Napoli 1799
Una breve rivoluzione atipica nel segno della borghesia

La storia d’Italia abbonda di eventi in rapida successione, molti dei quali apparentemente contraddittori. In tale ambito, un caso emblematico è quello della Rivoluzione napoletana del 1799 che diede vita effimera all’omonima Repubblica, nata sull’onda delle vittorie francesi e degli analoghi tentativi libertari esperiti nella creazione delle Repubbliche Cispadana e Cisalpina, poi di quella romana, e poco più tardi di quelle toscane. Il trionfo dei nuovi ideali di libertà, eguaglianza e fraternità aveva aperto nuove speranze negli spiriti più moderni ma aveva trovato opposizioni significative negli ambienti conservatori, a cominciare da quelli cattolici che non potevano essere insensibili alle stragi compiute dalle forze rivoluzionarie, talvolta con singolare efferatezza come accadde in Vandea, in Provenza o a Lione, e non soltanto in Francia.

La Repubblica Partenopea sorse a seguito delle operazioni borboniche contro lo Stato Pontificio compiute alla fine del 1798, che dopo l’iniziale successo videro la fuga precipitosa dell’esercito napoletano a seguito della sconfitta di Civita Castellana per opera dei Francesi guidati dal Generale Championnet col supporto degli alleati cisalpini. Mentre il Re Ferdinando IV aveva cercato scampo in Sicilia, la capitale borbonica rimase in balia del popolo minuto costituito dai cosiddetti «lazzaroni» che opposero un’accanita resistenza agli invasori transalpini (questi lamentarono un migliaio di caduti) cessata dopo qualche giorno di scontri, anche all’arma bianca: cosa che spiega il sollievo della popolazione borghese all’arrivo dei Francesi e la proclamazione della nuova Repubblica per iniziativa della classe media e di una parte minoritaria dell’aristocrazia.

Nel gennaio 1799, praticamente in tempo reale venne proclamata una Costituzione che si richiamava ai principi dell’Ottantanove e statuiva l’avvento delle libertà fondamentali, pur consapevole di un contesto sociale certamente immaturo; nondimeno Championnet si dimostrò molto attento nel riconoscere le suggestioni religiose del popolo, partecipando anche alle «liquefazioni» del sangue di San Gennaro che avvennero puntualmente, nonostante il successo delle armi giacobine.

Il destino delle nuove Repubbliche, che sarebbe stato particolarmente tragico per quella napoletana, venne accelerato dalla crisi francese indotta dalle avventure napoleoniche nel Medio Oriente e dalle sconfitte intervenute in Italia nella primavera del medesimo 1799 davanti all’esercito austro-russo agli ordini del Generale Suvorov, con particolare riguardo alla battaglia di Cassano d’Adda e a quella della Trebbia, che indussero le forze di occupazione a ritirarsi verso la madrepatria: tra l’altro, rendendosi responsabili di delitti e angherie, come nell’eccidio consumato nell’Abbazia di Casamari a danno dei monaci.

Le forze della controrivoluzione ne trassero immediato vantaggio, in specie nelle zone a più forte presenza «sanfedista» come il Casentino, dove si svilupparono i moti del «Viva Maria» che ebbero momenti di vera e propria guerra civile; ma soprattutto nel Mezzogiorno, dove il Cardinale Fabrizio Ruffo si fece promotore di una crociata popolare partita dalla Calabria per giungere fino a Napoli dopo aver avuto ragione di ogni possibile resistenza: in giugno, la Repubblica cadde dopo sei mesi di vita, a seguito di una resa concordata con lo stesso Ruffo, il quale diede prova di imprevista moderazione lasciando ai vinti la possibilità di trovare rifugio in Francia.

Nondimeno, le condizioni dell’armistizio vennero annullate dall’Ammiraglio Nelson, che dopo la vittoria di Abukir era padrone incontrastato del mare e che, giunto a Napoli con la sua flotta, impedì la partenza dei rivoluzionari avendo il supporto del Re Ferdinando IV, in procinto di tornare nella sua capitale, e prima ancora, quelli della Regina Maria Carolina per cui i soli sudditi fedeli erano i lazzaroni, e di Lady Emma Hamilton, amante di Nelson, che non faceva mistero delle proprie simpatie illiberali. Per la Repubblica, la fine fu davvero tragica, con 120 sentenze capitali prontamente eseguite dopo le solerti istruttorie di Vincenzo Speziale, autentico persecutore dei repubblicani, come da puntuali testimonianze di Vincenzo Cuoco, il primo grande storico della Rivoluzione napoletana.

L’elenco dei condannati e del loro ruolo nella vita socio-economica locale è oltremodo chiaro. Oltre due terzi appartenevano alla borghesia ed esercitavano attività professionali in campo legale, ma non mancavano diversi appartenenti alla nobiltà, e persino agli Ordini religiosi, che avevano salutato con fiducia l’esperienza repubblicana nella speranza di poterla mitigare alla luce della fede; analogamente, il «tradimento» fu pagato con la vita anche da parecchi esponenti della classe militare che si erano illusi di poter contribuire al nuovo corso governato dai «sacri principi» della Rivoluzione. Al contrario, quasi assenti risultarono le classi più basse, anche se tra le vittime di Speziale ci furono due operai e un contadino; ed ebbero scarsa rilevanza anche gli studenti, a conferma del carattere maturo assunto dalla dirigenza della Repubblica, e dell’attendismo scelto dai giovani, compresi quelli borghesi.

Alcuni nomi dei condannati a morte nella Napoli del 1799 sono passati a buon diritto nel novero dei precursori del Risorgimento, a cominciare dalle due donne che lasciarono la vita sul patibolo: Eleonora de Fonseca Pimentel, direttrice del «Monitore Repubblicano», giustiziata il 20 agosto, e Luisa Sanfelice Molines, che dopo lunghe e angosciose vicissitudini procedurali ne seguì la sorte sulla piazza del Mercato addirittura un anno dopo (11 settembre 1800). Tra gli altri basti ricordare uomini come Mario Pagano, Domenico Cirillo, Francesco Conforti, e l’Ammiraglio Francesco Caracciolo, tra i primi ad essere impiccato all’albero della sua nave e poi gettato a mare; ma anche personaggi di altra e lontana provenienza come il Triestino Antonio Piatti, vittima della propria fede nella libertà, caduto nello stesso giorno della Fonseca.

Oggi, a oltre due secoli da quella pagina di storia, è lecito chiedersi che cosa sia rimasto di un’esperienza tanto traumatica come quella della Repubblica Partenopea, caratterizzata da un alto sacrificio di vite umane e da un «volto demoniaco del potere» come quello che sarebbe stato teorizzato da Gerhard Ritter a seguito dei momenti più grevi del Novecento; in altri termini, da una reazione assimilabile a quella che in pieno Risorgimento sarebbe stata assunta dall’Impero Asburgico nei confronti dei patrioti italiani impegnati nella lotta per l’indipendenza e per l’unità. Nello stesso tempo, è congruo domandarsi quali siano state le ragioni del trono e dell’altare, anche in rapporto alle condizioni sociali dell’epoca e al profondo disagio delle classi inferiori, non soltanto a Napoli e nel Mezzogiorno.

Non c’è dubbio che la Repubblica abbia interpretato il ruolo del progresso, o per lo meno di quello che sembrava tale nonostante gli eccessi e le sostanziali contraddizioni di una Rivoluzione che aveva predicato l’egualitarismo ma non aveva esitato a colpire con durezza coloro che non si riconoscevano nei suoi auspici e nelle istanze conseguenti, se non altro perché fedeli a una tradizione che costituiva di per sé un valore corroborato dalla fede, e che aveva la stessa dignità dell’opzione liberale, come avrebbe testimoniato un uomo di forte passione laica come Benedetto Croce. La Repubblica Napoletana, paradossalmente, chiuse la sua breve stagione con un bilancio moralmente attivo grazie al sangue dei suoi martiri che avrebbe dato frutti significativi nel Risorgimento, ma ebbe un limite di tutta evidenza nella sua matrice borghese: come è stato osservato da Paolo Mieli, le grandi Rivoluzioni hanno origini prevalentemente popolari, mentre in quella fattispecie i lazzaroni rimasero alla finestra, quando non presero le difese del legittimismo e della reazione. D’altra parte, è anche vero che la proclamazione del Governo Repubblicano non avvenne a seguito di moti sia pure elitari come quelli dell’epoca risorgimentale, ma di eventi militari esterni che fornirono alla borghesia l’occasione di un fortunato pronunciamento.

La maturazione delle coscienze popolari sarebbe avvenuta in tempi lunghi, passando attraverso una tragedia quantitativamente molto più ampia – con i suoi 14.000 caduti – come la repressione del brigantaggio (o presunto tale) nel sesto decennio dell’Ottocento, e giungendo a una consapevolezza più diffusa dei valori unitari soltanto con la Grande Guerra. Ma questa è tutta un’altra storia.

(dicembre 2018)

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