La tela del Ragno
Un Risorgimento in penombra: 1839-1854

La mia tesi di laurea su un religioso del XIX secolo, Gioacchino Prosperi, che da ex Gesuita, ma sempre nella veste sacerdotale, abbracciò l’idea di Patria e di Nazione, mi ha permesso di affrontare ricerche alternative sul Risorgimento, che mettono in evidenza aspetti fino ad ora rimasti in penombra. Solo addentrandosi dentro vicende umane con una loro precisa fisionomia è possibile fare più chiarezza nei meandri di una realtà storica che deve porsi innanzi tutto al servizio del cittadino, per una comprensione a tutto tondo delle dinamiche risorgimentali.

Del religioso presente nella mia tesi posso tranquillamente fare un breve sunto. Si tratta di un aristocratico lucchese nato nel 1795 (per taluni nel 1798) e deceduto nella città nativa nel 1873. Si formò come Padre Sesuita in Sant’Andrea al Quirinale a Roma prendendo i voti nel 1815. Nel medesimo periodo nell’Istituto Romano visse accanto a Prospero D’Azeglio (Padre Taparelli) e a Carlo Emanuele IV di Savoia, ex Sovrano Sabaudo che, dopo l’abdicazione in favore del fratello Vittorio Emanuele I, divenne Padre Gesuita. Con quest’ultimo Prosperi condivise per cinque anni le medesime mura romane. Nel 1820 si trasferì a Torino ed ivi rimase fino al 1834. In questi 14 anni la trasformazione del pensiero di Padre Prosperi fu radicale, al punto da fargli abbandonare l’Ordine nel 1826 ed abbracciare la veste francescana. Dapprima nei collegi gesuiti come docente, non ultimo in Novara, dove fu Rettore dal 1822 al 1824 proprio Padre Taparelli; poi sempre docente e Prefetto degli Studi in Cuorgnè, Lanzo, Rivarolo Canavese insieme al Professor Gioacchino De Agostini, un Padre Torinese che ne condivise il percorso politico. Ai tempi del suo apostolato come Padre Gesuita Prosperi collaborò alle Amicizie Cristiane del marchese Cesare D’Azeglio, padre di Prospero, Massimo e Roberto. Fu vicino a Pio Brunone Lanteri. Poi divenne uno strenuo difensore di Antonio Rosmini. Nel 1834 arrivò ufficialmente l’espulsione da Torino per una frase incriminata dell’Ode di Lanzo, da lui scritta, letta e pubblicata presso l’editore Marietti in occasione dei solenni funerali del Monarca Carlo Felice. Ufficiosamente lo ritroviamo sempre in Torino nel 1838 a predicare la Quaresima. Quale la frase incriminata? L’orazione è scarna, priva di contenuti trasgressivi. Ivi però si ricorda che il Monarca Carlo Felice non disdegnò di prendere in considerazione l’opportunità di costruirsi una flotta come possibile strumento di espansione sabauda nel Mediterraneo. Un Mediterraneo che si poteva fare incandescente in un clima d’Antico Regime dove Londra volle sovente occuparsi di quelle Isole che avrebbero potuto rappresentare una vera spina nel fianco per Vienna e le restanti potenze reazionarie. Un semplice accenno, il suo, che bastò, io credo, per renderlo inviso alle autorità. Ciò naturalmente solo in apparenza, perché erano le apparenze che dovevano essere salvate. Prosperi rimase sempre fedele a Casa Savoia ed agli ideali che la Casata perseguì in quegli anni cruciali che portarono all’Unità Nazionale. Lo fece da Cattolico Liberale, ma con lealtà e convinzione. Nel 1839 il Duca Borbonico della città di Lucca, Carlo Ludovico, lo incaricò ufficialmente come Padre Missionario in Corsica di missioni religiose pressoché indefinibili, visti i contenuti delle stesse che Padre Prosperi pubblicò nel 1844 presso l’editore Fabiani di Bastia col titolo La Corsica e i miei viaggi in quell’Isola. Qui egli indirizzò dieci lettere missionarie all’amico Padre Gioacchino De Agostini, ma non entrò mai in questioni religiose. Si prodigò viceversa, quasi si trattasse di lettere in codice (un documento dell’Archivio di Stato Lucchese lo vuole un frate muratore devoto bonapartista), di narrare fatti e personaggi dell’Isola, l’orografia e la disposizione geografica della stessa. Parlò di storia, lingua, tradizioni degli isolani con convinzione ed amore quasi fraterno. Prosperi sicuramente abbracciò la causa corsa in ogni sua parte. Aggiunse, sempre nella singolare pubblicazione, una scarna Ode in Memoria di Monsignor Sebastiano Pino, Vicario dell’Isola, deceduto nel 1843. Anche questa davvero unica, visto che il Pino era stato un fervente anti bonapartista, mentre in realtà qui il Prosperi non fa alcun accenno al tormentato passato politico del Vicario, lui che si dichiara palesemente nelle lettere non solo un rosminiano convinto, ma anche un ammiratore delle gesta dell’Aquila Imperiale. Nel frattempo anche Padre De Agostini, a cui aveva indirizzato le sue lettere, ebbe un percorso travagliato che lo porterà nel 1848 all’abbandono dell’abito talare per sposare l’anno successivo Adelaide Galli Dunn, figlia di Fiorenzo Galli di Carrù, il patriota mazziniano amico del Conte Linati di Parma, strettissimo collaboratore di Filippo Buonarroti. Adelaide Galli Dunn era nata a Londra nel 1833 e da protestante divenne Cattolica proprio per sposare il De Agostini. Era cugina per parte materna del celebre pittore David.

Le singolari vicende dei due religiosi si intrecceranno in quegli anni. Prosperi non lascerà mai l’abito talare e morirà parroco nella sua chiesa di Sant’Anna Fuori le Mura, in Lucca, nel 1873, come l’amico De Agostini (quest’ultimo nato nel 1808). Tali questioni così espresse non hanno nulla di straordinario ma i fatti che narrerò dimostrano viceversa la capillare tela del Ragno che in quegli anni i Cattolici Liberali piuttosto che i mazziniani e i democratici, in un’ottica di assolta collaborazione, seppur da posizioni spesso in antitesi, riuscirono a costruire per realizzare un unico ideale: costruire uno Stato Italiano indipendente, dapprima concepito in modo federale, poi unitario. Lo stesso Mazzini fu fortemente coinvolto nelle questioni che sto per descrivere.

Mi concentrerò sul periodo che va dal 1839 al 1844 perché quelli furono anni cruciali, in cui questa collaborazione si dimostrò ardita e concreta, seppur incapace di concretizzarsi in modo adeguato. Sono gli anni delle lettere di Padre Prosperi, ma anche gli anni di verosimile collaborazione dello stesso con i suoi congiunti lucchesi che avevano sposato le cause bonapartista e mazziniana, cause in quegli anni coincidenti. Passerò poi al decennio successivo, nello specifico al 1854.

Alcuni congiunti di Padre Prosperi sono miei congiunti. I miei avi coinvolti in modo «rocambolesco» nelle questioni risorgimentali si chiamano Lorenzo, Cesare e Giuseppe. Il primo nacque a Lucca nel 1867 e morì alla metà del XIX secolo. Appartenne ad una famiglia aristocratica di antico retaggio. Sempre votati ad un Cattolicesimo militante, così militante che si dichiaravano «quelli di San Giovanni». Erano perciò i Cavalieri di Malta? A questa domanda non saprei rispondere, però il pittore Giuseppe, in data 23 aprile 1856, scrisse a Gino Capponi, suo amico, una lettera in cui ricordava di alcuni scavi archeologici del periodo in Castelnuovo Garfagnana, che rinverdirono i fasti del 1200: «Capponi mio, il cavaliere è tuo, non è mio». Il cavaliere rinvenuto poteva essere un cavaliere del Tau, visto che i Capponi erano stati a lungo i Gran Maestri di quell’Ordine. La frase dunque tende ad alludere come il nostro fosse, per «contrapposizione», un giovannita. Che non necessariamente significò Ordine di Malta. Perché gli stessi cavalieri del Tau confluirono per alcuni periodi nei cavalieri Ospitalieri. Che includevano anche i Cavalieri del Santo Sepolcro di Goffredo di Buglione, uno degli Ordini equestri più antichi, tutt’ora esistente. Per non parlare addirittura dell’Ordine Templare, che ebbe al suo interno anche i conti di Bar di matildina memoria, visto che Beatrice di Lorena era figlia di un conte di Bar e cugina di Goffredo e Baldovino. Non intendo certamente entrare in disquisizioni che solo i cultori di storia medievale potrebbero accogliere. I miei riferimenti vogliono ricordare che la matrice del nostro Lorenzo era ampiamente cattolica. Cattolica sì, ma anche assolutamente liberale. Nel 1574 in Lucca era stato fondato l’Ordine dei Chierici Regolari della Madre di Dio, spesso confluiti nell’Ordine di Calasanzio. E a metà Settecento il loro esimio Rettore, Monsignor Giandomenico Mansi, fu più volte accusato di giansenismo, come il religioso protagonista della mia tesi. Molti congiunti di Lorenzo riposano nella chiesa dell’Ordine dei Chierici, sita in Lucca, Santa Maria Corte Orlandini. La tradizione cattolico liberale degli stessi è in tal modo fatta salva, senza ombra veruna: il primo Padre che tradusse il Corano in latino fu nel 1698 Ludovico Marracci, membro autorevole dell’Ordine e antesignano di un dialogo con le culture mediorientali.

Di Lorenzo abbiamo una lettera datata 1° gennaio 1815 inviata al religioso pisano Ranieri Zucchelli in cui egli fa riferimento ad un loro comune amico, il Pastore d’Amico, che ha influenza sul conte Lazzari per verosimilmente naturalizzare un patriota. La lettera appare frammentaria ma il conte Lazzari, dato il riferimento al Pastore, potrebbe essere Fabrizio Lazzari, amico e collaboratore di Carlo Alberto di Savoia, in quel periodo acceso sostenitore dei Bonaparte, come il rampollo sabaudo. Del resto Fabrizio Lazzari era nipote del Rege de Gifflenga, il più autorevole Generale Sabaudo in epoca napoleonica, che in quel periodo quei valori aveva abbracciato. E la lettera proviene dalla collezione di Pelagio Palagi, l’artista canoviano che negli anni successivi alla lettera restaurò tutta Torino, compresa la Palazzina di Stupinigi. Per frasi dette e non dette posso personalmente affermare che a Lorenzo si attribuivano forti legami in Lucca con i Bonaparte medesimi ai tempi del Principato Baciocchiano.

Suo figlio Cesare (1806-1901) fu un rivoluzionario d’impronta mazziniana. Vicino a Guerrazzi ma soprattutto a Tommaso Corsi, come apprendiamo da una sua lettera del 1860 a questi indirizzata. Rimase coinvolto in un brutto incidente di percorso tra gli amici del popolo a Firenze durante i fatti del 1848 e ne subì le conseguenze nel corso della sua lunga esistenza. Il figlio di questi è Giuseppe (1826-1884) che ritengo possa essere il pittore di Castelnuovo cui ho fatto cenno, non tanto per questioni di omonimia e di coincidenza delle date di nascita e di morte, quanto perché l’allora noto pittore ha un suo dipinto nella villa di Sant’Alessio di Lucca che appartenne a questi miei avi (pittura, così viene definita in Lucca, di un celebre pittore dell’Ottocento; con gli stessi tratti, aggiungo io, dei dipinti del pittore medesimo).

I rapporti di parentela tra i Pierotti Lucchesi e i Pierotti di Castelnuovo sono più che plausibili, dato che il 31 dicembre 1867 sono presenti presso il Banco Popolare di Firenze azioni sia di Cesare che di Ermete Pierotti di Pieve Fosciana, ufficialmente cugino del pittore menzionato; davvero troppe le coincidenze che mi sento in dovere di riferire: potrei a lungo continuare ad enumerarle annoiando palesemente il lettore e non addentrandomi nei fatti che viceversa intendo descrivere. Solo una domanda: perché tanto riserbo su questi personaggi, sia in famiglia che altrove? Le loro vicende parlano da sole.

A questo punto subentrano i riferimenti al Padre Prosperi cui ho fatto cenno ed all’amico piemontese Gioacchino De Agostini. I due religiosi dalle lettere del Prosperi sembrano particolarmente interessati alla conformazione geografica dell’Isola Bella. Certamente De Agostini non è un semplice cartografo ed insigne erudito, ma anche un celebre giornalista che collabora al «Messaggere Torinese» di Angelo Brofferio, che fonda il «Carroccio» di Casale Monferrato con Luigi De Marchi e Carlo Cadorna, fratello del Generale; che diverrà lui stesso l’editore dei giornali vercellesi «Vessillo della Libertà», più tardi «Vessillo d’Italia», che egli rileverà dall’Assemblea degli Azionisti. De Agostini è stato il professore più amato di Quintino Sella al Liceo di Biella. Presumibilmente anche dei fratelli Valerio, visto che l’Orazione funebre dedicata al Valerio porterà la sua firma. È in strettissimi rapporti con Padre Calandri, amico personale e collaboratore di Alessandro Manzoni. Non disdegna sia gli ambienti democratici (ribadisco che è genero di Fiorenzo Galli) che quelli cattolico liberali, di cui si sente a pieno titolo parte attiva ed integrante. Suo fratello Paolo del resto è un editore celebre in Torino e stampa sia per Silvio Pellico che per Don Bosco in via della Zecca numero 23, Palazzo Birago, dei Birago da Borgaro, nota famiglia aristocratica piemontese che in Torino, nell’attuale sede della Camera di Commercio teneva, così pare, ma non ho potuto avere altre conferme al momento se non in rete, un importante salotto letterario, di stampo liberale. Del resto i riferimenti al De Agostini non li ritroviamo se non nei frequentatori della celebre Accademia Letteraria Pino, sempre in Torino dei due religiosi, Clemente Pino e Clemente De Negri, che il Sovrano Carlo Alberto non mancò di agevolare? Tutti i principali nomi del nostro Risorgimento sono passati per quell’Accademia.

Dunque Padre Prosperi che scrive nel 1839-1844 all’amico fraterno Gioacchino De Agostini, e che si batte strenuamente sui giornali e nelle pubblicazioni contro gli ex amici di percorso gesuiti; che viene accusato nel 1844 a Firenze di essere un prete rivoluzionario perché se ne va in giro in tutta Italia con denaro e libri sospetti per poi venir prosciolto; quel Padre Prosperi la cui madre è Maria Angela Castiglioni, dei Castiglioni di Olona, che hanno rapporti di parentela con i fratelli Verri; che ama citare costantemente Alessandro Manzoni nelle sue opere, come l’amico De Agostini non disdegna la frequentazioni dei democratici. In Lucca tiene rapporti con la marchesa Bernardini, cara ai conti Ghivizzani, che di Pieve Fosciana e dei moti del 1831 hanno fatto una bandiera. Antonio Ghivizzani ancora nel 1872 scriverà un’Ode in memoria di Giuseppe Mazzini e verrà eletto in Parlamento nel neonato Stato Unitario solo in tarda età, proprio per i suoi trascorsi mazziniani.

Le lettere missionarie del Prosperi del 1844 accennano solo ai ragguagli bonapartisti, a nomi di isolani che con i Bonaparte hanno un «feeling» tutto particolare, che sono segnalati come accesi sostenitori delle idee liberali. Ma nulla più, a parte le navi da guerra che potrebbero transitare nel porto di Ajaccio. Che è povero il dono offerto al De Agostini ma che tutti i riferimenti sono il frutto dei «nostri sudor». Nostri? Pluralis maiestatis? Ma sono solo accenni. Mentre nel documento lucchese in archivio col particolare riferimento al suo essere un Padre Muratore si parla di legami con gli ambienti algerini, che sono gli stessi di stanza a Malta. E soprattutto si afferma che Padre Prosperi è ispirato dal Pio Legislatore di Nicotera, con la patente di efficace labaro. È palese il riferimento a Pasquale Galluppi, il celebre filosofo liberale di Tropea. Traggo dunque da una pubblicazione dello storico Christopher Duggan i riferimenti al periodo: «Nel 1839 Mazzini si accinse a riprendere l’iniziativa in campo cospirativo e a rilanciare la Giovine Italia. Lo preoccupava il rischio che la comparsa di organizzazioni rivali si risolvesse in uno spreco di energie rivoluzionarie; e con lo scoppio dell’agitazione cartista in Inghilterra ebbe l’impressione che forse l’Europa stava entrando in una nuova fase di sommovimenti popolari. Il Mezzogiorno sembrava un buon candidato all’insurrezione (nel 1837, sulla scia di un’epidemia di colera, una rivolta particolarmente brutale, in gran parte di natura sociale ed economica, aveva dilagato in tutta la Sicilia), e Mazzini tentò di convincere Nicola Fabrizi, il Comandante della Legione Italica, a lavorare insieme con lui alla preparazione di un piano d’azione concertato. Temeva che una ribellione meridionale potesse avere un orizzonte troppo provinciale (e un’impronta troppo materialistica); e una speciale preoccupazione che un’insurrezione siciliana si orientasse verso l’indipendenza dell’isola e non dell’Italia. Comunque l’idea di collaborare con Mazzini non entusiasmava Fabrizi; e quando rivolte di minor rilievo scoppiarono in Romagna nella primavera del 1843 e in Calabria un anno dopo, dietro c’era l’iniziativa di cospiratori locali più che non la mano di Mazzini o Fabrizi. Il centro dell’insurrezione calabrese era la remota, montagnosa zona della Sila, all’estremità Sud-Occidentale della penisola: un territorio da lungo tempo noto per l’illegalità e il banditismo. Il piano era stato elaborato nell’arco di alcuni mesi insieme con un gruppo di liberali napoletani. All’alba del 15 marzo 1844 un centinaio di uomini armati entrò a Cosenza sventolando una bandiera tricolore e gridando “Viva la Libertà”. Cercò d’irrompere nel palazzo del governatore provinciale, ma all’arrivo sul posto di un reparto di poliziotti ci fu una sparatoria, e finirono uccisi il capitano dei gendarmi (figlio di un famoso filosofo napoletano, Pasquale Galluppi) e quattro ribelli, tra i quali il loro capo. Gli altri insorti riuscirono a scappare, ma nei giorni successivi alcune decine furono catturati, e sotto la pressione del Governo i tribunali irrogarono punizioni esemplari. Diciannove cospiratori furono condannati a morte e giustiziati pubblicamente da un plotone di esecuzione». In termini concreti l’insurrezione non aveva ottenuto nessun risultato, ma aveva dimostrato che gli Italiani potevano comportarsi con coraggio. «Meglio fare e non riuscire che non fare cosa alcuna», sostenne per l’occasione Giuseppe Mazzini. Il filosofo Pasquale Galluppi per parte sua decretò sulla morte del figlio: «Avrei preferito che fosse morto per una causa più nobile e più giusta». La prima frase evidenziata, di Giuseppe Mazzini, ed il suo timore delle organizzazioni rivali, pone sì dei distinguo tra i democratici mazziniani ed i Cattolici Liberali votati alla questione italiana. Il fare, ossia il dover fare, non esula necessariamente da una collaborazione, anche conflittuale. Del resto se le forze non venivano in qualche modo unite, nemmeno le insurrezioni settoriali avrebbero potuto aver seguito. La frase del filosofo sulla morte del figlio, a prescindere dal senso di vuoto e di pietà, documenta le posizioni di Pasquale Galluppi, che certo non è un reazionario. Perché proprio il luogo dove il figlio di Galluppi comandava le guardie municipali fu oggetto di tale nutrita cospirazione? Qualcuno pensava di coinvolgerlo? Una segreta speranza del padre di votare il figlio ad altra causa? Come non pensarlo, ma al momento non ho alcun elemento per provarlo. Il ruolo che il Mezzogiorno aveva nel periodo ed il reciproco desiderio (dei democratici e dei Cattolici Liberali) di non consentire che la Sicilia addivenisse ad una indipendenza avversa ad una unione, anche federale, con il resto della Penisola, poteva far confluire le forze in campo. Questo il mio pensiero. Così nel 1838 era rientrato a Lucca da Londra il patriota Pier Angelo Sarti, amico dei più noti patrioti della Penisola esulati nella capitale inglese, molti di loro ardenti democratici. In Lucca rinveniamo la lettera dell’editore Rolandi Piemontese, diretta al Sarti, con i saluti di Beolchi, Miglio, Panizzi, e del vate Gabriele Rossetti, quest’ultimo con note di suo pugno. La Reggia dell’Invidia, operetta pubblicata dallo stesso Sarti a Londra nel 1838, mette in evidenza le divisioni interne nel movimento democratico e patriottico nel suo insieme. L’anno successivo, giusto nel 1839, Antonio Panizzi, il futuro Sir Panizzi, raggiungerà in incognito l’Italia, e precisamente Torino, con lasciapassare britannico fattogli avere dal Duca Lucchese Carlo Ludovico di Borbone, che spesso visitava la capitale inglese e che desiderava che Panizzi, celebre bibliotecario del British, sistemasse la sua biblioteca personale in Lucca. A Torino Panizzi agisce indisturbato, non così a Genova, dove il Governatore della città lo redarguisce pesantemente tanto da farlo precipitare nuovamente a Londra senza passare per Lucca. Il Duca in una lettera lo prende un po’ in giro con fare sibillino ammonendolo sull’eccessivo timore avuto e sull’aver vanificato i suoi sforzi. Mazzini stupito per l’accaduto in una lettera alla madre Maria chiede se nel Regno Sabaudo i Sovrani sono uno oppure due. Carlo Alberto non riusciva a controllare l’agire del Governatore Genovese? Ma soprattutto era invischiato in manovre cospirative? Perché Panizzi in quel frangente aveva in mente anche di far visita ai suoi congiunti in Reggio Emilia, come si evince dai documenti, e contava dunque di avere le spalle coperte. Qualcosa andò storto, ma soprattutto una fitta «Tela del Ragno» doveva essere presente se tali manovre, qualunque fosse il loro scopo, si ritenevano possibili. Ci sono poi, sempre in Lucca, le singolari lettere del periodo della marchesa Bernardini, protettrice del patriota Bezzi in Marsiglia, come appare nelle missive, ma anche di tale patriota Ferrari di Modena, contumace. Trattasi di democratici, e la marchesa è confidente di Padre Prosperi. Ai suoi sagaci suggerimenti il sacerdote si affida tra una missione e l’altra in Corsica, così come appare sempre dai documenti. In particolare la marchesa lo sollecita ad essere «prudente». A quale prudenza allude, visto che lo stesso Metternich la degna sempre di particolari attenzioni, in varie occasioni mondane? Segue per caso i suoi spostamenti? Ritornando ai Pierotti di Castelnuovo, ed in particolare a Pietro Pierotti, dalle missive appare come cugino di Nicola Fabrizi, che infatti in Garfagnana trae le sue origini. Lo stesso Pier Angelo Sarti ha legami con la media valle, lui che è di Pescaglia e che non disdegna le frequentazioni in quei luoghi. Al centro delle osservazioni di quest’ultimo il vecchio quanto mitico ma ormai desueto Luigi Angeloni, collaboratore di Filippo Buonarroti, uomo di punta della prima Repubblica Romana il cui nipote, Ricciotti, morirà in quegli anni nella spedizione dei fratelli Bandiera, nel 1844, spedizione di stampo mazziniano. Concludo questo breve riferimento con una frase che il Duca Lucchese Carlo Ludovico scrisse in una sua missiva al Pralormo: «Ma le pare che io sia un cuoco da far la frittata innanzi tempo? E frigger Lei piuttosto che le uova di Gallina? Un buon vicino non fa di questi scherzi!». La lettera, con chiaro riferimento al conte Gallina, a Torino, che più tardi diverrà Ministro dell’Interno sostituendo nell’incarico proprio il Pralormo nello Stato Sabaudo, denuncia i timori di Carlo Alberto sui particolari comportamenti del Duca! La lettera degli anni Trenta vede ancora Pralormo Ministro dell’Interno, mentre nel 1844 verrà sostituito proprio dal conte Gallina in tale incarico dal Sovrano Carlo Alberto. Molti dunque gli ex mazziniani passati nell’orbita della Casa Regnante Sabauda. Tra questi Giovanni Bezzi. In «Rassegna Storica del risorgimento», anno 1970, troviamo quanto segue: «Bezzi fu un patriota Casalese o meglio Monferrino, deputato che ebbe frequenti contatti con Cavour ed emigrati italiani in Inghilterra: ma del libro [Giovanni Bezzi, patriota dimenticato, scritto da Adriano Muggia] parleremo in libri e periodici. Muggia ha ordinato e sviluppato vecchi e preziosi appunti del Professor Giuseppe Ottolenghi, già preside del Liceo Classico Casalese e Preside del Comitato di Liberazione della città, che erano in possesso del di lui figlio dottor Camillo». Chi è Giovanni Ottolenghi? Un erede del Generale Ottolenghi suo omonimo, il primo Generale di origine ebraica del neonato Stato Unitario, che divenne Ministro della Guerra. A conferma dell’indiscutibile ruolo di primo piano esercitato dagli Ebrei Italiani nelle vicende unitarie. Perché ho fatto cenno proprio a Giovanni Bezzi e all’Ottolenghi? Perché la marchesa Bernardini di Lucca nel 1854 è in diretta corrispondenza proprio con l’ex mazziniano Bezzi. Una loro lettera è presente all’Archivio di Stato Lucchese, in data 27 maggio 1854. Il Bezzi scrive da Livorno alla marchesa senza precisare il suo nome di battesimo e la lettera porta la dicitura di «messaggio sospetto». Eccone il contenuto, scritto in francese: «Madame La Marquise, je ne venais que ce matin une reponce de Marseille selon la Legion Etrangere (pour Algeri). Il y a souvent mais qu’an m’en fait… Bien fait recevoir pour le bateaux annès ce matin». Il contenuto è nebuloso, ma sono d’uopo alcune osservazioni. In quel periodo il Bezzi è ormai rispettabile, inserito nel Parlamento Subalpino. Non posso pensare che si tratti di Egisto Bezzi di Trento, patriota garibaldino, allora diciannovenne. Singolare che anche il Parlamentare Bezzi si coinvolga in simili manovre. Ad ogni modo il quadro del 1854 appare, alla luce dei documenti rinvenuti, abbastanza lineare. La previsione è in quel periodo, e Cavour persegue questo fine, la cacciata dello straniero e la creazione di un Regno del Nord per Casa Savoia, un Regno del Centro Italia per i Bonaparte ed un Regno del Sud per un Papato non necessariamente filo gesuita, dove per gesuita intendiamo, per dirla con Padre Gioacchino Prosperi, i non sani di mente contrapposti dall’ex membro dell’Ordine agli ex confratelli sani di mente. In una parola, facente capo alle forze meno retrive dello Stato Pontificio. Unica incognita la Sicilia, che ambiva all’indipendenza. In questo caso, forse, i Borboni avrebbero potuto mantenere l’isola, che in ogni caso sarebbe divenuta una sorta di Protettorato Britannico. O forse già si prevedeva la possibilità di porre un Bonaparte a Napoli ed il Regno del Centro Italia sotto l’egida pontificia. Sicuramente il tutto suddiviso in sfere d’influenza francese e sabauda. Perché Lucca e la marchesa come punti di riferimento? Perché Napoleone III ed i suoi familiari erano da sempre di casa a Lucca; perché la città, che aveva perso nel 1847 la sua millenaria indipendenza, non desiderava affatto restare sotto l’egida degli Asburgo Lorena come una Cenerentola, in Toscana, ed infatti, quando arrivarono i Savoia, fu palesemente dalla loro parte. Perché qui anche il mondo ebraico e protestante era di casa. La marchesa Bernardini ed il suo confidente Padre Gioacchino Prosperi furono dunque per le forze sabaude in campo punti di riferimento. Ma nel 1839-1844, ai tempi del Duca Borbonico Lucchese, che cedette il suo Ducato al Granduca Fiorentino nel 1847? Direi che lo scenario cambiava solo rispetto al 1854 per il coinvolgimento di più attori in un possibile Stato Federale. Quando Lucca si rese conto di aver perso definitivamente la sua indipendenza, appunto nel 1847, si accinse a sposare le cause insieme dei Savoia e dei Bonaparte che, evidentemente, in taluni casi furono coincidenti. Naturalmente la Corsica non fu più un ipotetico Stato satellite della Penisola Italiana altrettanto ipoteticamente federale, dal momento che a Parigi Luigi Napoleone Bonaparte nel 1848 prese il potere. Potere che divenne successivamente Impero Francese. Così nel 1854 ormai i Francesi sono «in fieri» quanto saranno nel 1858, con gli accordi di Plombières. A questo già sta lavorando con ogni probabilità Cavour, in amicizia col deputato Giovanni Bezzi. Potremmo ipotizzare che a Livorno il 27 maggio di quell’anno il patriota di Casale Monferrato tentasse abboccamenti con la Francia, l’accenno è alla Legione Straniera, che operava proprio in Algeria, evidentemente luogo strategico sia perché la maggior parte dei patrioti passava da lì, sia perché i finanziatori occulti in quelle che diverranno le note vicende italiane non sono solo i protestanti inglesi ma anche i vertici del mondo ebraico, vista la coincidenza d’interessi nel Mediterraneo, questo il mio pensiero. Sono supposizioni, ma i documenti rinvenuti tendono a ipotizzare quanto sto affermando. Un modo per riflettere, alla luce di quanto anche oggi sta accadendo nel Mediterraneo. Riporto al riguardo le sagge frasi contenute in «Nuova Antologia», anno 1881: «[Ai tempi del Regno Sardo] per mezzo del Ministro Raffo il Re di Sardegna era poco meno che onnipotente a Tunisi. Il Re di Sardegna a differenza di quanto faranno i Francesi aveva acquistato quella immensa autorità morale non colla forza ma pacificamente, mentre la Francia si è impadronita di Tunisi con la violenza. La Francia raddoppiò gli sforzi [dopo l’Unità Italiana] per sostituirsi all’Italia in Tunisia. L’Italia a Tunisi ha mancato, per dirla col Ministro Peruzzi, d’“esprit de suite”. Non va dimenticato però che il Governo Francese quando si accinse all’impresa si teneva sicuro dell’appoggio di tutta l’Europa, comprese la Germania e l’Inghilterra, ed esclusa la sola Italia, ed era ben lungi dal prevedere le difficoltà alle quali andava incontro. S’aspettava una resistenza immediata che sarebbe stata prontamente vinta da forze preponderanti; non già un’insurrezione di tutti gli Arabi». Parole che ci lasciano oggi sgomenti, ma che al contempo dimostrano nella loro complessità quanto la politica dominasse l’economia, senza nulla togliere agli interessi economici in campo.

(aprile 2016)

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