Da Romualdo Volpi[1] a Terenzio Mamiani
Quando il pensiero cattolico liberale italiano nel XIX secolo si misurava con la stampa periodica inglese

Il sacerdote lucchese Romualdo Volpi contribuì a rendere nota la figura di Terenzio Mamiani, di cui curò scritti poco conosciuti. Tra questi in particolare il Volpi ne conservò uno, reso noto solo nel XX secolo dal professor Ettore Passarin d’Entrèves, che risulta essere particolarmente degno di nota per comprendere le sfumature più recondite del pensiero cattolico liberale italiano del XIX secolo, nella sua forma più progressista.

Non superfluo accennare alla figura di Terenzio Mamiani sul piano biografico, dal momento che egli rappresenta uno dei personaggi politici di estrazione cattolica più significativi della nostra politica nazionale del XIX secolo. Un progressista della prima ora, che non venne mai meno al proprio essere cattolico, senza tuttavia disdegnare i cambiamenti che videro la sua compagine politica in prima linea. Egli prese parte come Primo Ministro a quella fase delle Questioni Romane che precedette l’avvento della Repubblica nel 1848, schierandosi in seguito apertamente contro la cecità di Pio IX verso il movimento liberale. Per tale motivo Mamiani subì l’esilio a Genova e si rese successivamente partecipe degli eventi che seguirono e che portarono all’Unità nazionale. Divenne perciò un deputato nel neonato Parlamento Subalpino per una legislatura prima e senatore del neonato Stato Unitario poi.

Il prezioso documento posseduto Dal Volpi, che a Mamiani fu particolarmente vicino[2], e che lo storico Gino Arrighi ripropone in un estratto[3] era destinato a William Weir, redattore-capo del «Daily News», del quale il Mamiani fu corrispondente. Questo scritto riflette certamente i rapporti convulsi del Protestantesimo inglese con la compagine cattolica nelle vicende Risorgimentali, che larga eco ebbero nelle spinose questioni nazionali, rappresentando un freno per la compagine cattolico-liberale di ancorarsi ad un’Europa in marcia verso la modernità.

Mamiani fu un valido esempio di cattolico liberale che seppe dire di no anche alle lusinghe di una Chiesa d’Antico Regime, rivitalizzata dal disfacimento della Repubblica Romana.

«Vero e nobile concetto» scrive Mamiani «è quello del signor Weir che Gesù Cristo ci ha tutti investiti del carattere di sacerdoti, perché ci ha posti tutti in intima comunicazione con Dio; e perché essendo il culto divenuto spirituale e niente affatto esteriore, la coscienza è divenuta l’Ara massima e noi siamo i sacrificatori e ministri di tale purissima religione. Ma un simile concetto non può avere luogo presso i Cattolici i quali sono forzati di accettare una gerarchia con un Capo Supremo. Ciò che, peraltro, si può domandare ai Cattolici, senza offendere in nulla la sostanza del dogma e della disciplina. Secondo San Paolo infatti i preti dovrebbero servire Dio senza partecipare troppo agli interessi secolari; ma d’altra parte» rileva ancora Mamiani «devono essere rimosse le ragioni per cui la gerarchia cattolica si mostra più o meno apertamente contraria alle libere istituzioni».

Mamiani, e come lui i Cattolici liberali più illuminati, riconobbero l’impossibilità di modificare il corso degli eventi nello Stato Pontificio dopo il 1848, facendo dietro front verso un Papato ancorato a condizioni politiche ed ideologiche del passato.

Quali i timori, se ce ne furono, della compagine protestante inglese verso la Chiesa Romana?

«La principale ragione dell’impossibilità di addivenire ad un reale cambiamento» sostiene infatti Mamiani «è che il dispotismo papale è cresciuto ogni giorno e divenuto oggi importabile».

Londra temeva perciò che rigurgiti papalini ci potessero essere in Inghilterra e, più in generale, nel resto del Continente Europeo. Il tentavo non solo di arginare la Modernità incalzante ma anche di fare proseliti dentro e fuori lo Stivale, questo l’obiettivo cardine della Curia Romana.

Quel «dispotismo» papale perciò, ricorda Mamiani «non può tollerare la libertà, soprattutto in Italia.

Prima cura del Pontefice fu dunque conservare il potere temporale, sentendo che, una volta liberata l’Italia, il suo [quello della Santa Sede] si sarebbe infranto. Ecco perché il Papa si adoperò in ogni modo perché fossero il clero e la stampa cattolica ad adoperarsi contro le idee più liberali e più generose del secolo.

Ma», sostenne sempre Terenzio Mamiani pronunciando queste frasi, «voglio ripetermi: né il potere temporale, né il dispotismo del Papa nelle cose ecclesiastiche sono parte integrale del dogma o condizione antica e fondamentale dell’Ordine della Chiesa. Neppure i preti nostri osano di affermare che il principato sulle province romane sia d’istituzione divina e già stettero i Papi sei secoli senza possederlo.

Quanto ai diritti ecclesiastici propri del Sommo Pontefice leverò al signor Weir ogni dubbio allegandogli i capitoli del clero gallicano uno dei quali sentenzia che il Concilio è superiore al Papa; ed un altro che il Papa non è infallibile neppure pronunciando ex catedra; un altro infine che il Papa non è legislatore nella Chiesa ma esecutore dei Canoni e coi Canoni del governare».

Frasi come queste si sono viste registrare via via, nel corso dei secoli, al punto che – sostiene sempre il Mamiani – «né Roma e i Papi hanno mai ardito condannare siccome eretiche somiglianti proposizioni». E qui scaturisce la pressante diatriba del tempo tra il gruppo cattolico liberale allargato e l’Ordine Gesuita che si fece paladino di una sorta di «controriforma cattolica» del XIX secolo. Terenzio Mamiani infatti pronunciò la seguente frase, rivolto al corrispondente inglese Weir: «Ciò che poi i Gesuiti fanno fare al presente al Papa, vale a dire di pronunciare dogmi nuovi e sovrapporsi così ai Concili stessi è nella Chiesa Cattolica una vera enormità. Ma il segreto di questa stranissima elevazione dittatoria del Papa si è che i Gesuiti vogliono la grande e formidabile macchina della gerarchia cattolica sia tutta fatta movere ed agire dai soli cenni di Roma (assoluto centralismo) per resistere con più vigore ai progressi della libertà, stringer lega coi Governi retrogradi (escludendo dunque gli Stati protestanti e la stessa Francia), impedire l’emancipazione d’Italia e tenere in piedi il potere temporale, senza di cui disperano di serbare vive le forze e l’influenza di certe odiose istituzioni».

Qui il riferimento va alle divisioni interne della Curia Romana e dello stesso Ordine Gesuita, che non fu certamente un monolite. Perché parlare di Gesuiti, come ci ricorda un membro stesso dell’Ordine nelle sue pubblicazioni[4], Padre Gioacchino Prosperi, significa fare dei netti distinguo. I padri gesuiti, Prosperi sostenne, erano «sani di mente» e «non sani di mente», questa una sua colorita frase, contenuta all’interno di una sua pubblicazione. Il Padre in questione, amico intimo di Prospero d’Azeglio, uno dei fondatori di «Civiltà Cattolica», sin da studente, quando insieme furono in Sant’Andrea al Quirinale, uscito dalla Compagnia sin dal 1830 per abbracciare l’Ordine Francescano, fa nomi e cognomi circa questa sua osservazione. Ricorda che Padre Boero e Padre De Ravignan (gesuiti come lui in Piemonte) erano sani di mente, ossia seguivano la politica progressista cattolico-liberale, mentre Padre Liberatore e Padre Melia, entrambi siciliani, furono definiti come «non sani di mente», vale a dire seguaci del gesuitismo più retrogrado e vecchio stampo. Viene spontaneo chiedersi: gli interessi economici e politici che i Padri Gesuiti sostennero nel Nord Italia furono, in quegli anni cruciali, gli stessi sostenuti nello Stato Pontificio piuttosto che in Sicilia e genericamente nel sud dello Stivale? La risposta forse è solo retorica, visti i documenti di Padre Prosperi e soprattutto gli stessi suoi intimi rapporti con l’intera famiglia d’Azeglio.[5] No, le divisioni interne laceravano la Penisola, prima ancora che il Vaticano. Espressione troppo generica quella di Vaticano per chiarirne i rapporti interni ed esterni.

Questa digressione si rende dunque necessaria visto il ruolo assunto nelle vicende dallo stesso Padre Taparelli e da Vincenzo Gioberti, a lungo espressione della soluzione neoguelfa.

Nel suo volume L’Italia del Risorgimento 1831-1861, Indro Montanelli verga un corrosivo giudizio sulla popolarità del Primato, il testo di Vincenzo Gioberti: il lettore si domanderà come abbia potuto la storiografia risorgimentale attribuire tanta importanza ad opere di così modesto e cervellotico contenuto. Ma il motivo c’era, ed è abbastanza chiaro; esentava gli Italiani da una rivoluzione che essi non avevano mai voluto fare, o che speravano di fare coi carabinieri nel 1821, quando credevano di avere dalla loro Carlo Alberto, o nel 1831 a Modena, quando avevano fidato nell’appoggio di Francesco IV, interpretavano a meraviglia quel pensiero che ormai prendeva il posto di quello rivoluzionario: il pensiero «moderato», fatto in sostanza di rinunzia e d’illusione; la rinunzia a risolvere il problema nazionale col proprio sangue e l’illusione di poterne delegare il compito a qualche forza demiurgica come il Papa di Gioberti, o a qualche sapiente «combinazione» diplomatica, come la Turchia di Balbo. Ma il Primato sollevò grandi discussioni tra i contemporanei. L’idea di un Papato guida del Risorgimento Italiano sembrò un controsenso a tutti quei liberali affezionati alla tradizione machiavellica e anticuriale, che ben conoscevano le tristi condizioni dello Stato Pontificio. A seguito delle sollecitazioni dell’opinione pubblica moderata e delle perplessità che tra gli stessi Cattolici avevano suscitato le lodi ai Gesuiti e al Papa, nonché il silenzio sui mali profondi dello Stato della Chiesa, Gioberti incominciò a puntualizzare la propria elaborazione. Nacquero i Prolegomeni del Primato morale e civile degli Italiani (1845), in cui l’antigesuitismo diventa una componente essenziale del programma neoguelfo. La Compagnia di Gesù è dipinta come retriva, nemica del progresso, della libertà e dell’idea di nazionalità. Per lo storico Gabriele De Rosa, si tratta di un disegno di larga portata, frutto di un interno ripensamento dello stesso Gioberti. L’intento era quello di utilizzare le passioni coltivate dalla secolare letteratura laicistica e spiritualistica, che aveva reso odioso tra larghi strati della borghesia il nome della Compagnia: «Noi non combattiamo nei Gesuiti l’ordine religioso, ma sì la setta politica». Ciò va fatto «non solo per amore della civiltà, ma eziandio per quello della religione, a cui i Gesuiti nocciono non meno che alla Patria». Il Papato deve uscirne preservato, immune da ogni critica che, per quanto attiene lo Stato della Chiesa, deve limitarsi «alla polizia, ai ministri, alla fazione retrograda eccetera». Del resto, come testimonia lo storico francese Jean Lacouture nella sua opera sulla Compagnia di Gesù, i seguaci di Ignazio di Loyola avevano effettivamente assunto il ruolo di catalizzatori del legittimismo conservatore e ultramontano, di tutte le componenti che rifiutavano il liberalismo e lo «spirito del secolo». I Cattolici più intransigenti risposero alle indicazioni di Gioberti con una diversa formula politica. In particolare la polemica tra Gioberti e Luigi Taparelli d’Azeglio è di notevole importanza nell’ambito della storia del Cattolicesimo organizzato in Italia. Innanzitutto perché costituisce forse il nodo ideologico principale del conflitto che divise allora i Cattolici, ponendo una grave remora alla realizzazione del programma neoguelfo. In secondo luogo, come sottolinea De Rosa, perché il fallimento del disegno giobertiano è la vera cesura che avvia la formazione di un movimento cattolico organizzato autonomo. Al centro del dibattito il principio della «nazionalità», che in ultima istanza scopre «l’impossibilità strutturale del Cattolicesimo di diventare il perno di un programma di lotta nazionale». Queste posizioni politiche costituiscono il programma dell’Opera dei Congressi. Prima della questione territoriale e politica, di cui i Cattolici non avrebbero, secondo Padre Taparelli, dovuto occuparsi. Secondo Padre Taparelli tutto doveva partire dalla società civile, come complesso di forze ed esigenze autonome primarie, come elementi materiali costitutivi di un’Unità nazionale precedente quella territoriale e politica. In principio le posizioni di Gioberti e Taparelli non apparivano antagonistiche, presupponendo entrambe una soluzione autonoma del problema italiano, al di fuori della formula «progressista-giacobina». Taparelli attraversò persino una fase di moderato entusiasmo per Gioberti, riflettendo con altri teorici della Compagnia sulla possibilità di un «liberalismo non empio». Con la pubblicazione dei Prolegomeni, la risposta taparelliana apparve come una via di difesa, che più che negare il Primato, ne esigeva un’integrazione secondo una prospettiva autonomistica. Solo dopo il fallimento politico dell’esperimento neoguelfo la visione taparelliana divenne pura espressione di una resistenza cattolico-conservatrice, che finì per costituire la base di forza del movimento cattolico organizzato. Ancora De Rosa si sofferma su questo dibattito, dallo specifico angolo visuale del radicamento politico e sociale dei Cattolici nell’Italia postunitaria. Per un verso il neoguelfismo non ebbe, e non poteva avere, un carattere di azione cattolica, di milizia laicale autonoma, più o meno vicina al Vescovo. La filosofia politica del Primato rendeva superflua la formazione di società cattoliche per la difesa sul piano civile e politico degli interessi religiosi, dal momento che unificava programma nazionale e ideali del Cattolicesimo tradizionalista. Se si fosse affermata la prospettiva neoguelfa, non avrebbe avuto più senso una politica giurisdizionalistica degli Stati Italiani, non ci sarebbe stato pericolo di cleri giansenizzanti e di tendenze «riformatrici» tollerate dai Principi; privilegi e beni degli Ordini religiosi sarebbero stati rispettati. In Luigi Taparelli d’Azeglio, figlio dell’«amico cristiano» Cesare d’Azeglio e fratello di Massimo, l’idea di un’azione cattolica promossa da laici faceva parte di una più complessa visione storica dei rapporti fra Chiesa e Stato in un regime liberale e parlamentare. Quando il Padre Gesuita Taparelli contrappone le proprie argomentazioni a quelle di Gioberti, ha già aderito ai moti del 1848 in Sicilia; ha scritto l’opuscolo Sulla libertà di associazione e preparato lo studio sulla legge che avrebbe dovuto guidare i moderati siciliani nell’organizzazione della nuova società, nata dalla rivoluzione, e che si collegava in buona parte alla tradizione antistatalista della corrente moderata e liberista siciliana. In quel contesto Taparelli accolse il regime costituzionale con un sistema migliore di quello borbonico, che aveva circondato di privilegi la Chiesa e gli Ordini religiosi ma poi ne aveva succhiato la vitalità con una soffocante protezione. Accettò nel 1848 il rischio della politica affidata alla dinamica del gioco parlamentare, augurandosi che la libertà siciliana fosse come quella vigente negli Stati Uniti, ove ogni religione è civilmente rispettata e nessuna politicamente regnante. L’accettazione del regime costituzionale aveva inoltre una conseguenza importante per la religione cattolica. Nella dialettica politica e parlamentare l’interesse religioso non poteva che essere difeso da comitati laici. Siamo alla vigilia della cacciata dei Padri Gesuiti dallo Stato Pontificio ad opera di Pio IX, una scelta che pure non bastò al Pontefice per salvare il Trono, costretto a fuggire a Gaeta per sottrarsi alla richiesta dei rivoltosi di dichiarare la guerra santa contro l’Austria. Anche la Camera Siciliana si accingeva a pagare pegno all’antigesuitismo giobertiano. E sulla base di quelle urgenze Taparelli spiegò ai suoi superiori le ragioni che militavano a favore della creazione di un comitato laico per gli interessi della Chiesa in Sicilia. La filosofia nazionale di Gioberti non poteva essere la soluzione della crisi apertasi nell’incontro tra rivoluzione liberale e Chiesa Cattolica; e a livello di Governi e Parlamenti non era più possibile trovare tutela e difesa dell’interesse cattolico. Per questo i Cattolici dovevano fare da sé, costituendosi come forza politica organizzata autonoma. Il De Rosa sottolinea come le ragioni cui fa appello Taparelli siano le stesse invocate dai Cattolici intransigenti, dopo la breccia di Porta Pia, per dar vita all’Opera dei Congressi.

Quale dunque il suggerimento che Terenzio Mamiani fece al corrispondente inglese Weir per far uscire la Chiesa Cattolica, genericamente intesa, dalle sue logiche di mantenimento dello status quo sopra descritte? Scrive Mamiani al suo amico corrispondente: «Ai Governi liberali rimane una sola via per difendersi contro un’associazione che è estremamente più gagliarda e stretta di quella stessa dello Stato. E tal via è d’ingerirsi nella polizia esteriore della Chiesa e costringere con le Leggi il Clero a non uscire per nulla dal Santuario. I limiti di tale ingerimento sono difficili a segnarsi come è difficile fare leggi che il Clero non eluda. Ma se non tutto il male si può impedire, certo si può la porzione più perniciosa. Le larghe teoriche di libertà, come vede il signor Weir, non sono a noi applicabili per tal materia».

Queste ultime parole sono essenziali. C’è un’ammissione diretta dell’impossibilità del Paese di costruirsi un futuro realmente democratico, avulso cioè da logiche di divisione interna.

Prosegue Mamiani: «O perdere le libertà politiche, e la speranza del Risorgimento (vero Risorgimento, aggiungerei) o frenare il Clero che al presente cospira (continuò a farlo ben oltre l’avvenuta proclamazione dell’Unità nazionale) in tutta l’Europa. Noi Cattolici potremmo parlare di libertà assoluta e rispetto della religione e del Clero, quando il Papa non sarà più Principe temporale e l’Italia esisterà con Governi nazionali. Allora la Riforma Cattolica diverrà un fatto inevitabile e il nostro Clero dovrà mantenersi con la virtù e la scienza. Né sussisteranno più le cagioni principali che oggi lo forzano a osteggiare sempre ed in ogni cosa le idee liberali e chiedere la libertà per sé e il servaggio per gli altri». In questo è ottimista Mamiani, non del tutto lungimirante. L’esempio delle idee gallicane professate dai Cattolici d’oltralpe, in particolare francesi, fu sufficiente e ottima norma per combattere la indebita dittatura del Pontefice Romano.

Parole dure e particolarmente significanti, quelle di Terenzio Mamiani. Un chiaro invito al mondo anglicano a stare all’erta per procurare all’Italia i giusti strumenti per sostenere le fasi salienti del nostro Risorgimento; e risorgere, lo Stato Italiano, questo sì, con fermenti nuovi, nient’affatto prevedibili. Ciò, pare auspicarsi Mamiani, a breve, in tempi rapidi. Sulla prevedibilità si aprirebbe un complesso discorso a parte, non trattabile in questa sede.

Oggi Romualdo Volpi e Terenzio Mamiani ci ripropongono le fasi più genuine delle nostre vicende unitarie, da rileggere e valorizzare.


Note

1 Sacerdote lucchese cattolico liberale vissuto nel XIX secolo.

2 In proposito posso accennare al fatto che la famiglia Mamiani Della Rovere fu sin dal Cinquecento legata verosimilmente agli ambienti lucchesi. Proprio nel Cinquecento ci fu un matrimonio di Mamiani con i Della Gherardesca di Donoratico, cui fa espressamente cenno l’ingegnere lucchese Rodolfo Pierotti con uno scritto dal titolo dal titolo Eredità Mamiani Della rovere Donoratico, presente verosimilmente Firenze nelle carte dei Della Gherardesca di Donoratico in maniera diretta come appare dai documenti. Ma frequentarono pure con assiduità lo stesso Romualdo Volpi.

3 Estratto da «Rassegna storica Toscana», anno IV, fascicolo III-IV.

4 Padre Gioacchino Prosperi. Dalle Amicizie Cristiane ai Valori rosminiani. Tesi che ho pubblicato su «Tesi on line». Anno Accademico 2009-2010, Università di Pisa.

5 La madre di Padre Prosperi era Maria Angela Castiglioni, dei Castiglioni di Olona, e dunque cugina dei Verri. Il Lucchese Padre Prosperi frequentò verosimilmente Alessandro Manzoni, che a sua volta fu a Lucca ben prima del matrimonio della figlia con Giorgini. Le carte ed i rapporti di Padre Prosperi con gli ambienti sia torinesi che milanesi lasciano pochi dubbi.

(febbraio 2014)

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