virgilio Ilari,[1] coautore con Crociani e Boeri del libro Storia militare nel regno murattiano, sono rimasta particolarmente colpita dai nomi che egli fa di alcuni membri delle Reale Legione Córsa voluta da Napoleone I una volta acquisito il potere. La Reale Legione Córsa fu un corpo militare scelto, francese sul piano giuridico ma córso su quello etnico. Membri di quel corpo militare appartennero, ad attenta lettura, alle stesse famiglie che un religioso d’impronta rivoluzionaria, padre Gioacchino Prosperi, evidenziò nella sua opera La Corsica e i miei viaggi in quell’Isola, pubblicata a Bastia nel 1844 presso l’editore Fabiani. Evidentemente alcuni Córsi, incuranti di quello che era stato l’insegnamento di Pasquale Paoli, ossia il perseguimento dell’indipendenza politica, il riconoscimento della propria identità storica, culturale, etnica, linguistica, vollero dimostrare nei fatti di aver ormai abbracciato i valori promossi dai napoleonidi. Inseguirono cioè in quel frangente Napoleone I, successivamente i fratelli e congiunti dell’ex Imperatore dei Francesi, col preciso intento di accaparrarsi «un posto al sole».

Un patriota ricordò anni dopo, nel 1846, che «il Real Ciuffo fu intimo amico di Pasquale Paoli e che i padri muratori [era egli un frammassone] furono i testimoni degli ultimi gemiti dell’Aquila Imperiale».[2] Trascrivo perciò di seguito alcuni riferimenti sul Reggimento Real Córso (1806-1815) tratti dal testo del professor Ilari, mettendoli poi a confronto con alcune vicende risorgimentali.

La Corsica dopo Pasquale Paoli, una volta soggetta al dominio francese volle, in taluni casi, intravvedere nelle gesta napoleoniche quasi motivo di «riscatto». Eppure la famiglia Bonaparte, che per un certo periodo fu davvero vicina al patriota Paoli, gli si era successivamente posta contro e perciò era emigrata in Francia, abbracciando la causa rivoluzionaria di quel Paese.

Una volta raggiunto il potere Napoleone I, che conosceva bene i risvolti politici dell’Isola ma soprattutto la volontà di alcune famiglie isolane di riscattarsi finalmente da dominazioni sempre subite, utilizzò i più facinorosi per arruolarli in quella che sarà appunto la Legione Córsa, rivelando in tal modo tutte le lacerazioni presenti sul territorio. Non dimentichiamo che i Pozzo da Borgo, cugini di Napoleone, andarono a sostenere prima gli Inglesi, poi lo Zar ed i Borboni restaurati. E che i Sebastiani, vicini ai Bonaparte, diverranno negli anni Trenta del XIX secolo sostenitori di Luigi Filippo d’Orleans, anche se per un breve periodo.

«Il Reggimento Real Córso» – scrive il professor Ilari – «ebbe origine dai cinque battaglioni distrettuali di fanteria leggera di 508 uomini (18 ufficiali ed un chirurgo) levati nei dipartimenti córsi del Golo e Liamone con decreto del 1° giugno 1803. Impiegati per la sicurezza interna, turbata da disordini e faide, dopo il ritorno dei paolisti amnistiati, e formati con volontari non soggetti a coscrizioni, i battaglioni furono reclutati in poche settimane.

Il 24 settembre 1803 il comandante della Corsica, il Generale Morand, comunicava i nomi degli ufficiali dei primi due battaglioni (Ajaccio e Bastia). Tutti Córsi, tranne gli aiutanti maggiori (Francois Serres e Pierre Louis Perrier) e Camille Guye, futuro aiutante di palazzo di Murat, e Laurent Reynand, scelti fra i veterani delle guerre della rivoluzione. I capi battaglione erano tutti di origini italiane: Francesco Bonelli, Ignazio G. B. Caraffa, Angelo Ognissanti Bonelli (fratello di Francesco), Giovanni Peretti d’Olmeto e Giuseppe Gentili. Le nomine furono approvate il 12 marzo 1804.

Le truppe furono da subito al servizio della volontà imperiale di annullare ogni residua contestazione al neo regime bonapartista. In particolare nel dicembre del 1804 il 4° battaglione si distinse nella repressione del brigantaggio nel Liamone: Peretti, conosciuto personalmente da Napoleone, e il capitano Carabelli, che godeva di molta influenza nell’Isola e si era più volte opposto agli sbarchi inglesi, furono proposti per la legion d’onore. La creazione della Legione Córsa e la campagna del 1805 si materializzarono in vista della guerra contro l’Austria. Con il decreto del 25 maggio 1805 i battaglioni furono riuniti in una “Legione Córsa” con esplicito richiamo a quella del 1769-75, inquadrata dal colonnello Leonardo De Giovanni di Bastia. Questi aveva servito nella vecchia Legione e nei corpi in cui si era poi trasformata, prima in Royal Córse, e poi in Chasseurs royaux Córse, nonché nell’Armeé d’Italie, ed era ufficiale della Legione d’onore del maggiore Bernardo Luigi Cattaneo di Ajaccio.

Molti Córsi credettero di non avere più la possibilità di riscattare, se non attraverso i Bonaparte, un ruolo di prestigio per l’Isola. Sono ormai lontane la volontà dei Córsi di dichiararsi indipendenti, piuttosto che un qualsiasi rigurgito nazionalista, sulla scia del pensiero del Paoli. II vero nazionalismo, adesso, risiedeva nei Bonaparte, peraltro certamente non plebiscitari, i quali, astutamente, si servirono di un contesto rivoluzionario permanente, come ci fu sempre in Corsica, per i loro scopi.

Al 1° febbraio 1806 l’aliquota della Legione distaccata ad Ancona contava 960 effettivi, incluso il battaglione scelto che fu assegnato al corpo centrale dell’Armèe de Naple e poi inviato al campo di Gaeta. Giunti a Mola il 27 febbraio, ai Córsi furono assegnate le trincee di destra, verso il golfo di Serapo. Durante un’ispezione notturna caddero il capitano Simone Santolini e tre soldati uccisi da una cannonata: altri due furono uccisi durante un’ispezione diurna del capitano Domenico Cesare Franceschetti (trasferito il 1° aprile nella Guardia Reale insieme coi tenenti Giuseppe Camillo Baciocchi e Antonio Ponte e con quaranta carabinieri). Fu assolto il tenente Giovanni Cosimo Buttafoco, deferito alla corte marziale per non aver avuto il coraggio di gettarsi in acqua, mancando così la cattura di una lancia nemica. Al momento della sortita del 25 aprile, il battaglione era al campo dietro il Montesecco, impegnato nella pulizia delle armi. La guardia alle trincee, comandata dal sottotenente Sebastiani, fu fatta a pezzi (il tamburino Colombani finito a calcio di fucile mentre tentava di battere la generale). Secondo l’epopea del Real Córso, i borbonici furono contrattaccati alla baionetta dai pionieri iberici, che si trovavano più vicini, seguiti dai Córsi. Secondo la versione borbonica la colonna di sortita fu fatta rientrare nella piazza prima dell’arrivo delle truppe nemiche. La relazione francese minimizzava, ma confermava che i Córsi avevano un ufficiale ucciso (Sebastiani) e uno ferito all’occhio (Gentili)».[3]

Con occhio vigile Giuseppe Bonaparte, nei due anni che rimase al potere a Napoli prima dell’avvento di Murat, seppe riconoscere nel fratello Imperatore una spregiudicata politica militare che non esitò a rinfocolare antichi rancori e soprattutto a scaricare le truppe córse a Napoli, sulle spalle del fratello in termini di gestione economica.

Vengono trattati, nelle questioni proposte, gli spostamenti di quei patrioti córsi che potremmo tranquillamente considerare, sia durante le loro manovre come legionari, sia in epoca risorgimentale, dei Córsi in trasferta.

Il 12 aprile, durante il viaggio nelle province meridionali, Giuseppe Bonaparte aveva osservato che i Calabresi assomigliavano ai Córsi dell’interno «montagnards!»: erano «très susceptibles d’émotions violentes».

Il 21 Napoleone scriveva che le truppe leggere erano «excellentes pour la guerreaux brigands» e di prendere al suo servizio Polacchi, Svizzeri e Córsi, «qui, comme les troupes italiennes, parlent la langue du Pays». L’Imperatore aggiungeva il 27 che la lingua e i costumi rendevano i Córsi «très propres à la guerre de montagne»: prendendo la Legione al proprio servizio, il Re poteva incorporarvi anche Calabresi e Napoletani, continuando a reclutarla in Corsica: sapeva, del resto, che c’era già stato un reggimento córso al servizio napoletano [reclutato da Fabiani nel 1741, comandato nel 1755 da Fonseca, sciolto nel 1765 e incorporato al R. Farriere]. Il 15 maggio 1806, mentre subiva altre perdite nella maggiore sortita borbonica da Gaeta, il Re Giuseppe annunciava al fratello Imperatore che erano appena arrivati «tous les Corses qui avaiente ètè au service des Anglais à Naples» e che li avrebbe fatti rientrare ai loro dipartimenti: «ils mes les émpesteront», gli rispondeva Napoleone il 25 maggio; non doveva mandarli in Corsica, ma ad Alessandria, e spedirgli subito l’elenco, per vedere «à en former un corps». Intanto era arrivato da Ancona il resto della Legione: il 21 maggio il 3° battaglione si arrestò a Itri e Fondi, il 2° a Minturno, e al ponte del Garigliano, il 1° in guarnigioni costiere dal Cilento alla Calabria. Poiché dopo la sortita borbonica e l’arrivo della squadra inglese l’assedio di Gaeta era stato convertito in blocco, il 28 maggio il battaglione scelto (Carafa) fu ritirato dal campo e trasferito a Salerno, a sostegno del 1°.

Il 5 giugno il Re comunicava di aver respinto la richiesta degli ufficiali anglo-corsi di entrare al servizio di Napoli piuttosto che della Francia, perché non gli davano affidamento. Il 13 dello stesso mese Napoleone rispose di mandargli lo stato nominativo: se, come diceva il Re, avevano lasciato la Corsica da poco tempo, non rientravano nell’amnistia ed avrebbero dovuto farli arrestare per ribellione ed inviarli a Fenestrelle invece che ad Alessandria; doveva scrivere subito al Vicerè d’Italia e ai Generali di Parma e Torino di farli arrestare al loro passaggio. L’11 giugno Napoleone aveva inoltre ordinato di ritirare i Córsi da Gaeta e di mandarli in Calabria: era fuori dalle regole («il n’y a pas d’exemple») mettere truppe inesperte («nouvelle») in trincea; non c’erano truppe più inadatte («maladroites… moins propres») dei Córsi per la trincea mentre in Calabria sarebbero state al posto giusto, «à sa place». Il 20 il Re rispose di aver già da tempo fatto trasferire i Córsi: erano già riuniti in due gruppi a Pontecorvo e Avellino in attesa di poterli mandare in Calabria, non appena caduta Gaeta. Finalmente, con decreto imperiale del 30 giugno 1806, la Legione Córsa fu trasferita al servizio e al soldo del Re di Napoli. Era l’unico caso di un corpo francese al servizio estero, anche se l’anomalia era in parte attenuata dal fatto che si trattava di una unità di volontari non soggetti a coscrizione. Il trasferimento dal commissariato francese all’intendenza napoletana fu rogato il 9 luglio. Visto l’inventario, Re Giuseppe si rese conto del vero motivo per cui il fratello ci teneva tanto a rifilargli la Legione: gli scrisse infatti l’11 di luglio, in tono risentito, che gliela aveva consegnata «nuda e con tre mesi di soldo arretrato».

Ma che cosa accadde davvero in Corsica, una volta che Napoleone I perse il potere? Le idealità che erano state di Pasquale Paoli, d’indipendenza e comunanza culturale con l’Italia, furono nuovamente abbracciate? I membri della Legione continuarono a sostenere i napoleonidi superstiti?

Scrive negli anni Quaranta del XIX secolo Giuseppe Mazzini: «Giunsi da Tolone, sopra un legno mercantile napoletano, attraverso il mare più tempestoso ch’io abbia veduto mai, a Bastia. Là mi sentii nuovamente, con gioia di chi rimpatria, in terra italiana. Non so che cosa abbiano fatto dell’Isola, d’allora [1831] in poi, l’insistenza corruttrice francese e la colpevole noncuranza dei Governi d’Italia; ma nel 1831 l’Isola era italiana davvero: italiana non solamente per aere, natura e favella, ma per tendenze e spiriti generosi di Patria. La Francia vi era accampata. Da Bastia ed Ajaccio in poi, dove l’impiegatume era di chi lo pagava, ogni uomo si diceva d’Italia, seguiva con palpito i moti del centro e anelava ricongiungersi alla grande Madre. Il centro dell’Isola, dov’io feci una breve corsa con Antonio Benci, toscano, collaboratore dell’Antologia e ricoveratosi, per minaccia di persecuzioni, in Corsica, guardava unanime ai Francesi come ai nemici. Quei ruvidi ma buonissimi montanari, armati quasi tutti, non parlavano che di recarsi a combattere nelle Romagne, e c’invocavano capi […]. La Carboneria, recatavi dai profughi napoletani, era allora dominatrice dell’Isola e i popolani ne facevano quel che ogni uomo dovrebbe fare di un’associazione liberamente accettata, una specie di religione […]. Sfumata ogni speranza d’azione e consunti i pochi mezzi ch’io aveva, lasciai la Corsica».[4] Qui Mazzini non ci dice dei suoi numerosi contatti a Londra col patriota Luigi Angeloni e col Generale Sardo Alessandro De Rege di Gifflenga, coinvolto già nei moti del 1821 e che poi sarà graziato e ben accolto da Carlo Alberto. Un Carlo Alberto come ben sappiamo, amletico, ma non sordo ai più disparati richiami rivoluzionari.[5] Mazzini in specifico non chiarisce a sufficienza quanto quei «ruvidi montanari» di cui parla potessero essere invischiati con alcuni seguaci del Paoli prima, e dei napoleonidi poi, nelle questioni isolane del periodo, in accordo con alcuni Principi della Penisola. E non ultimi, i Bonaparte.

Ecco di seguito evidenziate le singolari coincidenze che si rilevano tra le note proposte dal professor Ilari e la pubblicazione di padre Gioacchino Prosperi, ammiratore del Paoli ma anche del partito bonapartista, pubblicazione del 1844. Ivi rinveniamo (e nel caso di Prosperi si tratta di «riferimenti missionari» di stampo politico) patrioti appartenenti a famiglie schierate sul versante dell’«indipendenza» córsa che lo sostennero con fervore. Mi riferisco ai Sebastiani, ai Grimaldi, ai Savelli, ai Cattaneo. Cercherò dunque, di seguito, di chiarire la pertinenza di tale osservazione.

Dei Sebastiani ho fatto precedentemente cenno. Quando nel 1830 si trattò di nominare il nuovo Arcivescovo, essendoci sull’Isola una contesa in atto fra il clan formato da questa famiglia, considerata politicamente di stampo «moderato», poiché perorarono la causa per breve periodo di Luigi Filippo, ed i Pozzo da Borgo, che videro nel famoso ministro dello Zar prima e dei Borbone restaurati poi il depositario della Restaurazione medesima, a Roma si profilò l’opportunità di chiamare al soglio arcivescovile Casanelli d’Istria, che oggi definiremmo «uomo del dialogo», scongiurando così che un membro dell’una o dell’altra famiglia potesse accaparrarsi la carica arcivescovile.

In verità il dialogo non durò molto, visto che Luigi Filippo scoprì presto le sue carte, non dichiarandosi certamente disposto a fare concessioni di sorta agli isolani. Il partito bonapartista riprese dunque piede in Corsica, proprio in quel preciso momento, nei primi anni Trenta. L’aver Roma scongiurato soprattutto l’avvento sul soglio arcivescovile di un membro del clan dei Pozzo Da Borgo, peraltro cugini dell’Imperatore ma in rotta di collisione con l’ormai potentissima famiglia Bonaparte, dette agio agli stessi Bonaparte, con Casanelli sul soglio arcivescovile, di avere una qualche possibilità di riscatto in Patria. In tale luce si inquadrano i sommovimenti che videro i patrioti italiani di ogni colore qui protagonisti.[6]

Un Grimaldi di Bastia, la cui famiglia è citata da padre Prosperi e presente anche nelle citazioni dello storico Ilari, andò a combattere nelle Romagne, come ci ricorda l’erudito Ersilio Michel. Quel Grimaldi aveva sposato, fra l’altro, una nipote di Casanelli d’Istria, l’Arcivescovo così fortemente voluto in Vaticano da forze solo apparentemente conservatrici (vedi Monsignor Bartolomeo Pacca, ex Segretario di Stato di Pio VII, che Prosperi non mancò di ricordare in un’orazione funebre[7]).

Grimaldi, nonostante la sua esplicita adesione alle vicende rivoluzionarie liberali del periodo, riuscì ad operare «in modo piuttosto indisturbato» nelle Romagne.[8] D’altra parte come non sottolineare ad esempio che l’allora Rettore del Collegio Clementino di Roma è quel padre Francesco Galli, Chierico Regolare Somasco, congiunto di Fiorenzo Galli, il patriota piemontese graziato proprio in Roma, dove visse indisturbato per un certo periodo, il cui genero, Gioacchino De Agostini sarà in quegli anni coinvolto in palesi moti insurrezionali córsi di stampo bonapartista, non andati a buon fine? La Roma papalina legata ai Colonna sostenne a spada tratta i Bonaparte.

Ancor più lustro della precedente famiglia isolana dei Grimaldi, i Savelli di Corsica. Si tratta dell’omonima famiglia che in Roma alla fine del Settecento ebbe gli ultimi discendenti diretti. Ma i Savelli continuarono ad avere peso politico, ad esempio i Savelli, marchesi di Pietramala di Calabria, e i Savelli di Corsica, rami collaterali. Uno di loro, Raffaele, in quegli anni fu di stanza in Vercelli, come ci ricorda lo stesso giornalista, erudito e patriota Gioacchino De Agostini, citato.[9] I Savelli di Corsica furono bonapartisti. Ed anch’essi sono menzionati dal professor Ilari.

Ma osserviamo ancor più attentamente, quasi come «sorvegliati speciali», i Cattaneo di Corsica. Nel testo del professore alcuni episodi videro il battaglione Gentili prima in Calabria, poi nel Cilento, nel luglio del 1806, con arruolati sia i Savelli che i Cattaneo. Nel periodo in cui ci fu il riordino del Reggimento Real Córso a Gaeta, il Cattaneo ivi presente fece carriera. Distaccato a Napoli il 14 ottobre 1806, e sostituito interinalmente da Guye, il 25 dello stesso mese fu insignito dell’ordine delle Due Sicilie e nominato scudiere del Re, pur restando colonnello titolare della Legione Córsa. Ricordo che Nicola Cattaneo, dei Cattaneo di Corsica, cugino del Baciocchi, morì in Sant’Alessio di Lucca nel 1875. Gioacchino Volpe scrisse che se fossimo in possesso delle sue carte e delle carte dei suoi congiunti potremmo riscrivere la nostra storia nazionale, tanto fu il loro peso politico in quegli anni cruciali.[10]

Si fa cenno sia nel testo dello storico Ilari che nel testo del 1844 ai Baciocchi, anche se con discrezione, per opportunità politica.

I Baciocchi furono dapprima presenti nella Legione Córsa, poi, in seguito, si adopereranno in ogni modo per rivendicare l’«italianità» dell’Isola con altre formule politiche.

Scrive il professor Ilari sulla Legione: «Nel 1808 a Giuseppe Bonaparte subentrò a Napoli il Murat, e il tenente Baciocchi, (un membro della famiglia ivi presente) fu l’unico ufficiale córso della Legione a seguire il Re Giuseppe».[11] Una volta caduto Napoleone, il ruolo cospirativo dei Baciocchi negli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo non venne meno, anzi si consolidò. Meritano perciò di essere ricordati alcuni episodi verificatisi proprio in quegli anni.

«Affermazione vecchia sempre nuova: se si vogliono conoscere le reali vicende del nostro riscatto nazionale, bisogna rifarsi, in gran parte, alle fonti costituite, non alle testimonianze dirette degli assertori della libertà, ma ai dati forniti dagli elementi più interessati al mantenimento dei regimi conservatori e reazionari. E fra questi, particolare valore hanno gli incartamenti diplomatici. Le notizie più importanti e più gravi, che i confidenti della polizia austriaca e della borbonica, bene organizzate, riuscivano a trasmettere, con la massima segretezza, ai loro superiori diretti, erano dei capi di queste stesse polizie, comunicate quanto e come credevano, ai rappresentanti di quei governi, che avrebbero potuto trarre il maggior vantaggio dalla conoscenza dei rapporti ricevuti. E si era così formata una rete fittissima di dati e di fatti sull’opera dei nostri rivoluzionari, di ogni parte della Penisola, nella quale dovevano incappare anche i sollevamenti, le cospirazioni organizzate e preparate con perspicua capacità, come quelle della Giovane Italia […]. In tanta attività, per prevenire qualsiasi movimento insurrezionale non si aveva da parte degli elementi responsabili riguardo a persona di sorta, appartenesse essa pure al più alto grado sociale. Così il 31 gennaio 1833 si comunicava in Piemonte: “Il Regio Governo di Novara con suo foglio confidenziale del 14 cadente mese mi diede notizia che il signor Felice Baciocchi di Ajaccio, colonnello della Guardia Nazionale in Corsica, era giunto alla frontiera d’Iselle, proveniente da Ginevra, per recarsi a Firenze con dispacci per l’ambasciatore di Russia colà residente; che fu poi trattenuto per misure sanitarie, ma che essendo poscia le medesime state rivocate, gli si permise il libero passaggio nei Regi Stati, sopraggiungendomi però che siccome questo individuo nel novembre del 1830 era segnato qual persona da sorvegliarsi, così la Regia Segreteria di Stato agli Interni, nel raccomandare di tenerlo d’occhio sino alla sua uscita dal Piemonte, avrebbe inclinato a credere affatto inutile di dare un cenno alla Polizia austriaca della di lui entrata in Lombardia.[12] In seguito a ciò, per guadagnar tempo, presentai in via confidenziale la stessa comunicazione a questo signor consigliere aulico direttore generale della Polizia, il quale alla sua nota riservata del 28 gennaio numero 356, che rassegno qui compiegata a Vostra Signoria illustrissima ed Eccellentissima, mi rende distintamente ragguaglio della circostanza riflettenti il signor Baciocchi in discorso, che pare escludano qualunque sospetto sul di lui conto, delle quali, ad ogni buon fine, ne porgo analoga notizia al sullodato Regio Governo di Novara”.[13] […]

La Francia di Luigi Filippo a suo modo costituiva informalmente una minaccia per la Corsica bonapartista, se voleva davvero attuare i suoi propositi di unificazione nazionale e/o federale. Perché pare ci fosse in ogni caso una qualche coincidenza tra Luigi Filippo ed alcuni rivoluzionari meno accesi. Questo in una nota riservata del De Maistre al Falquet da Parigi».[14] In Archivio di Corsica, da cui è tratto il brano, si legge in nota che non è stato possibile, per quante ricerche si siano compiute nei diversi inserti del Ministero degli Esteri Sardo, rintracciare il documento. Non si sono potuti trovare altri atti che sarebbero stati utilissimi ad intelligenza maggiore sull’argomento.

Nel volume di corrispondenza fra il Ministro degli Esteri e l’ambasciatore sardo in Parigi si annunziano spesso lettere cifrate le quali contenevano preziose notizie tanto sul Baciocchi che su altre personalità: ma non ne esiste traccia. Persona assai addentro nelle cose mi diceva che solo fino al 1815 si usò unire ai dispacci comuni quelli cifrati debitamente interpretati: dopo il 1815 questi ultimi si inserirono in buste particolari e non si sa che ne sia avvenuto.

A Livorno il console sardo Spagnolini segnalava la presenza sospetta di Córsi in città.

Agosto 1830: scambi col console sardo a Bastia rientrerebbero nelle preoccupazioni sarde. Il futuro capo della polizia sabauda, il conte Lazzeri, in alcuni casi sembrò più morbido di quanto comunemente si crede sul suo ruolo, certamente più del Della Torre… Ma davvero problematica per la polizia sarda e toscana era la condotta da tenersi con il Principe Felice Baciocchi, pronipote diretto dell’antico signore di Toscana. Questo Felice era figlio di Francesco, unico sopravvissuto alla famiglia generata da Giuseppe Antonio Baciocchi, fratello del marito di Elisa Bonaparte.[15] Si riallacciava alla famiglia dei Napoleonidi: marito di una nipote del Pozzo da Borgo, aveva diritto al più profondo rispetto dalle autorità costituite che sapevano che cosa volesse dire affrontare l’ira córsa del potente ministro dello Zar.

E come il nome dello zio influisse sopra la coppia Baciocchi ci dà idea lo stesso Spagnolini, il quale da Livorno, riferendo ai primi di gennaio 1830 sopra le condizioni sanitarie della città di Pisa funestata da terribile epidemia, dava particolarmente conto dello stato sanitario della famiglia Pozzo da Borgo e di Marietta, Principessa Baciocchi.[16] Il Metternich soffiava nel fuoco ed accoglieva le confidenze di Giuseppe Bonaparte e riceveva il conte di Otranto e faceva sentire il peso della minaccia ed il significato del suo appoggio mostrando al Generale un piano confidatogli nel quale era indicata la via che avrebbe percorso il duca di Reichstadt, divenuto Napoleone II, per riavere la corona strappata a suo padre dalle potenze europee. In Italia i discendenti fratelli del grande Imperatore, in Bologna ed in Roma, mirando alla restaurazione della loro famiglia, contribuivano con ogni mezzo, specie il finanziario, alla preparazione di moti i quali in un modo o nell’altro avrebbero favorito i loro disegni.[17] [18] Il Metternich, che si sarebbe mostrato implacabile poco tempo dopo verso i napoleonidi compromessi nella insurrezione[19], qualificava (nei primi anni Trenta) la sollevazione come dovuta unicamente alla famiglia Bonaparte seguita e favorita da anarchici francesi. (A questo scopo) veniva in Italia il Baciocchi dirigendosi verso uno dei più attivi centri rivoluzionari della Penisola. Mentre in quei giorni sua cugina Elisa tentava con ogni mezzo di abboccarsi con il figlio di Maria Luisa e dava non pochi grattacapi allo stesso Principe di Metternich, il Principe Austriaco si preparava a collaborare con i Baciocchi ed il Murat, che in Bologna tenevano viva la fiaccola napoleonica, in barba agli interessi dello Stato Pontificio. Il maresciallo Maison, in quel volger di tempo scriveva al Sebastiani che in Livorno si organizzava una legione di dodicimila uomini, la quale non doveva dare alcuna preoccupazione al cancelliere austriaco perché la si diceva assoldata nell’interesse di Napoleone II.[20] Esagerazione a parte, è discussa la possibilità che i rivoluzionari italiani avessero voluto spendere la loro vita per un Principe che non era il loro e per una idea diversa dalla indipendenza della Patria, è certo che Felice Baciocchi doveva costituire una sorta di minaccia per i governi conservatori. Associandosi con il conte di Bourmont nello scopo di contribuire al rovesciamento della monarchia di luglio e non attraversando le mire dell’implacabile antinapoleonico zio, egli non pur favoriva ma provocava, agevolava il movimento insurrezionale, il quale, affermatosi eventualmente in Italia, avrebbe potuto essere l’inizio di una azione a fondo contro la dinastia degli Orleans. E gli era tanto più facile agire in Livorno quanto più in questa città era ancor viva la massoneria alla quale egli, qual napoleonide, apparteneva e di cui faceva parte il Bourmont, come i suoi Principi e forse la duchessa di Berry.[21] Nella poco esatta separazione fra questa società segreta e la Carboneria, che esisteva nel Granducato, non era difficile servirsi dell’una e dell’altra per conseguire lo scopo. Per questa ragione il rapporto poliziesco, poco addentro in tutti i meandri della intricata questione, qualificava il Baciocchi ed il Bourmont emissari della setta rivoluzionaria nella quale coinvolgeva tutti i fautori di libertà e di indipendenza. Lo Spagnolini spediva da Livorno nel 1830 al suo Ministro (De La Tour) note particolari sulla generale condizione politica del Granducato. Stando così le cose è evidente che la presenza in Livorno del Bourmont e quella, in particolare, del Baciocchi, dovesse essere poco accetta alle autorità toscane e alle piemontesi stesse, le quali comprendevano che, in un luogo o in un altro, il Principe napoleonide avrebbe lavorato a pro della idea insurrezionale. E tali preoccupazioni derivavano non pure dalla conoscenza generale degli avvenimenti, ma dalla diretta osservazione condotta sopra la famiglia Baciocchi a Livorno. La quale si era circondata di rispetto per le ricchezze e per la parentela con i Pozzo da Borgo, era sorvegliata per la sua relazione col bonapartismo. Una relazione del Governatore di Livorno, scritta in quel volger di tempo al Ciantelli, parlava espressamente di Francesco Baciocchi, padre del nostro Felice e nipote del Principe consorte di Elisa Bonaparte, verso il quale sarebbe stato provvidenziale prendere una qualche disposizione.[22]

Il Michel, nella sua pubblicazione sul Guerrazzi,[23] scrive che l’influenza del Torresani, che teneva moglie a Livorno, si fece sentire immediatamente in Piemonte. Seguirono difficoltà del Baciocchi nel 1833, proveniente da Ginevra, a proseguire il viaggio alla frontiera sarda. Si riferisce che il De La Tour fece comprendere al collega degli Interni Tonduti che il delicato organismo della diplomazia europea celava retroscena più complicati sotto il manto ufficiale, ed aveva compreso l’inopportunità di insistere contro un corriere diplomatico protetto dall’egida del potente ambasciatore russo in Parigi. Diede a divedere al suo collega degli Interni di avere intuito ciò che egli desiderava. Fece dunque cessare una delicata pratica d’alta polizia condotta da mani poco esperte e da menti ottuse che poteva degenerare in una seria contesa diplomatica. Ma gli statisti che nel 1833 reggevano il Piemonte erano troppo intelligenti ed esperti per non uscir con onore dalle più intricate questioni. A Felice Baciocchi non fu più recata molestia alcuna dalla polizia sarda. Perché non assecondare la causa dei Baciocchi, si saranno chiesti a Torino, quando Vienna, almeno fino alla morte del figlio di Napoleone, non fece altro che un doppio gioco, tenendo sulla corda i vari Sovrani della Penisola? E per quale ragione avrebbe dovuto Carlo Alberto, una volta giunto al potere, dimenticare le mire inglesi sulla Corsica, non più confacenti alla sua politica estera, e dunque sostenere sottobanco i Bonaparte che in Corsica avevano un così vasto consenso politico?

Il quadro storico che di fatto oggi noi conosciamo attraverso la storiografia ufficiale è ben diverso da quello che i patrioti e gli stessi Bonaparte auspicarono tra gli anni Trenta e Quaranta per la Corsica e per l’intera Italia. Pasquale Paoli rappresentò in quel periodo solo un lontano richiamo. Alcuni suoi valori certamente lo furono, ma con la sua caduta si era dissolta in un nulla di fatto la possibilità di rivendicare una qualche italianità dell’Isola, avulsa da legami esterni. Ci si affidò, così appare da carte rinvenute, ai vari Sovrani della Penisola che si adoperarono per cercare alleanze, anche con i Bonaparte.

La volontà federale dei patrioti di ogni colore, che poteva contenere un eventuale inserimento dell’Isola in un’orbita bonapartista ancora di stampo rivoluzionario lasciò poi spazio alla politica imperialista di Napoleone III. Ancora una volta le speranze indipendentiste córse vennero meno e, con queste, un possibile inserimento nella compagine italiana dell’Isola. Ma in quel preciso momento tutte le istanze federaliste italiane andarono ad infrangersi contro la complessa realtà del Paese.


Note

1 Professor Virgilio Ilari, docente di storia militare per un lungo periodo all’Università Cattolica di Milano, dove si è formato. Ha fatto parte della bicamerale per le stragi voluta negli anni Novanta in qualità di esperto militare.

2 Archivio di Stato di Lucca, legato Cerù, riferimento 18, carte di padre Gioacchino Prosperi.

3 Virgilio Ilari, citato.

4 Alessandro Luzio, Giuseppe Mazzini Carbonaro […], Torino, edizioni Bocca 1920.

5 Oreste Dito, Massoneria, Carboneria ed altre Società Segrete nel Risorgimento italiano, pagina 339 e seguenti, anno di pubblicazione 1905.

6 Ersilio Michel, Esuli italiani in Corsica, 1933.

7 Ne La Corsica e i miei viaggi in quell’Isola, citato.

8 Ibidem.

9 Gioacchino De Agostini, Il palazzo dei Cesari a Roma, le sue rovine e gli scavi, Vercelli, Fratelli Guglielmoni 1871.

10 Biblioteca di Stato di Lucca, Archivio di Corsica, rivista Cessata 669. Vedere anche: Archivio di Stato di Lucca, Carte Cattaneo.

11 Virgilio Ilari, citato.

12 Archivio di Stato di Torino, Consolato, Milano 1833.

13 Per chi conosca quanto riguardoso fosse il Gaetti De Angeli verso il Torresani sì utile al governo sardo per essere al corrente delle mene rivoluzionarie e per la natura stessa delle circostanze, esigenti cordiali rapporti fra l’Impero e la Sardegna, non può non riuscir nuovo quel certo dissenso, accortamente manifestato nelle ultime parole del succitato rapporto. Il console sardo accettava quel che gli veniva riferito, ma non condivideva il giudizio espresso: segno che qualcosa doveva essere di diverso fra il suo modo di vedere e il criterio del potente ministro dell’Imperial Real Polizia. Il quale così si esprimeva al proposito: «La ringrazio, signor Console, della confidenziale comunicazione che ella ha voluto farmi della nota del signor Governatore di Novara del 14 gennaio corrente, relativa al signor Felice Baciocchi di Ajaccio. Mentre ho l’onore di qui retrocederla, stimo utile di comunicarle le ultime notizie raccolte sul conto del suddetto Baciocchi le quali potrebbero almeno in parte dissipare i sospetti contro il medesimo, elevatisi sino dall’epoca in cui ebbe ad approdare a Nizza ed indi nel golfo di La Spezia con diversi altri individui. Poco tempo dopo la rivoluzione avvenuta nella Romagna nell’anno 1831 mi pervenne dalla Superiorità un elenco di individui i quali avevano presa la parte più attiva in quegli avvenimenti e vi era pure annoverato un Principe Felice Baciocchi. Fu in quell’incontro che ordinai il respingimento di quell’individuo ogni qualvolta avesse a comparire sulla frontiera della Lombardia. Ora, come ella sa, si presentò nel giorno 15 corrente sul confine di Sesto Calende il colonnello della Guardia Nazionale di Ajaccio Felice Baciocchi, enunziato di sopra. Le indagini però ed investigazioni praticate in tale incontro ebbero per risultato che il Baciocchi partito da Parigi sul principio di questo mese è altrimenti che il Principe. Altri non è che Felice Baciocchi, nipote del cognato di Napoleone, imputato di aver fatto dei ragguardevoli doni gratuiti per la causa della indipendenza italiana, benché porti il di lui nome e cognome. Tolto questo equivoco si permise che egli progredisse fino a Milano. Qui egli ebbe a deporre che sul finire del 1830 si imbarcò a Marsiglia sul battello a vapore in compagnia del Conte di Belmont […]». (Il Baciocchi era considerato dall’Austria un rivoluzionario però a Milano si cercò da parte austriaca di minimizzare il più possibile il ruolo del Baciocchi, la cui consorte Marietta Pozzo da Borgo era nipote del celebre ministro austro-ungarico vicino sia agli Zar che all’Impero Asburgico. Obiettivo prioritario dell’Austria era indebolire Luigi Filippo d’Orléans. Non ne era certamente convinto l’ambasciatore piemontese a Milano Gaetti De Angeli. Della Torre, che era il Ministro Sardo degli Interni, ufficialmente cercava di minimizzare. Ma (pagina 196) con quale diligenza si provvedesse a salvaguardare lo Stato da ogni specie di pericolo rivoluzionario ci confermano due lettere segretissime del Della Torre, indirizzate al De Sales, Ministro Sardo a Parigi, l’altra al d’Oncieux, in Chambéry. Archivio di Stato di Torino – Ministero degli Esteri – Registro di corrispondenza confidenziale numero 20).

14 Felice Baciocchi cospiratore in Italia (1833), Archivio Storico di Corsica, luglio-dicembre 1927, V-VI, pagina 187.

15 Marmottan, Elisa Bonaparte, Paris, Champion 1898, pagina 80, nota 3.

16 Archivio di Stato di Torino, Consolati – Livorno 1830.

17 Canevazzi, Memorie di Francesco Cialdini, Roma, G. Segati 1924, confronta pagine 5, 94, 146.

18 Mazziotti, Napoleone III e l’Italia, Milano, Unitas 1925, pagina 12 e seguenti.

19 G. Canevazzi, citato.

20 Cialdini, citato, pagina 213, vedere riferimento nota 3.

21 Alessandro Luzio, La Massoneria ed il Risorgimento italiano, volume I, pagina 205, pagine 252-253.
Appendice Prima al libro III: Luigi Bonaparte massone ed alleato di Mazzini nel 1839, pagina 257 e seguenti. Vedere Alessandro Luzio, Carlo Alberto e Giuseppe Mazzini: studi e ricerche di storia del Risorgimento, Torino, Fratelli Bocca 1923.

22 Ersilio Michel, F. D. Guerrazzi e le cospirazioni politiche in Toscana (1830-1835), Roma, Albrighi Segati, pagine 40-222.

23 Ibidem, pagina 222.

(luglio 2013)

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