La favola delle api: il comunismo secondo Bernard de Mandeville
Come i vizi privati contribuiscono al benessere della Nazione

È possibile creare una società giusta? Se l’uomo è imperfetto, tentato dal male, è possibile che crei una società dove regnino la giustizia e l’onestà, e insieme il benessere? Questo è un interrogativo che l’uomo si è posto fin dagli albori della civiltà, spesso senza riuscire a dare una risposta.

Già gli antichi Greci avevano capito che l’uomo era parte di un insieme più grande di lui che era la «natura» e pertanto non poteva determinare da sé il proprio stato e il proprio destino ma era dominato dalle sue passioni, ed era perciò fragile e vulnerabile. Il Cristianesimo, introducendo il concetto di «persona», ha permesso di superare questa visione e dar vita a uno sviluppo impensabile, anche se le vicende umane hanno continuato, inesorabilmente, a essere contrassegnate dall’egoismo e dalla sete di potenza. In Occidente gli osservatori più attenti (Sant’Agostino, San Tommaso, Pico della Mirandola, San Tommaso Moro, Pascal, tanto per citare i principali) hanno colto la drammaticità della vita dell’uomo, sempre stretta tra il sogno di un mondo utopico – uno Stato perfetto, fantastico, romanzesco – e la tragica esperienza del male.

Nel XIX secolo, i mutamenti introdotti nella società europea dall’industrializzazione hanno creato in parte della classe intellettuale del tempo un senso di disorientamento, e nello stesso tempo il sogno – tuttora vivo – di poter costruire e di poter vivere in un mondo giusto e più umano, basandosi però su una concezione errata dell’uomo, visto come buono per natura (così nel pensiero di Rousseau) e non in balia delle proprie passioni e dei propri egoismi. Da qui si è passati alle forme primordiali del comunismo, quella premarxista e quella prebolscevica, che vedevano il profitto e addirittura il denaro come fonti delle ingiustizie e dei mali della società, e puntavano alla creazione di un mondo giusto sopprimendoli o ridistribuendoli in modo più equo.

Dove ciò è stato fatto, la situazione non è migliorata ma peggiorata, trovandosi da una parte un ristretto numero di persone che detenevano le ricchezze, il potere e i mezzi di produzione, e dall’altra uno sterminato numero di poveri-schiavi senza alcun diritto che non fosse quello concesso dall’élite dominante e senza alcuna possibilità di un reale progresso: così è stato – per esempio – nell’Unione Sovietica, a Cuba, in Cina e nei Paesi dell’Europa Orientale.

Una particolare e acuta visione del rapporto tra l’utopia e la presenza del male – con gli effetti che questo rapporto produce sulla convivenza umana – è quella proposta da Bernard de Mandeville (1670-1733), un medico olandese trasferitosi in Inghilterra, con La favola delle api. È un libro che tutti dovrebbero leggere e meditare.

Bernard de Mandeville, il 2 aprile 1705, pubblica in Inghilterra la prima edizione di un libretto in versi, anonimo, dal titolo: L’alveare scontento, ovvero i furfanti resi onesti. Pubblicato nuovamente nel 1714, poi nel 1723, nel 1729, nel 1732, con varie aggiunte e con il titolo mutato in La favola delle api, ovvero vizi privati, pubblici benefici, l’opera suscita scandalo e disgusto presso gli ambienti religiosi e accademici: l’Autore viene accusato di cinico immoralismo, né giova a procacciargli miglior fama il Saggio sulla carità e le scuole di carità (1923) dove, portando alle estreme conseguenze il discorso svolto nella Favola delle api, attacca senza mezzi termini la pia istituzione menzionata nel titolo del suo scritto.

Mandeville nella Favola delle api, narrando la storia di un grande alveare dominato dall’egoismo e dal vizio, ma operoso e prospero (apologo che prende spunto dalla Londra del tempo, centro di un Paese stabile nelle proprie istituzioni, libero ed economicamente dinamico), riflette sui comportamenti dell’uomo e traspone nel mondo degli animali le caratteristiche della società umana, con i suoi vizi e le sue virtù:

«C’era un grande alveare popolato d’api,
la cui vita scorreva negli agi e nel lusso.
Tanto era illustre per leggi e per armi,
quanto fecondo per gli sciami solerti;
era stimato la prolifica culla
di tutte le scienze e dell’industria operosa.
Mai api vi furono con governo migliore,
né api più volubili o meno soddisfatte.
Non erano asservite a nessuna tirannia,
e nemmeno guidate da una volubile democrazia,
ma sottoposte a dei Re, che governavano con equità,
perché leggi severe ne limitavano i poteri.
Quegli insetti vivevano come vivono gli uomini,
e replicavano in piccolo tutte le nostre azioni:
facevano i lavori come fanno i cittadini,
votati alla spada o talvolta alla legge».

Nell’alveare, accanto a quelle oneste, vi erano anche molte api che si comportavano male, dando soddisfazione ai loro vizi, alla loro bramosia di ricchezza e di vita agiata, cosicché nell’alveare – così come nella società umana – virtù e vizi convivevano, si rafforzavano e si contrastavano reciprocamente:

«Milioni si sforzavano per soddisfarsi l’un l’altra,
le bramosie reciproche e le smodate vanità,
mentre altri milioni trascorrevano i giorni
a disfar la fatica di chi aveva creato.
[…]
Molte si votavano a carriere
per le quali è raro che si vada a bottega,
in cui non serve denaro, ma una gran faccia tosta:
imbroglioni, scrocconi, protettori, giocatori,
borsaioli, falsari, ciarlatani, chiromanti».

Ogni ape aveva i suoi artifici per guadagnare di più a scapito delle altre: le api-avvocato si preoccupavano di mantenere le animosità accapigliandosi a ogni cavillo, trascinando in lungo le cause penali per ricavare degli onorari elevati (quante similitudini con i processi odierni...). Le api-medico preferivano la reputazione alla scienza e le ricchezze alla guarigione dei loro malati. Le api-sacerdote erano per la maggior parte tanto presuntuose quanto ignoranti, e in più pigre, incontinenti, avare e vanitose, anche se nascondevano agli occhi del pubblico questi difetti. Le api-soldato ricevevano la paga anche se davanti al nemico si ritiravano senza combattere, mentre venivano congedate con mezza paga se in guerra affrontavano il pericolo perdendo degli arti e non essendo quindi più in grado di servire. Le api-ministro ingannavano i Re, non tralasciavano nulla per far progredire gli interessi della Corona ma allo stesso tempo saccheggiavano impunemente il tesoro che tentavano di arricchire. Le frodi erano ovunque: chi acquistava del letame per ingrassare il suo prato, lo trovava misto per un quarto con pietre e cemento inutili, ma non poteva lamentarsi perché a sua volta imbrogliava mescolando al suo burro una metà di sale. La giustizia colpiva le api che erano povere e senza risorse, mentre metteva al sicuro il potente e il ricco.

«Ogni parte era dunque ricolma di vizio,
ma tutto l’insieme era tuttavia un paradiso.
Riverite nella pace,
e temute nella guerra,
rispettate in ogni dove,
prodighe della loro ricchezza e delle loro vite,
le api dominavano su ogni altro alveare.
Ecco le fortune di quella Nazione:
i crimini commessi la rendevano più forte,
e la stessa virtù, che aveva appreso dalla politica
una miriade di astuzie scaltre e ingegnose,
poteva alimentare grazie a esse
un sodalizio con il vizio.
Così da quel giorno,
le peggiori canaglie di quella moltitudine,
davano un contributo al bene della Nazione».

Questo è il punto centrale su cui Mandeville vuole fare luce: «Le peggiori canaglie di quella moltitudine, davano un contributo al bene della Nazione», come a dire: «Occorre soddisfare o piuttosto rinunciare alla passione che alimenta il vizio?»

«Da tale interrogativo discende una sottile e inquietante analisi di tutte le ipocrisie che si accompagnano alla nascente società moderna [protesa – allora come oggi – verso l’accumulazione e il consumo]. Un’analisi in cui domina la tesi che il consolidamento delle società in cui predomina la logica del mercato renda di fatto impossibile la ricerca, da parte degli individui che le compongono, di obiettivi che non siano strettamente legati ai loro interessi. A mano a mano che le strutture di mercato si insediano e si rafforzano all’interno delle società, assistiamo a una vera e propria morte dell’etica, intesa come interesse gratuito per l’altro» (Bernard de Mandeville, La favola delle api, in «Le sfide del fare» a cura della Scuola di Palo Alto, Milano 2006, pagina 22).

L’assunto di Mandeville è che i comportamenti che sono talvolta dannosi per l’individuo, risultano sovente necessari per il bene pubblico. Il lusso ne costituisce un esempio perché può produrre effetti diversi: può rovinare un privato e la sua famiglia, ma può arricchire chi produce oggetti per soddisfarlo. Dunque la capacità di appagare i bisogni si palesa in modo direttamente proporzionale alla diffusione dei vizi.

Proprio questo non capivano le api oneste e laboriose, che la spiccata attitudine al vizio e alla disonestà costituisce l’autentico fondamento del benessere di tutti. Perciò presero a lamentarsi con gli dèi tanto che questi, stanchi e infastiditi dalle loro incessanti proteste, decisero di intervenire e di trasformare improvvisamente l’alveare in una comunità onesta e dominata dalla virtù e dalla giustizia. Apparentemente, all’inizio, sembrava che le cose andassero per il meglio: in meno di un’ora il prezzo delle derrate alimentari diminuì ovunque; ciascuno, dal Primo Ministro sino ai contadini, si strappò la maschera d’ipocrisia che lo ricopriva. I debitori saldavano di propria iniziativa i loro debiti, e si condonava a coloro che non erano in grado di farlo. Non si videro più processi in cui entrassero la malvagità e la vessazione, nessuno poteva più accumulare ricchezze perché la virtù e l’onestà regnavano nell’alveare.

Ma poi, un poco alla volta, cominciarono i problemi: in una società dove nessuno delinqueva o litigava, le api-avvocato rimasero senza lavoro e furono costrette ad andarsene, così come tutte quelle che lavoravano a vario titolo nel campo della giustizia, come le api-fabbro (addette alle serrature, ai catenacci, alle inferriate, alle catene e alle porte munite di sbarre di ferro di prigioni ormai inutili), le api-carceriere, le api-secondino coi loro aiutanti, l’ape-carnefice, i sergenti, gli uscieri e i domestici del tribunale. Le api-medico non si perdevano più in dispute e litigi, ma guarivano i malati limitandosi alle semplici medicine prodotte nel loro Paese, senza ricercarne altre per ambizione personale. Tutti divennero economi e temperanti.

Nessuno ricercava più di quello che gli serviva per vivere: le livree restavano appese nelle botteghe dei rigattieri, quelli che avevano magnifiche carrozze le vendevano a poco prezzo, i nobili si liberavano di tutti i loro superbi cavalli e persino delle loro campagne. Si evitavano le spese inutili con la stessa cura con cui si evitava la frode, non si mantenevano più degli eserciti all’estero, non si combatteva se non per difendere la propria patria. Il prezzo dei poderi e degli edifici crollò: i palazzi divennero deserti; l’architettura fu del tutto abbandonata perché gli artigiani non trovavano più nessuno che li volesse impiegare e i pittori non diventavano più celebri con le loro pitture – la scultura, l’incisione, il cesello e la statuaria che rendevano splendide le abitazioni non furono più rinomati nell’alveare.

Le poche api che restarono nell’alveare vivevano miseramente, preoccupandosi non di come spendere il proprio denaro, ma di come guadagnarne per vivere. Quando dovevano pagare il loro conto alla taverna, le api decidevano di non rimetterci più piede. Tutte si contentavano di un solo abito per l’intero anno, così le mode scomparvero e tutti i sarti che lavoravano le ricche stoffe di seta e d’argento così come tutti gli artigiani che dipendevano da loro, si ritirarono. Le fabbriche producevano soltanto le stoffe più semplici; tuttavia erano tutte molto care. La natura, non più curata dai giardinieri, produceva i suoi frutti nelle consuete stagioni, ma non faceva più né rarità, né frutti precoci. La semplicità e la moderazione di tutte le api, il loro accontentarsi del necessario, la fine della ricerca della novità e di ogni ambizione fecero abbandonare i mestieri e tutte le arti. La grande prosperità di cui le api godevano venne meno.

Come si vede, si tratta di una società di stampo comunista, nel senso politico del termine, anche se nel libro, ovviamente, questa parola non compare: un comunismo utopico, così come descritto dai suoi ideologi, l’immagine di una società priva di conflitti, dove tutti lavorino in perfetta concordia e non abbiano aspirazioni personali, uomini privi di qualsiasi ambizione e perciò anche di volontà; ma questo non può portare alcun benessere, così come non ha portato benessere il comunismo nelle Nazioni che lo hanno abbracciato.

Proseguiamo con la storia. Gli altri alveari attaccarono l’alveare onesto. Le api combatterono con coraggio e vinsero, ma molte di loro rimasero uccise. Il resto dello sciame, che si era indurito nella fatica e nel lavoro, credette che l’agio e il riposo fossero un vizio e, per garantirsi una volta per sempre da ogni ricaduta, si rifugiò nel cupo cavo di un albero, dove a tutte le api non restò altro, della loro antica felicità, che la contentatura dell’onestà. Così, ogni ape prese a vivere in assoluta onestà, ma nella totale povertà.

«Smettete dunque di lamentarvi,
solo i pazzi consumano energie
per dare l’onestà a un grande alveare.
Poter godere di ogni piacere del mondo, essere temuti in guerra,
ma volere il conforto di ogni sorta di agi,
senza dei grandi vizi,
è una vana utopia, che va a frustrare il cervello.
La fame è senza dubbio un gran tormento,
ma se manca possiamo forse avere
la buona digestione e la salute?
E non dobbiamo forse il nostro vino
alla brutta, contorta e secca vite?
[…]
Si deve dunque ammettere che il vizio è benefico
qualora sia mondato e temperato dalla giustizia;
e che se un popolo aspira a essere grande,
il vizio vi appare tanto necessario
quanto la fame per indurre a mangiare».

La favola vuol convincere gli uomini a non essere ipocriti ma consapevoli delle reali dinamiche che intercorrono fra le intenzioni morali e i comportamenti concreti. Mandeville vede l’uomo non come un essere razionale – come ancor oggi propugnano gli utopisti – ma come un essere dominato dalle passioni: la pura virtù è per lui generosità, altruismo, sforzo di dominare le passioni, ma di questi valori la società presa nel suo complesso non sa che farsene, ne è anzi danneggiata. Le passioni generano ipocrisia, però spingono l’uomo verso il progresso: il vero fondamento della società umana non è un innato senso morale che spinge a fare il bene, ma un plesso di egoismi e di ambizioni umane; l’uomo non è altruista e benevolo, ma animato da aggressività e competitività, che lo spingono ad agire e produrre, ricercando la ricchezza, il lusso, i godimenti. Bisogna convivere con il bene e con il male, sapendo che, come diceva Tucidide, «l’uomo domina ovunque può»:

«La sola virtù non può dare alle Nazioni
una vita magnifica e radiosa;
chi immagina una nuova età dell’oro,
deve accettare, insieme all’onestà,
di nutrirsi di ghiande, come i porci».

Mandeville non dice come convivere nel contrasto tra bene e male e neppure come costruire una società capace di rendere vivibile questa compresenza. Ci lascia con l’amaro in bocca ma anche con un certo sorriso. Oltre non può andare. O forse, più semplicemente, non vuole.

(gennaio 2021)

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