I valori del Risorgimento
Alessandro Manzoni e Giuseppe Verdi espressero, con voci diverse, gli stessi ideali, che erano poi quelli comuni ai patrioti italiani che fecero il Risorgimento

Nell’immaginario comune, mentre il Settecento è il secolo del razionalismo, l’Ottocento è il secolo dell’idealismo, delle rivoluzioni e di quel fenomeno particolarissimo ed esclusivamente italiano che va sotto il nome di Risorgimento. La «linea di demarcazione» fra queste due epoche, per così dire, è segnata dalla Rivoluzione Francese.

In generale, questo è vero – alla fine del Settecento l’artista è visto come un titano in lotta contro la società, un vero e proprio apostolo della libertà: così Beethoven, Schiller, il giovane Goethe. Questo desiderio di libertà, dapprima un fatto puramente culturale, produce poi un effetto politico che stravolge il panorama europeo: dalla Francia la rivoluzione si diffonde dapprima dal basso, organizzata dal popolo (la Rivoluzione Francese) e poi dall’alto, con Napoleone, che nelle sue campagne militari si dichiara portatore delle idee rivoluzionarie e del desiderio di libertà (la campagna d’Italia del 1796 gli è stata affidata come premio per essersi distinto tre anni prima come ufficiale tra coloro che si erano opposti al tentativo di ritorno della Monarchia: la libertà richiesta dal popolo, in Italia viene imposta).

Col Trattato di Campoformio (ottobre 1797) si trasforma l’impresa militare in questione politica: Napoleone, accolto in Italia come liberatore dagli Austriaci, cede parte delle conquiste territoriali italiane a Francesco II, venendo così visto come un traditore. La Francia conquista il Belgio, la regione ad occidente del Reno, instaura la Repubblica Padana o Cisalpina (che comprende la Lombardia e l’Emilia Romagna) e una Repubblica Ligure (che sostituisce la vecchia oligarchia genovese); ma l’intero Veneto, l’Istria e la Dalmazia sono ceduti per agevolare la firma del Trattato con l’Austria. Nei due anni successivi, l’espansionismo francese ingloba quasi tutta l’Italia: al posto del Papa viene creata la Repubblica Romana, mentre la creazione della Repubblica Partenopea costringe alla fuga da Napoli Ferdinando IV di Borbone, che si ritira in Sicilia protetto dagli Inglesi. La forte influenza dei Francesi, soprattutto l’importazione della scristianizzazione e dell’anticlericalismo, mette però in cattiva luce i repubblicani italiani, che di fatto sono sottomessi alla Francia.

Con l’arrivo dei Russi, la Repubblica Cisalpina passa sotto l’Austria. Ma nel 1800 i Francesi vengono accolti di nuovo come liberatori. Nel gennaio del 1802, Napoleone riunisce a Lione cinquecento notabili italiani con cui decide il nuovo assetto della Penisola: nasce così la Repubblica Italiana, il cui Presidente è lo stesso Napoleone, mentre il resto d’Italia è di fatto in mano a suoi dipendenti – Liguria, Ducato di Lucca, Parma, Granducato di Toscana dal 1808 entreranno a far parte dei dipartimenti francesi. Gli Italiani non partecipano alla libertà.

Con la caduta dell’Impero Napoleonico, nel 1815 si apre il periodo della Restaurazione: sotto la presidenza del Ministro degli Esteri austriaco, il principe di Metternich, le quattro potenze vincitrici (Inghilterra, Russia, Austria e Prussia) si riuniscono per stabilire il nuovo assetto europeo. Due sono le aree più penalizzate:

1) il ventre molle dell’Europa (una serie di Stati non ancora unificati, tra Francia e Prussia che ancora non ha ottenuto l’egemonia);

2) l’Italia, considerata al pari della Germania una semplice «espressione geografica» (cioè senza identità politica unitaria). Viene usata per controbilanciare le forze ed è soggiogata alle esigenze degli Asburgo. Si decide di utilizzare il principio della legittimità, restituendo i vari territori alle dinastie a cui legalmente erano appartenuti. Si vanno così a creare nove Stati, spesso ostili tra loro ed incapaci di condurre una politica autonoma, con più attenzione al rigido rispetto della successione dinastica che a forze tra loro equilibrate; in ogni caso devono tutti dipendere dall’Austria, il cui obiettivo è creare una zona sud-orientale, uno Stato-cuscinetto per il contenimento della Francia. Nell’area settentrionale, in particolare, si crea il Regno Lombardo-Veneto (Lombardia, Trentino, ex ducato di Mantova, Friuli e Dalmazia ed in aggiunta anche Venezia, violando il principio della legittimità) sotto la diretta sovranità dell’Imperatore d’Austria, che governa tramite un Viceré a Milano.

L'Italia nel 1815

L'Italia nel 1815

In questo clima circolano le idee di libertà e l’Italia sviluppa una sua peculiare forma di Romanticismo, che si inserisce nelle vicende storiche e politiche della prima metà dell’Ottocento ed ha caratteri differenti rispetto al resto dell’Europa.

Il punto d’inizio è costituito dall’articolo della De Stael pubblicato nel gennaio del 1816 ed intitolato Sulla maniera e sull’utilità delle traduzioni: «Dovrebbero a mio avviso gl’Italiani tradurre diligentemente assai delle recenti poesie inglesi e tedesche; onde mostrare qualche novità ai loro cittadini, i quali per lo più stanno contenti dell’antica mitologia, né pensano che quelle favole sono da un pezzo anticate (cioè divenute antiche), anzi il resto d’Europa le ha già abbandonate e dimentiche. Perciò gli intelletti della bella Italia rivolgano spesso l’attenzione al di là delle Alpi, non dico per vestire fogge straniere, ma per conoscerle. […]

Havvi oggidì nella letteratura italiana una classe di eruditi che vanno continuamente razzolando le antiche ceneri, per trovarvi forse qualche granello d’oro; ed un’altra di scrittori che molta fiducia nella lor lingua armoniosa raccozzano suoni voti d’ogni pensiero».

Mentre i classicisti subissano di critiche la De Stael, sostenendo che il genio italiano è figlio diretto di quello latino e le tematiche tenebrose e l’orrido (tipiche dei romantici) sono proprie del gusto nordico ma estranee al bello inteso come armonia e proporzione, un gruppo di intellettuali più aperti abbraccia gli stimoli dell’articolo e dà vita nel 1818, a Milano, al «Conciliatore». Essi sono Silvio Pellico, Pietro Borsieri, Ludovico di Breme ed Ermes Visconti.

Il giornale si propone come portavoce delle nuove idee letterarie, ma nell’epoca della Rivoluzione Industriale tratta anche argomenti di economia e di scienza, mirando al progresso civile e scientifico utili al progresso economico della Lombardia. L’esperienza è di breve durata: già nel 1819 il governo austriaco lo fa chiudere per le sue idee progressiste e liberali.

Tema centrale è la diffusione della cultura non più alla cerchia ristretta dei letterati ma al pubblico più vasto, al popolo: occorre quindi un nuovo linguaggio in grado di comunicare i nuovi argomenti – bisogna abbandonare il linguaggio aulico, lingua ormai morta, liberarsi dall’impiccio delle regole e dei generi che ostacolano l’ispirazione del poeta. I romantici italiani sono però lontani dalle soluzioni estreme del resto d’Europa e ne rifiutano le tematiche irrazionalistiche e tenebrose: «Le finzioni della fantasia se non posano sulla reale natura delle cose e degli uomini, sono anzi un abuso che uno sfogo della mente». La letteratura si deve così ispirare al vero, come precisa Alessandro Manzoni in una lettera a Massimo d’Azeglio datata 1823: «L’utile per iscopo, il vero per oggetto, l’interessante per mezzo». Il Romanticismo italiano si configura così come un momento costruttivo, di crescita della società italiana, ed in pratica coincide col Risorgimento.

Il «Conciliatore» usa la stessa terminologia del grande giornale del Settecento, il «Caffè» («diffondere i lumi»), ha un’organizzazione su punti simili al «Caffè», ma è libero dall’illusione di una possibile collaborazione coi governi assoluti illuminati: tra il «Caffè» e il «Conciliatore» ci sono di mezzo la Rivoluzione Francese e l’età napoleonica.

Il maggior interprete di questa linea di continuità col classicismo è Alessandro Manzoni: la sua formazione è propriamente classica e, quando nel 1810 torna definitivamente da Parigi a Milano, c’è stata una svolta radicale nella sua produzione, incentrata sul Cattolicesimo (come vedremo più avanti).

Le idee «romantiche» hanno influenza anche sul mondo musicale europeo ed italiano.

Nel Settecento, il compositore non si proponeva di esprimere se stesso, ma di fare musica; nell’Ottocento, l’uomo al centro dell’indagine artistica impone una maggiore aderenza alle fluttuazioni instabili dello spirito e degli stati affettivi: l’equilibrio delle relazioni tonali e degli elementi formali viene rotto e si crea un fluire incessante di modulazioni, frutto di successioni di accordi, con un particolare uso della dissonanza non preparata e non risolta.

Nel Settecento, l’armonia era in funzione, a sostegno della bella melodia: importava la «cosa detta», l’idea musicale nei suoi aspetti ritmici e melodici esposta indifferentemente da questo o quello strumento; nell’Ottocento, l’appropriatezza strumentale diventa una delle maggiori cure del compositore, uno dei mezzi espressivi più efficaci per perfezionare il gusto timbrico.

Soprattutto, cambiano il pubblico e – di conseguenza – la funzione dell’opera: nel Settecento, l’opera era indirizzata al divertimento dei nobili. Il melodramma italiano, da Napoli si era diffuso in Europa coi caratteri di una colonizzazione: l’italiano era la lingua imposta per i libretti ed i compositori erano chiamati alle corti di Vienna, Londra, Parigi, San Pietroburgo come parte di un pacchetto preconfezionato che comprendeva anche cantanti, costumisti e parrucchieri.

Nell’Ottocento sono i patrioti a rivendicare un ruolo nuovo per l’opera. Nel saggio Filosofia della musica del 1836, Giuseppe Mazzini – auspicando di riportare l’Italia al ruolo di faro che aveva avuto nel secolo precedente – chiede: la nobilitazione del recitativo; lo sviluppo del coro; un maggiore studio dell’instrumentazione. È appena morto Bellini, e la Penisola non sembra più essere il luogo dove fare musica: avrebbe saputo Donizetti «levarsi all’officio di fondatore della scuola musicale italo-europea»? Non bastava più perpetuare o rifare una scuola italiana, occorreva esprimere «dall’Italia le fondamenta d’una scuola musicale europea». Mazzini dedica quindi il suo opuscolo ad un «ignoto numini» che avrebbe iniziato a muovere i primi passi sul cammino dell’arte e nel contempo indica un nuovo valore con cui placare la struggente ansia individualistica del Romanticismo: Dio e il popolo.

Al centro del Risorgimento italiano c’è il popolo: il popolo non solo destinatario della cultura, ma anche protagonista; ci sono «le genti meccaniche», con le loro abitudini, le loro tradizioni ma soprattutto i loro valori.


La Fede

La Fede è la «colla» che tiene unito il popolo, al di là di ogni distinzione ed individualismo. E parlando di Fede, non si può non pensare ad Alessandro Manzoni, che di questa Fede popolare è il maggior interprete.

Nato nel 1785, Manzoni ha avuto una formazione non religiosa; aderisce al Cattolicesimo nel 1810 e, tra il 1812 e il 1815, progetta una serie di dodici inni sacri per le maggiori feste religiose (l’inno è un componimento tipicamente italiano, creato da Sant’Ambrogio per la sua lotta contro gli ariani).

L’inno si rivolge al popolo, è un interprete corale della coscienza cristiana dei fedeli che celebra l’evento liturgico: per questo ha un metro ottonario, agile e popolareggiante, e un ritmo incalzante lontanissimo dall’endecasillabo classico; il linguaggio, che a noi può sembrare difficile e dotto, in realtà mantiene un registro alto, ma rispetto alle forme auliche del classicismo è certamente un’evoluzione.

Il progetto di Manzoni rimarrà incompiuto: scriverà solo quattro inni; l’ultimo, La Pentecoste, è del 1822.

L’invocazione della discesa dello Spirito sul popolo, nell’ultima parte dell’inno, ne traccia una folla di tanti volti e tante lingue, tra cui si distinguono:

1) l’infelice, consolato dallo Spirito;

2) il violento, contro il quale lo Spirito si muove con una forza contraria (bufera) in grado di trasformare i pensieri orgogliosi in pietà;

3) il povero, che per la sua condizione ha già conquistato il Cielo (secondo quanto si legge nel Vangelo: «Beati i poveri in spirito perché di essi è il Regno dei Cieli»);

4) il ricco, che ha ricevuto in abbondanza ed ora è chiamato a ripartire i suoi beni con il riserbo che rende il dono gradito a Dio;

5) i bambini, che sorridono rivelando la loro purezza;

6) le fanciulle, che manifestano un casto rossore;

7) vergini, spose, baldi giovani guidati a propositi veraci, i vecchi e i morenti che stanno smarrendo la strada della salvezza eterna.

Da La Pentecoste:

«Noi T’imploriam! Ne’ languidi
pensier dell’infelice
scendi piacevol alito
aura consolatrice:
scendi bufera ai tumidi
pensier del violento;
vi spira uno sgomento
che insegni la pietà.

Per Te sollevi il povero
al ciel, ch’è suo, le ciglia,
volga i lamenti in giubilo,
pensando cui somiglia:
cui fu donato in copia,
doni con volto amico
con quel tacer pudico,
che accetto il don ti fa.

Spira de’ nostri bamboli
nell’ineffabil riso;
spargi la casta porpora
alle donzelle in viso;
manda alle ascose vergini
le pure gioie ascose;
consacra delle spose
il verecondo amor.

Tempra de’ baldi giovani
il confidente ingegno;
reggi il viril proposito
ad ineffabil segno;
adorna le canizie
di liete voglie sante;
brilla nel guardo errante
di chi sperando muor».

Giuseppe Verdi, in una lettera datata 1836 e indirizzata ad un amico, il maestro Pietro Massini in Milano, confessa di non essersi mai sentito inclinato alla musica di chiesa; in effetti, dai primi anni in cui è vissuto a Busseto, ed è parso aspirare al posto di Maestro di Cappella del Duomo di Monza, sino al 1873, non si è mai occupato di musica sacra (comincia a scrivere musica sacra soltanto per commemorare Manzoni, di cui è grande ammiratore).

Nel 1893, decide di comporre quattro pezzi sacri, tra cui primeggia il Te Deum. Il 1° marzo 1896 scrive, da Genova, una lettera a Tebaldini: «Io conosco alcuni Te Deum antichi, ne ho sentiti altri pochi moderni, e mai sono stato convinto dell’interpretazione (a parte il valor musicale) data a quella Cantica.

Questa viene ordinariamente eseguita nelle feste grandi, solenni, chiassose, o per vittoria, o per una incoronazione, eccetera.

Il principio vi si presta, ché Cielo e Terra esultano… Sanctus, Sanctus Deus Sabaoth; ma verso la metà cambia colore ed espressione. Tu ad liberandum – è Cristo che nasce dalla Vergine ed apre all’umanità regnum coelorum.

L’umanità crede al Judex venturus; lo invoca Salvum fac… e finisce con una preghiera: Dignare Domine die isto… commovente, cupa, triste fino al terrore!

Tutto questo non ha nulla a fare colle vittorie e colle incoronazioni; e perciò desideravo conoscere se Vallotti, che viveva in epoca in cui poteva disporre d’un’orchestra e d’un’armonia abbastanza ricca, abbia trovato espressioni e colori, ed avesse intendimenti diversi da molti de’ suoi predecessori».

Appare evidente che il Te Deum di Verdi va considerato come una Cantata di carattere religioso, invece che come una composizione sacra strettamente liturgica. Inizia sul tema liturgico, bello, grandioso, imponente; poi, attraverso una successione di accordi semplici che passano dall’uno all’altro coro, si arriva al «Sanctus, Sanctus Domine Deus Sabaoth», uno scoppio improvviso di allegrezza, di sonorità gioconda. «Pleni sunt coeli et terra maiestatis gloriae Tuae» canta il primo coro; «Sanctus, Sanctus» risponde l’altro con impeto di esultanza. Ed ecco spuntare il bellissimo tema che dovrà passare come tenue filo e risplendere poi luminoso, sotto diverse forme e diversi colori, attraverso tutta l’imponente composizione. Il contrappunto delle voci riveste qui un carattere corale veramente nobile e distinto. I violini ripetono il tema precedente, che viene poi imitato dai bassi, mentre le parti acute dell’orchestra e del coro contrappuntano con frasi ricche e sonore.


La Patria

Quando si parla di Risorgimento, il pensiero corre subito al concetto di Patria: perché, se è vero che gli Italiani sono da secoli divisi, è anche vero che – in qualche modo – hanno coscienza d’essere un unico popolo con caratteri suoi specifici. Leggiamo nel Decameron (seconda giornata, novella nona): «…andando dattorno veggendo, e molti mercatanti e ciciliani [siciliani] e pisani e genovesi e viniziani e altri italiani vedendovi, con loro volentieri si dimesticava per rimembranza della contrada sua»; sono parole di Boccaccio, in pieno Trecento! È una delle prime attestazioni della parola «Italiani» destinata a designare il nostro popolo, che va dalla Sicilia al Nord Italia; ma già al tempo di Augusto, nel I secolo, l’Italia corrispondeva grosso modo a quella attuale, con l’esclusione della Sicilia e della Sardegna.

L’ode civile Marzo 1821, la più bella poesia del Risorgimento, viene composta da Alessandro Manzoni proprio nel marzo del 1821, quando i patrioti lombardi confidano che Carlo Alberto con l’esercito piemontese venga in appoggio ad una loro insurrezione contro l’Austria. Il poeta anticipa gli eventi con la fantasia immaginando che i Piemontesi abbiano già oltrepassato il confine del Ticino. In realtà i fatti sperati non si verificano e Manzoni, che non ha partecipato ai moti ma li ha comunque sostenuti dall’esterno, distrugge il manoscritto per sfuggire alle persecuzioni austriache dopo averne mandato a memoria il testo; l’ode verrà pubblicata solo nel 1848.

Dopo aver descritto l’accoglienza dell’esercito piemontese da parte delle fraterne contrade lombarde e la fondazione della nuova entità territoriale su un sacro giuramento («o compagni sul letto di morte o fratelli su libero suol»), Manzoni dà la sua definizione di Nazione, ovvero di popolo italiano:

«una gente che libera tutta, o
fia serva tra l’Alpe ed il mare;
una d’arme, di lingua, d’altare,
di memorie, di sangue e di cor»

(un esercito, una lingua, una religione, una storia, una stirpe, gli stessi sentimenti).

Poi si rivolge agli stranieri, ai Francesi che si erano proposti come forieri di libertà, ma che poi si sono macchiati di «l’obbrobrio d’un giuro tradito» (hanno tradito il giuramento che sta sulla loro bandiera). Ma Dio non sarà sordo alle preghiere del popolo (torna il binomio Dio-popolo): come Dio ha aiutato gli Austriaci a liberarsi dai Francesi, durante le guerre napoleoniche, ora aiuterà gli Italiani a liberarsi dagli Austriaci, perché il Padre di tutte le genti non ha mai consegnato gli Italiani agli Austriaci, come se avesse dato un campo da raccogliere a chi non vi ha né arato né seminato:

«O stranieri! Sui vostri stendardi
sta l’obbrobrio d’un giuro tradito;
un giudizio da voi proferito
v’accompagna all’iniqua tenzon;
voi che a stormo gridaste in quei giorni:
Dio rigetta la forza straniera:
ogni gente sia libera, e pera
della spada l’iniqua ragion.

Se la terra ove oppressi gemeste
preme i corpi de’ vostri oppressori,
se la faccia d’estranei signori
tanto amara vi parve in quei dì;
chi v’ha detto che sterile, eterno
sarìa il lutto dell’itale genti?
Chi v’ha detto che ai nostri lamenti
sarìa sordo quel Dio che v’udì?

Sì, quel Dio che nell’onda vermiglia
chiuse il rio che inseguiva Israele,
quel che in pugno alla maschia Giaele
pose il maglio, ed il colpo guidò;
quel che è Padre di tutte le genti,
che non disse al Germano giammai:
va’, raccogli ove arato non hai;
spiega l’ugne, l’Italia ti do».

I concetti sono quelli dell’oppressione e dell’esilio: perché siano più solenni e sacri, vengono esposti con similitudini che portano due esempi biblici:

1) la tradizionale fuga attraverso il Mar Rosso, terminata con le acque che si chiudono sugli Egiziani;

2) l’eroina (qui chiamata «maschia») Giaele che uccide l’oppressore cananeo Sisarra col martello che Dio le ha messo in mano.

La conclusione dell’ode è un’esortazione che Manzoni fa al popolo, simile al discorso che fa un Generale ai suoi soldati per incitarli alla vittoria:

«Oggi, o forti, sui volti baleni
il furor delle menti segrete:
per l’Italia si pugna, vincete!
Il suo fato sui brandi vi sta».

Di tono e contenuto simile è il discorso che il sacerdote Zaccaria rivolge al popolo di Israele nel Nabucco di Giuseppe Verdi (1842), in un momento di estremo sconforto, quando gli Assiri invasori stanno per irrompere nel Tempio di Gerusalemme dove si sono asserragliati gli Ebrei. Il librettista Solera (che sogna uno Stato unitario sotto il controllo del Papa) sembra quasi ricalcare le stesse parole di Manzoni quando Zaccaria – rievocando gli esempi di Mosè e poi di Gedeone contro i Madianiti – si dice certo che il Dio di Israele non sarà sordo alle preghiere del Suo popolo:

«D’Egitto là sui lidi
Egli a Mosè diè vita;
di Gedeone i cento
invitti Ei rese un dì…
Chi nell’estremo evento
fidando in Lui perì?» (parte I, scena II).


La famiglia e l'onore

L’ultimo valore che esamineremo è costituito dal binomio – in questo caso inscindibile – di famiglia ed onore.

La tragedia manzoniana Adelchi risale al periodo 1820-1822 e rispecchia il desiderio di una riforma romantica del teatro svincolato dalla tradizione classica e dalle leggi pseudo-aristoteliche.

La vicenda si svolge tra il 772 e il 774, in una Penisola Italiana occupata quasi interamente dai Longobardi. Desiderio, nobile di Brescia, ha minacciato lo Stato della Chiesa che ha chiesto protezione a Pipino, Re dei Franchi. Nel 768 è morto Pipino e gli sono succeduti i due figli: Carlo e Carlomanno. La moglie di Pipino, Bertrada, desiderosa della pace ha proposto un duplice matrimonio tra Carlo ed Ermengarda, figlia di Desiderio, e tra Gisla e Adelchi.

Solo il primo matrimonio, tra Carlo ed Ermengarda, avrà luogo; poi Carlo ripudierà Ermengarda e sposerà la Sveva Ildegarde. Le cronache a cui si appoggia Manzoni non spiegano la ragione del ripudio.

La tragedia si apre con il ritorno di Ermengarda a Pavia, presso il padre.

Primo ad essere colpito è l’onore: all’oltraggio del ripudio, Desiderio risponde con la sete di vendetta – vorrebbe costringere il Papa a consacrare Sovrani i figli di Carlomanno, che sono stati scacciati da Carlo e si sono rifugiati alla sua corte.

Leggiamo l’atto I, scena II. Parla Desiderio:

«Quando all’oltraggio
pari fia la mercé, quando la macchia
fia lavata col sangue, allor deposti
i vestimenti del dolor, dall’ombre
la mia figlia uscirà; figlia e sorella
non indarno di Re, sovra la folla
ammiratrice, eleverà la fronte
bella di gloria e di vendetta. E il giorno
lunge non è; l’arme io la tengo, e Carlo,
ei me la die’: la vedova infelice
del fratel suo, di cui con arti inique
ei successor si feo, quella Gerberga
che a noi chiese asilo, e i figli all’ombra
del nostro spoglio ricovrò. Quei figli
noi condurremo al Tebro, e per corteggio
un esercito avranno: al Pastor sommo
comanderem che le innocenti teste
unga».

Adelchi però non è d’accordo col padre, perché teme uno scontro con il compattissimo e forte esercito franco: egli incarna sia il guerriero antico, trasfigurato dal Cristianesimo, sia già l’eroe moderno, romanticamente riflessivo e lacerato, capace di percepire il dissesto morale e politico dei Longobardi. Da un lato non può non obbedire ai valori della Patria e della legge del padre, ma dall’altro sente nel profondo la tensione verso una giustizia universale e una dimensione più dolce e meno violenta. La stessa accettazione dei disegni divini, pur nella sofferenza, è uno strumento salvifico per il Cristiano.

La scena VIII dell’atto V presenta Adelchi ferito a morte, sofferente perché non è riuscito a sostenere la situazione; chiede a Carlo di trattare bene Desiderio, e consola il padre che non è più Re, perché il potere porta sofferenza:

«Godi che Re non sei; godi che chiusa
all’oprar t’è ogni via: loco a gentile,
ad innocente opra non v’è: non resta
che far torto o patirlo. Una feroce
forza il mondo possiede, e fa nomarsi
Dritto: la man degli avi insanguinata
seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno
coltivata nel sangue; e ormai la terra
altra messe non dà».

Nella Traviata di Giuseppe Verdi, Giorgio Germont, scoperto che il figlio Alfredo vive con una cortigiana, si reca da Violetta Valery a supplicarla di lasciare Alfredo («Madamigella Valery? D’Alfredo il padre in me vedete» – il senso di rottura riecheggia anche nella partitura musicale, nella musica). Per convincerla sfrutta i temi – tipicamente romantici – dell’onore e della famiglia: in particolare, fa leva sull’impossibilità per la sorella di Alfredo di sposarsi, in quanto la famiglia Germont è macchiata dall’onta della convivenza di Violetta e Alfredo. «È Dio che ispira, o giovine / tai detti a un genitor»: Dio ispira i sentimenti romantici. Mentre nel Settecento l’amore consiste in una fruizione esteriore del piacere, nell’Ottocento italiano interviene la Fede (Dio) che dà alla sofferenza un senso di purificazione e porta al perdono: Violetta si redime, anzi, in punto di morte confida ad Alfredo – donandogli un medaglione con la propria immagine – che lei dal cielo benedirà l’unione di lui con un’altra donna:

«Prendi, quest’è l’immagine
de’ miei passati giorni;
a rammentar ti torni
colei che sì t’amò.
Se una pudica vergine
degli anni suoi nel fiore
a te donasse il core…
sposa ti sia… lo vo’.
Le porgi questa effige:
dille che dono ell’è
di chi nel ciel tra gli angeli
prega per lei, per te» (atto III, scena VII).

Questo ci porta a parlare dell’esperienza più intima dell’uomo: l’incontro con se stesso, con la propria coscienza!

Nell’Adelchi Ermengarda, prima di morire, vive un momento che nello scritto di Manzoni è definito «in delirio», ma che – pur in una veste del tutto trasfigurata – risulta essere il momento in cui l’animo e i sentimenti si liberano dalla razionalità e si presentano nella loro nuda realtà.

Ermengarda, nonostante il tradimento, l’abbandono e il ripudio, non solo è ancora innamorata di Carlo, ma lo perdona e si considera a tutti gli effetti come la sola legittima moglie, che dovrà essere sepolta con le insegne regali, non con l’abito monastico che la sorella Ansberga le propone di indossare.

Ermengarda, alla notizia datale da Ansberga che Carlo si è risposato, sviene ed entra in uno stato delirante (per Verdi sarà il sonnambulismo di lady Macbeth) in cui immagina Carlo che prima sorride e poi abbraccia la nuova sposa.

(settembre 2013)

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