Roma Capitale del Regno d’Italia
Aspetti politico-militari e religiosi (1861-1862)

Tra i vari problemi poco dibattuti dalla storiografia anche attuale, vi è quello riguardante la questione della scelta di Roma come Capitale del Regno d’Italia e gli eventi ad essa collegati verificatisi nel biennio 1861-1862. Esaminiamoli con uno sguardo più approfondito di quello solitamente usato.


Unità d’Italia e questione cattolica

Il 17 marzo 1861, il Parlamento Sabaudo approva la legge mediante la quale Vittorio Emanuele II assume il titolo di Re d’Italia; pochi giorni dopo, il 25 marzo, Cavour dichiara la necessità di avere Roma come Capitale del neonato Regno.

In questo momento, sulla Città Eterna regna il Papa Pio IX; i suoi domini, mutilati di Bologna, delle Marche e dell’Umbria, comprendono ora esclusivamente il Lazio (esclusa Viterbo). Il Pontefice nega ogni legittimità al Regno d’Italia in quanto fondato sulla forza, e non sul diritto; i Cattolici più «intransigenti» che seguono la linea papale non intendono partecipare in alcun modo alla vita politica italiana, secondo il motto «né eletti, né elettori».

Il Regno d’Italia ha conseguito una certa unità, ma non è riuscito a consolidarla e quindi rischia di avere vita breve; sono fattori di debolezza il dissesto finanziario conseguente alle guerre d’indipendenza, la resistenza anti unitaria nel Meridione (quella sorta di guerriglia partigiana ante litteram passata alla Storia col nome di «brigantaggio»), il mancato riconoscimento internazionale del nuovo Stato. Cavour afferma con decisione che non è possibile l’Unità d’Italia senza avere Roma come Capitale, per una questione morale: Roma, infatti, è l’unica città la cui storia non è legata a memorie esclusivamente municipalistiche («Roma deve essere Capitale d’Italia, perché essa è l’unica città che non abbia una storia semplicemente municipale; perché senza Roma Capitale d’Italia, l’Italia non si può costituire»). Tuttavia, la Roma a cui pensa è la Roma dei Cesari, la Roma dei grandi Papi del passato, realtà ben diverse dalla situazione attuale («Tutta la storia di Roma, dal tempo de’ Cesari al giorno d’oggi, è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio; di una città cioè destinata ad essere la capitale di un grande Stato»).

A lui si oppongono, per motivi diversi, Massimo d’Azeglio e Pio IX.

Il primo segnala l’impossibilità di rendere Roma Capitale, essendo la città fulcro del potere cattolico, e vi preferisce Firenze (per motivi culturali) o Napoli (per motivi sociali).

Pio IX ritiene che lo Stato della Chiesa sia un «deposito» a lui lasciato dai propri predecessori e da trasmettere ai propri successori, di cui non si può disfare; è anche convinto che il potere temporale sia segno di unità per i Cattolici e che la sovranità territoriale sia una garanzia per il libero esercizio della sovranità spirituale. Oltretutto, considera il Risorgimento italiano come una prosecuzione della Rivoluzione Francese e del suo programma di «scristianizzazione» (nei primi anni postunitari, come ricorda don Giacomo Margotti nelle sue Memorie per la storia dei nostri tempi dal Congresso di Parigi nel 1856 ai primi giorni del 1863, in Italia furono picchiati e imprigionati sacerdoti, sequestrati giornali cattolici, soppressi Ordini religiosi, e numerose associazioni ecclesiali vennero costrette ad interrompere le attività caritative e di proselitismo).

La corrente democratica italiana (che riunisce tutti quelli che si propongono d’instaurare un nuovo Stato attraverso l’insurrezione e che si organizza nel Partito d’Azione), vede l’Unità d’Italia come un passaggio che porta a staccarsi dal Cristianesimo e a trasformare la stessa identità nazionale (la religione di Mazzini è una forma di «immanentismo storicistico»). Cavour pone due condizioni: andare a Roma con il consenso della Francia e fare in modo che l’annessione della città non abbia il significato di una diminuzione della libertà e dell’indipendenza della Chiesa.

Il 27 marzo, Cavour tiene un discorso analogo al Senato: sia Camera che Senato approvano, e Roma già nel 1861 viene proclamata dal Parlamento Capitale del Regno d’Italia (né Torino, né Firenze sono mai state capitali d’Italia); questo impegna il governo a procedere quanto prima all’annessione della città… l’Italia è forse l’unico Paese al mondo ad aver avuto una Capitale prima di aver avuto la Capitale in suo possesso.

Cavour affronta la questione dei rapporti tra Stato e Chiesa: intende assicurare la libertà della Chiesa attraverso il principio della separazione tra potere temporale e potere spirituale; l’eliminazione del potere temporale del Papa permetterebbe l’indipendenza spirituale e di fede del Papato. Ma la formula che ne esce fuori, «libera Chiesa in libero Stato», è ambigua: in che senso la Chiesa è «nello» Stato? Per competenza geografica o giuridica? In questo secondo senso, vuol dire che lo Stato può legiferare nei confronti della Chiesa? La soluzione potrebbe essere un Concordato, cioè un accordo tra le due istituzioni (Stato e Chiesa): molti Cattolici lo auspicano, ma Cavour e i liberali lo osteggiano, perché la sovranità dello Stato liberale non può tollerare che sia posto alcun limite alle sue decisioni da parte di qualsiasi altra istituzione. Questo – la ricerca accettabile ed efficace di un rapporto duraturo Stato-Chiesa – diventerà il vero problema su cui confrontarsi, e non (come si è soliti pensare) la sovranità temporale del Papa; e bisognerà aspettare il 1929 perché si giunga a definire un accordo!


Il secondo sbarco di Garibaldi in Calabria a Pietrafalcone di Montebello Jonico e la battaglia d’Aspromonte (25-29 agosto 1862)

Un tentativo di prendere Roma viene fatto da Giuseppe Garibaldi nel 1862; molti memorialisti garibaldini partecipano alla spedizione, che così risulta ben documentata.

Tra il giugno e il luglio di quell’anno, in trenta giorni Garibaldi percorre tutta la Sicilia visitando le località toccate durante la prima spedizione, ed è accolto ovunque da grandi ovazioni; tra la folla, qualcuno grida «o Roma, o morte!», e «Vittorio Emanuele in Campidoglio». Quello diventerà il motto di coloro che sono stati chiamati i «secondi Mille».

Che, poi, mille non sono: si raccolgono ben tremila giovani in camicia rossa, e si mettono in marcia verso Ficuzza, località dove i Borboni solevano passare l’estate; marciano in pieno giorno, inquadrati, armi in pugno, senza essere molestati dall’esercito dato che Garibaldi ha dalla sua parte tutto il popolo di Sicilia. Giungono a Ficuzza dopo due giorni, e qui Garibaldi comincia la prima organizzazione di quella che chiama «legione romana», nella quale milita anche un cappellano militare, padre Giovanni Pantaleo. Viene formata una brigata divisa in tre reggimenti, che s’incamminano in tre diverse direzioni: l’itinerario della colonna Badia (i reggimenti prendono il nome dai loro comandanti) e della colonna Bentivegna è conosciuto, mentre nessun memorialista ci ha descritto il percorso della colonna Trasselli, che probabilmente seguiva la costa settentrionale dell’isola.

Garibaldi e i suoi volontari sono ancora a Ficuzza quando un manifesto del Re Vittorio Emanuele II li dichiara fuorilegge e banditi; a Palermo, i manifesti vengono subito strappati dalla gente. Garibaldi calma gli animi dichiarando che quello del Re è un gesto diplomatico per tranquillizzare le Nazioni straniere, ma che in realtà il Sovrano sta dalla loro parte.

Intanto, la colonna Badia è giunta a Santo Stefano, dove si è messa a bivaccare. Una compagnia del Regio Esercito Italiano le muove incontro; i regolari individuano tra i volontari garibaldini tre disertori, ne nasce uno scontro armato in cui cinque garibaldini sono uccisi. Enrico Cairoli riesce a frapporsi fra i contendenti e a convincere i garibaldini ad allontanarsi per evitare un bagno di sangue.

A Villarosa la colonna Badia si ricongiunge con la colonna Bentivegna, e qui entrambe le colonne si fermano molti giorni. Nel frattempo, Garibaldi è andato a far visite e raccogliere denaro, uomini, mezzi; viene rifornito anche dai prefetti (emanazioni del Ministero degli Interni), quindi si rafforza la convinzione che il governo sia con lui.

Ripresa la marcia, i garibaldini superano Paternò (località strategica, sita sulla via che congiunge Catania a Messina) e arrivano a Catania. Il prefetto, il sindaco, i militari della città fuggono, temendo l’anarchia; Garibaldi si affretta a nominare un governatore provvisorio. Mette le mani su un forziere appena arrivato: contiene 200.000 lire, la moneta destinata a sostituire gli scudi borbonici; sequestra il denaro e lo distribuisce subito ai suoi. Poi arremba due navi e parte per la costa calabra. È il 24 agosto.

Alle 4 e un quarto del giorno successivo, nella luce vivida del mattino, i garibaldini toccano terra non a Melito, come riportato nella maggior parte dei manuali di storia, ma a Pietrafalcone, in territorio di Montebello Jonico. Il paese si trova quindici chilometri all’interno, sul litorale non ci sono né abitazioni né barche di pescatori; ma i garibaldini hanno tre barche con loro, con cui raggiungere la riva.

Da Pietrafalcone puntano a Sud, su Melito, che trovano completamente sguarnita di soldati (rifugiatisi a Reggio Calabria) e, purtroppo per loro, priva di vettovaglie.

Alle 3 del mattino successivo prendono la strada verso Nord, per arrivare a Reggio; si fermano a Lazzaro di Monte San Giovanni in cerca di cibo.

Intanto, i moderati hanno preso il potere ed ora la gente appoggia il Re, non più loro. A Reggio si è accampato il Regio Esercito Italiano, comandato dal Generale Enrico Cialdini.

Incalzato dai regolari, Garibaldi è costretto a spingersi verso l’interno, a prendere la via della montagna. È il 28 agosto; siamo ad una quota tra i 1.500 ed i 2.000 metri.

Il 29 agosto, i regolari gli tagliano la strada sulla punta dell’Aspromonte; li guida il colonnello Enrico Pallavicino, che ha avuto dal Generale Cialdini l’ordine di (letteralmente!) «distruggere» Garibaldi.

1.500 garibaldini sono già morti (di fame, di freddo, di malattia), oppure sono tornati indietro, o sono stati catturati. Garibaldi schiera i superstiti 1.500 a battaglia, in posizione elevata, le spalle protette da un bosco e l’ordine di non sparare.

I bersaglieri avanzano, aprono il fuoco da lontano; i volontari garibaldini sparano a loro volta. Garibaldi viene ferito di striscio ad una coscia, ed in modo più grave al malleolo del piede sinistro. Vedendolo cadere, alcuni volontari fuggono, altri sono presi prigionieri; lo scontro è durato in tutto quindici, venti minuti. Sono le 7 di sera, ed è già scesa la notte.

Garibaldi ferito

Gerolamo Induno, Garibaldi ferito in battaglia in Aspromonte, circa 1863

I volontari morti vengono seppelliti in un canalone; i prigionieri saranno smistati nelle varie carceri d’Italia. Garibaldi, catturato, è caricato dai bersaglieri su una lettiga improvvisata e portato lui pure in prigione, nel forte di Varignano presso La Spezia. Sarà graziato il 5 ottobre, su richiesta di Maria Pia di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele II Re d’Italia.

(luglio 2013)

Tag: Simone Valtorta, Risorgimento, Roma Capitale, questione cattolica, Unità d'Italia, Italia, Garibaldi, Cavour, Pio IX, Aspromonte, Stato e Chiesa, Giacomo Margotti, Ottocento.