Risorgimento e consultazioni popolari
Dai campi di battaglia alla stagione dei plebisciti

Chiuse le celebrazioni dei 150 anni dalla proclamazione dello Stato unitario è giunto il momento di analizzare l’ampio ventennio compreso fra il 1848 ed il 1870 in modo obiettivo, e per quanto possibile aderente alla lezione di Tacito secondo cui il giudizio più equilibrato, e quindi condividibile da tutti, deve essere assunto «senza amore e senza odio».

In quel lungo periodo, decisivo per le sorti dell’Italia futura, si tennero i dodici plebisciti destinati a certificare una volontà politica unanime dei vari popoli: quella di unire al Regno di Sardegna, sotto l’egida della Monarchia Sabauda, tutti gli Stati pre-unitari.

Nel 1848, la prima pronunzia fu quella lombarda, che non ebbe seguito pratico a causa della sconfitta di Carlo Alberto nella Prima Guerra d’Indipendenza, ma a cui si fece riferimento probatorio nel 1859 senza ricorrere ad una nuova consultazione, diversamente da quanto accadde nel Ducato di Parma e Piacenza, dove i comizi vennero convocati per la conferma della decisione assunta dieci anni prima.

L’anno di massima concentrazione plebiscitaria, terminata la Seconda Guerra d’Indipendenza, fu il 1860, che in varie riprese vide accorrere alle urne gli aventi diritto al voto nelle Legazioni Pontificie (Bologna, Ferrara e Romagna), nelle Marche, in Umbria, in Toscana, nell’ex Regno del Sud ed in Sicilia, mentre durante l’anno precedente si era espresso anche il Ducato di Modena e Reggio. Si deve aggiungere per completezza che, sempre nel 1860, si tennero i plebisciti di Nizza e della Savoia per statuire il trasferimento della sovranità sabauda su tali territori a favore della Francia, come da intese intervenute fra Napoleone III ed il Regno di Sardegna.

Gli ultimi due plebisciti si tennero rispettivamente in Veneto e Friuli (1866) al termine della Terza Guerra d’Indipendenza, combattuta al pari delle precedenti contro l’Austria Asburgica; e nel Lazio, dopo la caduta del potere temporale del Papa conseguente alla disfatta francese di Sedan ed alla «breccia» di Porta Pia (1870).

Le consultazioni ebbero luogo a suffragio maschile ristretto ma videro una partecipazione oltremodo consistente, con un concorso assai cospicuo delle donne e dei minori in quella che apparve soprattutto una grande festa caratterizzata da un tripudio di tricolori e destinata a convalidare formalmente i risultati politici conseguiti al termine di conflitti costati parecchio sangue, senza contare quello versato da tanti patrioti sui patiboli dell’Austria e degli altri Stati pre-unitari (con la sola eccezione del Granducato di Toscana, che già prima della grande Rivoluzione si era distinto quale primo Stato mondiale ad avere eliminato la pena di morte dal proprio ordinamento).

In nessun caso si trattò di un vero e proprio «plebis scitum» e cioè di un «decreto della plebe» (le classi inferiori o presunte tali erano escluse dalla consultazione) ma la maggioranza di coloro che avevano diritto al voto si fece premura di esercitarlo, con un massimo di quattro quinti nel Mezzogiorno continentale ed un minimo di due terzi nelle Marche. Complessivamente, i suffragi espressi furono 4,2 milioni, di cui soltanto 32.000, pari allo 0,77%, per il «Regno separato» e cioè per la conservazione dell’antico regime.

Queste cifre hanno suggerito a diversi storici, anche molto autorevoli, l’immagine frettolosa di plebisciti «taroccati» con un’interpretazione che si potrebbe definire «attualizzata»: ciò, alla luce di percentuali favorevoli all’unione sostanzialmente «bulgare» anche quando l’opposizione pervenne a quote appena maggiori, come a Parma e Piacenza, ed in Toscana, dove raggiunse rispettivamente il 4,23 ed il 3,91% (con un massimo di cinque punti a Firenze). Per converso, il minimo assoluto per il mantenimento della vecchia sovranità si ebbe in Veneto e Friuli, con 69 voti su 650.000 ed una maggioranza del 99,99% che la dice lunga su quanto fosse stato gradito il Governo Asburgico nelle regioni Nord-Orientali.

Si può presumere che quanti conservavano posizioni «nostalgiche», più numerosi nel Mezzogiorno Continentale (come avrebbe dimostrato la lunga vicenda del cosiddetto brigantaggio costata in termini di vite umane più di tutte le guerre risorgimentali), non si siano recati alle urne, ma anche in questo caso resta il fatto che i votanti furono complessivamente circa tre quarti degli aventi diritto. In tale ottica, il giudizio sui plebisciti deve essere considerato, non tanto alla stregua di un modulo tutt’altro che democratico in senso moderno (molto spesso il voto era palese ed aveva luogo in un clima di vivace infatuazione collettiva), quanto un atto dovuto alla luce dei tanti sacrifici che erano stati richiesti dall’esperienza risorgimentale, a far tempo da Curtatone e Montanara per giungere fino a Calatafimi ed al Volturno.

Non si spiegherebbero altrimenti le numerose eccezioni che furono consentite in sede di manifestazione dei voti, a cominciare da quelle per cui vennero ammesse alle urne, in virtù dei loro meriti patriottici, donne come Marianna De Crescenzo, la popolana di Napoli che si era fatta paladina indefessa dell’Unità, e come Maria Alinda Bonacci, la poetessa di Recanati che ne aveva cantato i valori in una visione culturale di chiaro segno romantico.

È certamente atipico che a Palermo i suffragi contrari all’Unione siano stati venti, pari allo 0,7‰, o che a Venosa, cuore della lotta filo-borbonica, l’incidenza dell’opposizione sia stata identica, con un solo voto contro quasi 1.500: gli esempi si potrebbero moltiplicare a iosa, ma qui si vuole semplicemente mettere in luce quanto le «speranze d’Italia» di cui aveva parlato Cesare Balbo fossero ampie e condivise in una stagione davvero irripetibile, rendendo a più forte ragione amare le successive delusioni, tra cui lo smantellamento programmato delle maggiori industrie meridionali (come quelle tessili in Campania o quelle minerarie in Calabria), fino alla vicenda emblematica dei cannoni del Generale Bava Beccaris che nel 1898 avrebbero sparato ad alzo zero sulla folla di Milano, rea di chiedere pane.

I plebisciti del Risorgimento, pur nei loro limiti, sono una pagina di storia che non può essere compresa prescindendo dalla forza trainante dell’idea nazionale: quella stessa idea che dal 1820 in poi aveva preso coscienza del diritto inderogabile su cui si fondava, impegnandosi a fondo, dapprima nei confronti della Santa Alleanza e poi in quelli dell’autocrazia asburgica. Cosa che, tra l’altro, non si sarebbe esaurita nel 1870 ma avrebbe continuato a sedimentare come un fiume carsico nonostante il lungo trentennio della Triplice, fino ad esplodere nel Grande Conflitto che altri illustri storici come Gilles Pècout hanno definito «Quarta Guerra d’Indipendenza» in quanto destinata a raccogliere il «grido di dolore» di Trento e Trieste, ma anche quelli di Gorizia, Fiume e Zara.

Si potrebbe aggiungere che, in qualche misura, i plebisciti furono una manifestazione di democrazia diretta, evidenziando talune analogie con quella dell’antica «polis» ellenica, in quanto il consenso non veniva imposto ma sorgeva dallo spontaneo convincimento di aderire ad una convergenza ineludibile di «verum et factum», secondo la proposta del Vico. Il suffragio universale era ancora lontano ma la partecipazione popolare ebbe un carattere genuino che sarebbe antistorico disattendere: la nuova Italia nata sui campi di battaglia del Risorgimento aveva acquisito una consapevolezza non ancora piena dei propri ideali e dei propri diritti, la cui maturazione non avrebbe potuto mai prescindere dal valore prioritario dell’indipendenza e dell’unità.

(luglio 2014)

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