Il processo a Cavour
Un uomo trasformista o spregiudicato o uno statista di prima qualità? Cronaca e verdetto di un processo postumo

È accaduto a San Mauro Pascoli (provincia di Forlì e Cesena), e precisamente a Villa Torlonia, il 10 agosto 2011; sul banco degli imputati, a 150 anni dalla sua morte, un politico d’eccezione: Camillo Benso conte di Cavour, uno dei «Padri fondatori» dell’Unità d’Italia.

Non è stato l’unico: i processi contro i personaggi più rappresentativi della storia della Penisola sono ormai una tradizione. E non si tratta di eventi goliardici, ma tremendamente seri. A doverne subire i verdetti sono stati, tra gli altri, Mazzini, Garibaldi e Togliatti (assolti), mentre Badoglio è stato condannato. Poi, è venuta la volta di Cavour.

Il tribunale, presieduto da Miro Gori, ha visto schierarsi per l’accusa il saggista Lorenzo Del Boca e Roberto Martucci, storico dell’Università del Salento, mentre la difesa è stata sostenuta dal sindaco di Forlì Roberto Balzani, storico dell’Università di Bologna, e da Gilles Pécout, biografo francese di Cavour.

Cavour non è stato un uomo di piccolo spessore: nonostante fosse piccolo, grassoccio, irrequieto, con occhi minuscoli che ammiccavano dietro le lenti degli occhiali (tanto che il barone Hübner, Ambasciatore a Parigi dell’Imperatore d’Austria, aveva notato con sarcasmo che «quell’uomo manca di distinzione ed ha una faccia da cospiratore»), il conte proveniva da un’antica e nobile famiglia piemontese, che gli aveva dato un patromonio non indifferente ed una vasta cultura. Camillo Benso era nato a Torino il 10 agosto 1810 nel palazzo di famiglia, al numero 8 dell’attuale Via Cavour; era il secondogenito del marchese Michele Benso di Cavour, che svolgeva a Corte le funzioni di ministro di polizia, e da ragazzo si dimostrò – come disse la madre, contessa Adele – «gioviale, chiassoso, con una voglia matta di divertirsi». Il 30 aprile 1820 entrò alla Regia Accademia Militare di Torino, dimostrando un carattere vivacissimo ed ostinato; venne scelto a 14 anni come paggio di Carlo Alberto, ma due anni dopo venne allontanato per il suo «giovanile alfieranesimo». Promosso luogotenente nel Corpo Reale del Genio il 16 settembre 1826, prestò servizio a Torino, Ventimiglia, Genova, Bard (Valle d’Aosta), finché nel 1831 dovette dare le dimissioni a causa delle sue idee politiche ispirate al liberalismo francese e inglese. Lo interessavano soprattutto la matematica, l’algebra, l’agricoltura; dato che le autorità austriache non gli permettevano di visitare l’Italia sottoposta a loro, compì lunghi viaggi all’estero, in Inghilterra, in Francia, in Svizzera, per studiarvi la vita politica, l’economia, il sistema industriale; frequentò i migliori salotti, giocò d’azzardo e al gioco perse ingenti somme. Nel 1835 fondò una banca, che prosperò in maniera incredibile, e nel 1847, approfittando della recente legge sulla libertà di stampa, avviò il giornale «Risorgimento», su cui cominciò a parlare apertamente di Costituzione e caldeggiò l’intervendo piemontese a fianco dei patrioti lombardi contro l’Austria. Nella battaglia di Goito del 1848 cadde Augusto di Cavour, l’adorato nipote (figlio del fratello Gustavo), procurandogli un atroce dolore e una furiosa smania di vendetta; il 26 giugno dello stesso anno iniziò la sua carriera politica, venendo eletto deputato ed appoggiando lo sforzo del Re Vittorio Emanuele II per risollevare lo stato dalle disastrose condizioni in cui si trovava dopo la sconfitta nella Prima Guerra d’Indipendenza. Il 4 novembre 1852, caduto il Ministero presieduto da Massimo d’Azeglio, Cavour – a soli 42 anni! – fu nominato Presidente del Consiglio. Seguirono anni di lavoro massacrante; nel piccolo appartamento che si era riservato nel palazzo Cavour, era un andirivieni continuo di uomini politici, militari, tecnici, economisti, e spesso la luce nello studio del Presidente rimaneva accesa tutta la notte; lo statista si occupò di agricoltura, di economia e di finanze. Aveva una sola, grande passione: l’Italia (un giorno, il Re disse seriamente: «L’Italia è la sua sposa»; e infatti Cavour non prese mai moglie e visse sempre solo); il suo disegno era quello di portare la questione italiana all’attenzione delle altre Nazioni, di rendere popolare la causa nazionale, e per far questo non esitò a mettere in moto tutto il suo genio diplomatico: intrecciò amicizie, si procurò alleanze e l’ammirazione dei diplomatici esteri, che ne riconobbero la grande abilità politica. Fu astuto, insinuante, tenace, intollerante di opposizioni, tremendo con quanti gli attraversavano la via.

Del Boca ha presentato il «connubio» cavouriano (cioè l’alleanza realizzata dal conte con Urbano Rattazzi, capo del Centro-Sinistra, per isolare le ali estreme nel Parlamento Piemontese) come il padre di tutti i ribaltoni. «Cominciò allora» ha sostenuto «la pratica di creare coalizioni con accordi di corridoio, senza alcun riguardo per la volontà degli elettori. Cavour è dunque l’inventore della piaga del trasformismo». Non basta; secondo Del Boca fu anche un precursore del conflitto d’interessi: «Da Primo Ministro, volle per sé le competenze sull’agricoltura e si adoperò per tenere alto il prezzo dei cereali, anche in tempo di carestia, in modo da assicurare ingenti profitti ai suoi mulini». Infine, l’accusa più pesante: «Cavour» ha affermato Del Boca «inviò in Crimea un corpo di spedizione militare che ebbe gravi perdite, solo per poter partecipare al Congresso di Parigi. Sacrificò molte giovani vite alle sue ambizioni diplomatiche».

Opposto il giudizio di Balzani: «La scelta di partecipare alla guerra di Crimea, insieme a Francia e Gran Bretagna, fu essenziale per inserire il Piemonte nel contesto delle potenze europee». Infatti, al Congresso di Parigi del 1856, si discusse della situazione italiana, ponendo i semi destinati a germogliare in un futuro non troppo remoto, quando i Francesi affiancheranno i Piemontesi contro l’Austria; molti patrioti abbandonarono l’idea repubblicana e compresero che solo seguendo Cavour e il Piemonte si sarebbe potuto raggiungere l’unità nazionale. L’unico che non si convinse fu Mazzini, che continuò a fomentare «per corrispondenza» (come disse Garibaldi) le sue rivoluzioni: Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera partirono con una ventina di altri patrioti da Genova, dirottarono il piroscafo sul quale s’erano imbarcati verso l’isola di Ponza e liberarono circa 300 detenuti; sbarcati a Sapri il 28 giugno 1857, vennero tutti uccisi o presi prigionieri. Invece la guerra di Crimea, «insieme alla politica di libero scambio, fu una tappa della modernizzazione in senso occidentale promossa da Cavour». Il conte trasformò il Piemonte in un Paese moderno, costruendo molti canali per l’irrigazione nelle risaie vercellesi, aiutando le industrie, sviluppando il commercio, costruendo tre linee ferroviarie (la Torino-Genova, l’Alessandria-Casale-Novara e la Novara-Arona), iniziando il traforo del Cenisio e del Frejus, ingrandendo la flotta, stipulando trattati per il commercio con l’Inghilterra, la Francia e il Belgio. Era un uomo realista e pratico, e prima di occuparsi dell’agricoltura del Regno Sabaudo, aveva modernizzato le proprie tenute: a Leri, nel Vercellese, ne possedeva una immensa dove si recava quasi ogni settimana; percorreva in lungo e in largo la proprietà calzando un paio di zoccoli, con un largo cappello di paglia in testa e un gran bastone in mano, discuteva coi contadini, dava consigli per le coltivazioni, osservava il lavoro, studiava sistemi più rapidi di semina, tanto che in pochi anni la tenuta triplicò i prodotti; divenuto Ministro dell’Agricoltura, Cavour non fece che applicare su vasta scala la propria esperienza, svecchiando i metodi di lavoro e diffondendo l’uso dei concimi chimici. Quanto alle manovre parlamentari, esse consentirono al conte «di affermare la sua linea come una terza via virtuosa, di stampo liberale, rispetto sia all’immobilismo reazionario sia a un possibile sbocco rivoluzionario. Inoltre Cavour seppe coniugare la causa nazionale e le ragioni della libertà anche nei rapporti con la Santa Sede: propose alla Chiesa di cedere il potere temporale, ma di ottenere in cambio ampi spazi per svolgere la sua missione religiosa». In più, rafforzò il regime parlamentare limitando il potere personale del Re.

Il secondo accusatore, Roberto Martucci, ha deplorato la spregiudicatezza espansionista del conte: «Sin dal 1853 Cavour progettò di annettere l’intera Penisola e poi perseguì quell’obiettivo con una serie di aggressioni coperte contro gli altri stati italiani. Soprattutto verso i Borbone attuò un astuto doppio gioco, appoggiando sottobanco i Mille di Garibaldi e nel contempo trattando con il Governo di Napoli. Alla fine ebbe successo, ma a costo di considerare i trattati carta straccia e confidare nel fatto compiuto. Ne seguì un’annessione frettolosa, che nel Mezzogiorno provocò una sanguinosa guerra civile, passata alla storia impropriamente come brigantaggio».

Secondo Pécout invece le accuse contro lo statista piemontese «hanno un carattere astratto e ideologico: non considerano la situazione storica e ignorano il fatto che non c’erano alternative alle scelte di Cavour, se si voleva creare uno stato italiano che avesse un peso internazionale. Lui morì[1] quando il nuovo Regno era appena nato: non gli si possono addebitare le scelte dei suoi successori, né la tragedia del brigantaggio. Invece gli va riconosciuto il merito di aver conciliato patriottismo e liberalismo in un disegno realistico». Cavour dovette subire difficoltà e incomprensioni (lo stesso Re Vittorio Emanuele II, tutto dedito alla caccia e alla vita sana nella natura, lo detestava), ma riuscì a portare a compimento la sua opera unificatrice; fu anche il primo Italiano a capire le difficoltà che l’Unità si sarebbe portate dietro, il primo Italiano alieno dal fanatismo patriottico e dalla retorica. Netta la conclusione dello storico francese: «Si possono muovere molte critiche al modo in cui si realizzò l’unificazione, ma mi sembra che i detrattori di Cavour non gli rimproverino tanto di aver fatto l’Italia in modo sbagliato, ma semplicemente di averla fatta».

Il pubblico ha mostrato di gradire molto il duello oratorio, ed alla fine ha espresso il suo verdetto: 353 voti a favore di Cavour, 127 contrari ed un astenuto. Lo statista piemontese ha ottenuto un’altra vittoria.


Nota

1 Mercoledì 29 maggio 1861, poche settimane dopo la proclamazione del Regno d’Italia (avvenuta il 17 marzo dello stesso anno), Cavour uscì dalla Camera sentendosi poco bene; la sera fu colto da forti dolori e da brividi di febbre: era una violentissima polmonite. Le sue condizioni si aggravarono rapidamente e i medici rimasero impotenti: 10 anni di fatiche, di troppo lavoro, di poco sonno avevano logorato irrimediabilmente il suo corpo. La sera del 5 giugno il Re venne a trovarlo e lo abbracciò piangendo. Poi le sue condizioni precipitarono. Parlò ancora con la nipote, con il fratello, con il medico, inseguiva con parole rotte i pensieri che lo avevano dominato durante la vita – Venezia, Roma, Napoli, Garibaldi, l’Italia. Alle cinque e mezzo del giorno 6 ricevette l’Estrema Unzione; le sue ultime parole intelligibili furono: «L’Italia è fatta, tutto è salvo!». Spirò lo stesso giorno, alle sei e tre quarti del mattino. Non aveva ancora 51 anni. Ora riposa nella tomba di famiglia nel castello di Sàntena, presso Chieri, in Piemonte.
Qualche giorno dopo, al Parlamento Inglese, il Primo Ministro Palmerson così lo ricordò: «L’Italia presente e futura lo riguarderà come uno dei più grandi patrioti che abbiano mai illustrata la storia di qualsiasi Nazione. Io non conosco Paese che debba tanta gratitudine a un suo figlio quanta ne deve a lui l’Italia!».

(novembre 2017)

Tag: Simone Valtorta, processo a Cavour, San Mauro Pascoli, Villa Torlonia, Italia, Risorgimento, Ottocento, Camillo Benso conte di Cavour, Miro Gori, Lorenzo Del Boca, Roberto Martucci, Roberto Balzani, Gilles Pécout, Cavour, Carlo Alberto, Unità d'Italia, Prima Guerra d’Indipendenza, Massimo d’Azeglio, connubio cavouriano, Urbano Rattazzi, ribaltone, trasformismo, Guerra di Crimea, conflitto d’interessi, Congresso di Parigi, Carlo Pisacane, Giovanni Nicotera, Piemonte, Regno di Sardegna, politica di libero scambio, brigantaggio, Vittorio Emanuele II, Chieri, Palmerson.