Terza Guerra d’Indipendenza
Quei 50 giorni del 1866

Quando la giovanissima Italia del 1866 scese in campo contro l’Austria, alleandosi con la Prussia, nuovo astro nascente del firmamento militare e politico europeo, le sue esperienze belliche erano uguali a zero. A parte le battaglie del 1848 e del 1859, che peraltro erano state combattute a livello pre-unitario, sebbene con idealità nazionali se non anche giacobine, ed a parte la Guerra di Crimea ispirata dalla sagace intuizione di Cavour, il Regno di Vittorio Emanuele II – avallato da plebisciti più o meno «bulgari» che comunque suffragarono un’ampia volontà popolare – non aveva avuto un battesimo del fuoco in campo internazionale, mentre si era dovuto impegnare ben oltre le previsioni nella repressione del cosiddetto brigantaggio (una sorta di guerra civile le cui conseguenze si sarebbero protratte nel lungo termine).

La nuova Italia aveva visto la luce senza Roma, che continuava ad essere il sogno proibito di tanti patrioti, vista la protezione dello Stato Pontificio da parte francese, tristemente confermata dalla dolorosa pagina di Mentana (1867); ma nello stesso tempo senza il Veneto, per non dire delle altre terre «austriache» quali il Trentino e la Venezia Giulia, in cui l’ideale irredentista, reso perseguibile dalla grande svolta unitaria e dalla rapida maturazione delle coscienze, aveva trovato rapida e condivisa diffusione.

In questa ottica, la discesa in campo dell’Italia a fianco della Prussia (come imposto dall’alleanza formalizzata in aprile a Berlino) contro quella che mezzo secolo più tardi sarebbe stata definita la «secolare nemica» dall’interventismo patriottico nel primo grande conflitto mondiale, apparve sostanzialmente naturale, pur nelle resipiscenze derivanti non tanto da una preparazione militare approssimativa quanto dalle cause originarie della guerra austro-prussiana, in cui l’aspetto dinastico e diplomatico aveva interferito con quello politico. Per l’Italia, peraltro, fu l’occasione per assumere un ruolo da protagonista idoneo a consolidare il processo unitario, e per accogliere il «grido di dolore» del Veneto a cui Vittorio Emanuele aveva dichiarato, già sette anni prima, di non essere insensibile.

La Terza Guerra d’Indipendenza ebbe durata breve, consumandosi fra il 23 giugno ed il 12 agosto nello spazio di cinquanta giorni, ma si concluse con un successo quasi umiliante, dovuto soltanto alle grandi vittorie prussiane, ed in particolare a quella di Sadowa (3 luglio): infatti, l’Austria non avrebbe trasferito all’Italia la sovranità sul Veneto, che venne invece ceduto alla Francia di Napoleone III nel singolare ruolo di intermediatrice, con successivo passaggio all’Italia. Ciò accadde perché il Governo di Vienna, ancora fedele agli anacronismi autocratici della Santa Alleanza, non aveva riconosciuto la nuova realtà istituzionale italiana, conservando una pregiudiziale tanto rigida quanto antistorica.

Le operazioni militari furono a dir poco opinabili: le forze di terra, nonostante importanti episodi di valore, vennero sconfitte subito a Custoza, anche a seguito delle paradossali divergenze fra Lamarmora e Cialdini, mentre quelle di mare consentirono all’Austria di acquisire la «gloriuzza» di Lissa (26 luglio) non tanto per i meriti di Tegethoff quanto per i demeriti di Persano, che non a caso avrebbe subito un ignominioso processo a guerra finita. L’onore militare dell’Italia venne salvato dai 38.000 volontari di Garibaldi (che si erano aggiunti ai 190.000 uomini delle forze regolari schierate contro altrettanti Austriaci) e dal famoso telegramma («Obbedisco») spedito da Bezzecca a seguito dell’armistizio di Cormons: un episodio rimasto a buon diritto nella memoria storica italiana e nella migliore oleografia del Risorgimento.

Un bel quadro di Giovanni Fattori dipinto nel 1880 ed esposto a Firenze nella Galleria d’Arte Moderna descrive l’accorato sconforto di Custoza in modo visivamente immediato, più delle cronache militari più o meno edulcorate. In realtà, la disillusione fu assai viva ed ebbe un ruolo importante anche nelle vicende successive del Risorgimento, con particolare riguardo a quelle concernenti la «presa» di Roma che sarebbe sopraggiunta nel 1870, quando l’Italia, approfittando ancora una volta del trionfo prussiano a Sédan (3 settembre) e della sconfitta definitiva di Napoleone III, decise di forzare il confine pontificio iniziando le operazioni militari concluse dopo una decina di giorni a Porta Pia. Si può aggiungere che in quell’occasione la neutralità nella guerra franco-prussiana non fu esente da conseguenze positive, a prescindere da Roma, perché non era mancato un confronto talvolta aspro, seppure velleitario, tra coloro che opzionavano l’alleanza con la Prussia e quanti, non aggiornati sui mutamenti di forza nell’ambito mitteleuropeo, propendevano per quella con la Francia.

La Battaglia di Custoza

Giovanni Fattori, La Battaglia di Custoza, 1880, Galleria d’Arte Moderna, Firenze (Italia)

Il completamento dell’Unità intervenuto con l’acquisizione del Veneto e poi con quella dello Stato Pontificio avvenne in uno stile machiavelliano che avrebbe sedimentato a lungo nell’inconscio collettivo, e prodotto effetti non sempre favorevoli nei decenni successivi: ad esempio, con lo «schiaffo» di Tunisi ad opera francese e con i disastri coloniali maturati nello scorcio conclusivo del secolo sino a quello epocale di Adua. Del resto, il modo con cui la Terza Guerra d’Indipendenza si era conclusa rese impossibile soddisfare le speranze del Trentino e della Venezia Giulia, destinate a restare in lista d’attesa fino al 1918, quando vennero illuminate dal sole di Vittorio Veneto.

Per quanto riguarda il plebiscito che fece seguito alla pace di Vienna in cui vennero definiti i dettagli diplomatici, giova sottolineare che i suffragi in favore dell’unione veneta al Regno d’Italia, con l’aggiunta della provincia di Mantova e di una parte del Friuli, furono superiori a quelli già espressi in tutti gli altri territori acquisiti dalla Monarchia Sabauda: per l’esattezza, a fronte di circa 650.000 votanti, i suffragi contrari furono una sessantina, ragguagliandosi allo 0,1‰ (mentre in Toscana quelli per il Regno separato avevano raggiunto il massimo, come accadde a Firenze, con circa cinque punti percentuali). Pur con tutte le riserve del caso, anche questo fu un ultimo segnale del «gradimento» che la dominazione asburgica aveva riscosso nel settantennio trascorso dalla dolorosa fine della Serenissima.

Il Risorgimento, lungi dall’essere un’espressione retorica, aveva confermato anche con la Terza Guerra d’Indipendenza, pur tra luci miste ad ombre, la sua capacità di parlare alla mente ed al cuore degli Italiani e di porre le basi di un effettivo ed efficace riscatto etico-politico.

(giugno 2016)

Tag: Carlo Cesare Montani, Italia, Ottocento, Terza Guerra d’Indipendenza, Risorgimento, Regno d’Italia, alleanza con la Prussia, Cavour, Guerra di Crimea, brigantaggio, Vittorio Emanuele II, Veneto, Napoleone III, Santa Alleanza, Lamarmora, Cialdini, battaglia di Custoza, battaglia di Lissa, Tegethoff, Persano, Garibaldi, battaglia di Bezzecca, armistizio di Cormons, Giovanni Fattori, pace di Vienna.