Riflessioni risorgimentali
Luci e ombre della nuova Italia

Alle tre pomeridiane del 4 novembre 1918 suonava l’ora di cessazione delle ostilità sul fronte italiano della Grande Guerra, come era stato stabilito nell’armistizio di Villa Giusti firmato il giorno precedente dai plenipotenziari italiani e austro-ungarici. Dopo quasi quattro anni di sacrifici immensi, il sole di Vittorio Veneto sembrava irradiare nuove speranze sull’avvenire dello Stato e del popolo italiano, nella fiducia, condivisa da un’ampia maggioranza, che il conflitto appena concluso fosse stato davvero l’ultimo.

Proprio a quell’ora, un generoso ufficiale sardo, Alberto Riva di Villasanta – come ricordano i cimeli conservati nel castello avito di Sanluri – condusse l’ultima azione contro il nemico e cadde eroicamente nella pianura friulana venendo immortalato dalle parole alate di Gabriele d’Annunzio, mentre avrebbe potuto indugiare tranquillamente nei fasti dell’ormai certa Vittoria. Anche per questo, il Capitano Riva è passato alla storia come l’ultimo Caduto della Grande Guerra: straordinario esempio di aderenza ai valori del migliore Risorgimento, ben oltre i limiti tradizionali che la critica ha conferito a questo periodo della storia italiana[1].

In questa ottica, non è azzardato che oggi si parli sempre più diffusamente di «Risorgimento lungo» come nella grande opera di Gilles Pécout[2] secondo cui le prime avvisaglie della rinascita nazionale si sarebbero manifestate verso la metà del Settecento per giungere fino al Novecento inoltrato, coprendo circa 200 anni di storia, tra cui diversi decenni del cosiddetto secolo breve: dapprima con la «quarta guerra d’indipendenza» e l’affrancamento di Trento e Trieste dalla dominazione straniera; poi con i moti per il ritorno all’Italia della città di San Giusto compiutosi nel 1954. Non a caso, coloro che si erano immolati un anno prima davanti alla chiesa di Sant’Antonio Nuovo e in Piazza dell’Unità d’Italia, vittime del piombo inglese a opera del Governo Militare Alleato, sono stati definiti gli ultimi Caduti del Risorgimento[3].

In un periodo di tempo così lungo è naturale che si siano avute, accanto alle luci, talune ombre non dappoco, sebbene gli aspetti positivi siano «naturalmente» prevalenti anche nelle valutazioni della storiografia di riferimento: il primo è la «lunghezza» stessa del Risorgimento che ne attesta in modo oggettivamente palese la vitalità, la capacità trainante, e soprattutto, la progressiva seppur difficile diffusione nelle coscienze.

Prima di analizzare luci e ombre conviene soffermarsi sulla realtà «effettuale» del Risorgimento che Piero Gobetti aveva fortemente ridimensionato alla luce dello scarso concorso popolare, ma che Benedetto Croce ritenne potersi interpretare, con felice neologismo storiografico, alla stregua di un vero e proprio «Sorgimento»: definizione motivata dal fatto che «per la prima volta nei secoli nasceva uno Stato Italiano con tutto e solo il suo popolo, e plasmato da un ideale»[4]. In effetti, l’idea della Nazione Italiana non era affatto nuova se si pensa che era stata cantata, parecchi secoli prima, nei versi di Dante Alighieri e di Francesco Petrarca; nondimeno, mancava la sua compiuta maturazione nella realtà dello Stato, che è patrimonio risorgimentale, soprattutto nella versione unitaria perfezionata il 17 marzo 1861 con la creazione del Regno d’Italia.

È appena il caso di rammentare che in quest’ultima data venne costituito lo Stato, sebbene la sua unità fosse ancora da completare: mancavano il Veneto e Roma, al pari di Trentino-Alto Adige, Venezia Giulia, Zara e Fiume, che avrebbero dovuto attendere a lungo. Al contrario, non esisteva una reale convergenza di consapevolezza e di fedi che sarebbe maturata con dolore e sacrificio nelle trincee della Grande Guerra e più tardi negli anni del «consenso» al fascismo: adesione effimera ma ispirata all’idea «universale» come nel sogno messianico di Berto Ricci.

Si diceva delle ombre del Risorgimento non disgiunte dalle luci; tra le più significative si deve collocare, prima di tutto, il suo carattere elitario: del resto, non va dimenticato che nel 1861 l’analfabetismo riguardava il 78% della popolazione e che i laureati erano appena il 3‰. La strada, insomma, si presentava lunga e difficile, anche nell’inevitabile confronto socio-economico con i maggiori Stati Europei.

Ulteriori fatti sostanzialmente critici furono la farsa ripetitiva dei plebisciti, con astensioni spesso elevate nonostante le istruzioni impartite dal Governo e con la sola apprezzabile eccezione della Toscana (1860) dove i suffragi per il «Regno separato» non furono marginali[5]; la guerra contro i cosiddetti «briganti» del Mezzogiorno, che anche in termini di vite umane ebbe un costo maggiore rispetto a quello delle tre guerre d’indipendenza globalmente considerate[6]; e la pervicace opposizione cattolica che sarebbe durata in termini pregiudiziali fino al 1913 per concludersi formalmente soltanto nel 1929. Tuttavia, l’Italia non era più la mera espressione geografica di cui aveva parlato il principe Clemente di Metternich, e nemmeno una produttrice di musici, cantanti e ballerine, secondo la sprezzante definizione formulata dal Cancelliere Tedesco Otto von Bismarck.

Alla fine, le luci riuscirono a prevalere, sia pure fra tante contraddizioni: la tesi di un Risorgimento senza Eroi proposta dalla storiografia di sinistra, a cominciare dalla nota definizione di Antonio Gramsci, non trova effettivo conforto nella realtà. Furono davvero Eroi senza «se» e senza «ma» – fra i tanti – Pietro Micca, il primo kamikaze, Antonio Sciesa col suo «tirem innanz» davanti a casa, le mille vittime del Feldmaresciallo Radetzky a cominciare dai Martiri di Belfiore[7] e tutti i patrioti che diedero la vita sui campi di battaglia, da Goito, dove cadde il nipote di Cavour[8], a Curtatone, ovvero da Solferino a Calatafimi; per non dire dei molti Martiri dell’Irredenta, da Guglielmo Oberdan a Cesare Battisti, da Fabio Filzi a Francesco Rismondo e a Nazario Sauro.

Queste luci trovano conferma in tanti episodi minori, come quello del Ministro delle Finanze Federico Seismit Doda (il patriota dalmata che aveva combattuto nell’epica difesa di Venezia) dimissionato nel 1890 dal Presidente del Consiglio Francesco Crispi perché, in una riunione privata tenutasi a Udine, aveva osato associarsi agli auspici in favore dell’Italia irredenta[9]; o quello, ancora più paradossale, di Cesare De Bellis, che nel 1909 fu arrestato dalla polizia austriaca di Gorizia per avere utilizzato un francobollo di Francesco Giuseppe posizionandolo con la testa all’ingiù.

Il Risorgimento è stato un fenomeno vivo e complesso che vide alla ribalta monarchici e repubblicani, federalisti e unitari, moderati e progressisti, ma generalmente consapevoli dell’idea di Nazione e del convincimento di doverla tradurre in una moderna realtà statuale. I celebri quattro «padri della patria» (Camillo Benso di Cavour, Giuseppe Garibaldi, Vittorio Emanuele II e Giuseppe Mazzini) avevano in comune il fatto di non riuscire a sopportarsi, assai frequente in politica senza distinzioni di tempo e di spazio: tuttavia, seppero conseguire ugualmente un risultato unitario grazie al genio decisivo del Cavour, che fu capace di sintetizzare istanze talvolta opposte in un «fascio» caratterizzato dal riferimento a valori condivisi come quello prioritario dell’indipendenza, e da un intelligente supporto a livello diplomatico.

Gabriele d’Annunzio, in occasione dell’Impresa fiumana (1919-1920), un’altra luce importante del tardo Risorgimento, volle definirla con un aforisma significativo: «Insorgere è risorgere, risorgere è insorgere». Ecco un’espressione tacitiana di frequente attualità, anche nella congiuntura politica del nuovo millennio: va da sé che il riferimento a Tacito non è casuale, perché mai come oggi si avverte la necessità, per dirla col grande storico latino, di «professare incorrotta fedeltà al vero» e di svolgere un’opera storiografica scevra da interpretazioni di parte, o peggio ancora, da pregiudiziali aprioristiche.

Oggi, che cosa resta del Risorgimento? Certamente, una grande esperienza civile, militare, e soprattutto etica senza la quale l’Italia non esisterebbe se non come realtà estremamente diversa e verosimilmente ancor più contraddittoria e caotica. Resta, davvero luminosa, la lezione dei suoi Eroi che dimostra quanto sia decisivo il ruolo di una volontà, sia pure elitaria, posta al servizio di valori progressivamente accettati dalla maggioranza. Tutto ciò, nel sempre valido assunto di Massimo d’Azeglio secondo cui, fatta l’Italia, restavano da fare gli Italiani: affermazione sempre attuale, anche nel nuovo millennio, contro gli egoismi del campanile e il malinteso culto di un particolarismo spesso esasperato.


Note

1 Alberto Riva di Villasanta, che venne decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare «ad memoriam», apparteneva all’Ottavo Reggimento Bersaglieri: la stessa unità che si sarebbe coperta di gloria nell’ultima difesa del confine giuliano durante la Seconda Guerra Mondiale, con perdite superiori alla metà degli effettivi. La commemorazione del Caduto da parte di Gabriele d’Annunzio ebbe luogo all’Augusteo di Roma, preceduta da quella che era stata tenuta dal Duca d’Aosta Emanuele Filiberto, Comandante della Terza Armata, nell’aprile del 1919.

2 Gilles Pécout, Il lungo Risorgimento. La nascita dell’Italia contemporanea (1770-1922), Edizioni Bruno Mondadori, seconda edizione, Milano 2011, 480 pagine.

3 Federazione Grigioverde di Trieste, Cronologia essenziale della storia d’Italia e delle terre Giulie al confine orientale, a cura del Generale Riccardo Basile, Edizioni Italo Svevo, Trieste 2010, pagina 89. Tra le vittime triestine del 5-6 novembre 1953 (uccise dalla Polizia Civile del Territorio Libero di Trieste al comando di ufficiali inglesi) che l’Autore considera alla precisa stregua di «ultimi Caduti del Risorgimento» sono da ricordare in modo specifico i giovanissimi Piero Addobbati (15 anni) e Leonardo Manzi (17 anni) appartenenti a famiglie esuli dall’Italia nuovamente irredenta.

4 La riflessione del Croce sulla natura innovatrice di quel complesso e lungo fenomeno che sarebbe stato definito Risorgimento, ma che in effetti costituisce un «quid novi» in senso etico e politico, trova compiuta esegesi nella sua celebre Storia d’Europa nel secolo decimo nono (oggetto di un elevato numero di edizioni). In proposito, sono di utile supporto i riferimenti semantici di cui al Vocabolario Treccani, Edizioni dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2003: per quanto riguarda il sorgere, nella definizione primaria di «alzarsi, elevarsi» e in quella subordinatamente figurativa di «destarsi dall’inazione» e quindi di «insorgere» (Ibidem, pagina 1.718), mentre il risorgere significa prima di tutto «tornare in vita» (Ibidem, pagina 1.509).

5 Nell’intero Granducato votarono poco più di 386.000 cittadini, 20.000 dei quali – pari al 5,2% – non si espressero per l’unione alla Monarchia Sabauda, senza dire che le astensioni raggiunsero livelli elevati, in specie nelle campagne: ad esempio, il comprensorio del Chianti vide una partecipazione del 56,8%, con punte minime del 37,6% nel comune di Montespertoli e del 42,3% in quello di Barberino Val d’Elsa, senza dire che a Brolio, feudo di Bettino Ricasoli, la quota dei votanti, condizionata anche da rivendicazioni sindacali, rimase bassa nonostante la direttiva del medesimo Presidente del Consiglio, rivolta a condurre i suoi contadini al seggio «con la bandiera tricolore alla testa e avendo ciascuno la scheda in tasca». Nondimeno, il plebiscito toscano, indetto con suffragio universale maschile, fu prova sentita di un’embrionale democrazia: il «nuovo diritto» consentiva al calzolaio di poter affermare che il suo voto aveva lo stesso valore di quello conferito al «principe Corsini» (confronta Autori Vari, Patrioti, comunità e paesaggio nel Risorgimento italiano, Edizioni Metropoli, Campi Bisenzio 2011, pagine 44-48). Ben diverso sarebbe stato, ad esempio, il comportamento elettorale del Veneto in occasione del plebiscito per l’unione al Regno d’Italia dopo la Terza Guerra d’Indipendenza (1866) quando il risultato favorevole fu assolutamente unanime, lasciando all’opposizione austriacante soltanto due voti (sic!) su oltre 600.000.

6 La «conquista del Sud» può contare su una bibliografia molto vasta, che col passare del tempo si è arricchita di numerosi contributi oggettivi, anche in ordine alle dimensioni umane di quella tragedia. Fra i titoli più documentati, confronta Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, terza edizione, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1974, 484 pagine (a sua volta, con un ampio corredo bibliografico e documentaristico).

7 Le persecuzioni dei patrioti italiani da parte austriaca, che comportarono un numero straordinario di vittime, non furono esenti da aspetti addirittura surreali: basti qui ricordare la condanna a morte di Don Giovanni Grioli – eseguita a Belfiore nel 1851 – che fu accusato di avere promosso la diserzione di un prigioniero ungherese condannato ai lavori forzati, e ciò per la sola «colpa» di avergli fatto dono di una moneta da due lire austriache a titolo di beneficenza durante una sua visita pastorale in fortezza, dove lo stesso Don Giovanni era stato «cortese e amoroso con tutti». Al riguardo, confronta Luigi Martini, I Martiri di Belfiore, pagine scelte e ordinate da Guido Mazzoni, seconda edizione, Barbera Editore, Firenze 1904, 264 pagine (con ulteriori saggi circa le vicende di altri Caduti dell’epoca, tra cui Don Enrico Tazzoli, Angelo Scarsellini, Bernardo Canal, Carlo Poma, Tito Speri, Pier Fortunato Calvi, e via dicendo). È appena il caso di rammentare che, laddove Guglielmo Oberdan venne impiccato 30 anni dopo perché colpevole di una semplice intenzione, Don Grioli fu mandato al capestro perché responsabile di un atto caritatevole di liberalità: esempi emblematici di una «giustizia» oggettivamente perversa.

8 Augusto Benso di Cavour era il nipote prediletto di Camillo, che non aveva figli: non a caso, lo aveva nominato erede universale dei suoi beni. La sua uccisione sul campo di battaglia a opera di un cannoneggiamento austriaco fu un grave lutto per la famiglia, e in modo particolare per il padre Gustavo, già provato dalla perdita della consorte, e per lo stesso Camillo.

9 Per i dettagli sull’episodio, si veda: Ivanoe Bonomi, La politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto (1870-1918), Biblioteca di cultura storica, Giulio Einaudi Editore, terza edizione, Torino 1969, pagina 78. Domenico Federico Seismit Doda (Ragusa 1825-Roma 1893) dopo essersi impegnato alacremente nel Risorgimento, fu Sottosegretario nel Governo di Agostino Depretis e Ministro delle Finanze nel primo Gabinetto Cairoli, per poi ricoprire lo stesso incarico in quello del Crispi, quando venne esautorato in tempo reale dal Presidente del Consiglio, previo assenso del Sovrano Umberto I di Savoia (episodio che avrebbe provocato amara delusione nel patriota dalmata e accelerato la sua scomparsa).

(agosto 2019)

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