Guerra del 1941: il voltafaccia della Jugoslavia contro l’Italia e l’Asse
Riflessioni sull’effettiva realtà storica di un conflitto atipico

La «vulgata» ha sempre parlato del conflitto con la Jugoslavia –quando le forze dell’Asse (Germania, Italia, Bulgaria e Ungheria) scesero in campo a fronte del colpo di Stato del 27 marzo 1941 con cui il Governo di Belgrado aveva cambiato improvvisamente campo – come di una guerra d’aggressione scatenata nel più ampio contesto di quella mondiale in atto dal settembre 1939, vale a dire dal momento in cui la Wehrmacht aveva invaso la Polonia con l’avallo dell’Unione Sovietica, mentre Francia e Gran Bretagna erano entrate in guerra contro il Reich Tedesco. In effetti, il colpo di Stato aveva cambiato gli equilibri politici anche dal punto di vista strategico, dando luogo a una gigantesca interferenza nemica nella zona europea controllata dall’Asse: di qui, la necessità di un intervento correttivo che per quanto riguarda l’Italia andava a chiudere in modo decisamente traumatico un significativo periodo di collaborazione, iniziato col patto d’amicizia del 1937. Si tratta di un fatto oggettivo e documentato in sede storiografica, sia pure con diverse interpretazioni non altrettanto imparziali.

A proposito dei rapporti italo-jugoslavi é congruo aggiungere che la «cordiale intesa» avviata dal citato accordo del 1937, firmato dal Primo Ministro Milan Stojadinovic[1] e dal Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, costituiva un fatto nuovo nelle relazioni dell’Italia con il mondo balcanico, improntate per parecchio tempo a caratteri di forte competitività emersi palesemente sin dallo scorcio conclusivo dell’Ottocento, quando l’irredentismo aveva incontrato la dura opposizione slava e, per essa, quella del Governo Asburgico, sulla scia delle Guerre d’Indipendenza e dello scontro fra i principi della democrazia liberale e i sussulti dell’ultimo assolutismo. Non basta: le violenze contro gli Italiani datavano da tempi assai più lontani, cominciando dalle truci invasioni avaro-slave del VII secolo; proseguendo con l’erosione delle comunità latine attraverso la sostituzione di chi scompariva nelle terribili e ripetute pestilenze, tramite il trasferimento coatto di nuovi aggregati slavi; e infine, massacrando in maniera indiscriminata i patrioti italiani durante il Risorgimento, come attestano i tanti martiri impiccati sulle forche austriache per mano di Francesco Giuseppe e del Feldmaresciallo Radetzky, plumbeo Governatore del Lombardo-Veneto.

È inutile aggiungere che dopo la Grande Guerra e il trasferimento all’Italia della Venezia Giulia e di Zara, seguito da quello di Fiume nel 1924, le organizzazioni terroristiche operanti in Jugoslavia, quali Orjuna e TIGR, si resero responsabili di attentati con diverse vittime, e con le esecuzioni capitali di Vladimir Gortan e dei «Quattro di Basovizza» (all’epoca la condanna a morte era praticata su larga scala in quasi tutto il mondo civile o presunto tale, ivi compresa la patria di Cesare Beccaria).

All’indomani della Grande Guerra, il Regno degli Slavi del Sud, poi diventato Jugoslavia, aveva fruito in maniera univoca della mancata applicazione del Patto di Londra (aprile 1915) con cui gli Alleati Occidentali avevano garantito all’Italia, in caso di vittoria, non solo Venezia Giulia e Istria, ma anche buona parte della Dalmazia, che invece venne conferita alla medesima Jugoslavia con la sola eccezione della piccola «enclave» di Zara: da un lato, per la ferrea volontà del Presidente Statunitense Woodrow Wilson, irremovibile paladino del nuovo Stato degli Slavi del Sud, e dall’altro, per la clamorosa inadeguatezza della delegazione italiana intervenuta alle trattative di pace. Nondimeno, di questi significativi precedenti, oltre che della «cordiale intesa» del 1937 quando le parti si erano impegnate a garantire le rispettive intangibilità territoriali e a promuovere la cooperazione, il nuovo Governo di Dusan Simovic[2] salito al potere dopo il «putsch» del 27 marzo, non tenne conto veruno.

Ignorare tutto ciò significa che isolare la storia del 1941 da un contesto di lungo periodo costituisce un’operazione azzardata: in fondo, sia gli autori del voltafaccia compiuto nel marzo, sia il Maresciallo Tito pochi anni dopo, non fecero altro, se non ispirarsi all’antica tendenza orientale di espansione ai danni dell’Occidente; nel secondo caso, rendendola più condivisa, anche a livello popolare, con l’avallo della lotta di classe a supporto del nuovo verbo nazional-comunista. Non a caso, gli stessi luogotenenti di Tito che avevano massima rilevanza politica, quali il vice Primo Ministro Edvard Kardelj e il teorico del regime Milovan Gilas, parlarono in tempi successivi di «pulizia etnica» compiuta a danno degli Italiani come da direttive imposte dal satrapo di Belgrado, con buona pace degli storici che continuano a negare tale perverso disegno.

Un’altra «vulgata» molto diffusa ha preteso di giustificare il grande Esodo dei 350.000 protrattosi tra fine guerra e metà degli anni Cinquanta, oltre alla tragedia delle 20.000 vittime infoibate o diversamente massacrate dai partigiani di Tito, quale conseguenza delle violenze compiute durante la guerra italo-jugoslava, tipiche di ogni conflitto e del diritto di rappresaglia codificato nella legislazione internazionale: in ogni caso, quelle perpetrate dalle milizie nemiche conobbero particolari davvero agghiaccianti, decisamente incommensurabili. Basti pensare all’eccidio di Planina Bala a danno dei 12 Carabinieri di Cave del Predil (Tarvisio), ampiamente illustrato in sede storica, per non dire del sadismo con cui i prigionieri venivano spesso seviziati prima della morte[3]: ad esempio, con l’evirazione o con l’enucleazione degli occhi!

Sta di fatto che venendo meno al patto d’amicizia stipulato con l’Italia, e soprattutto, annullando la più recente adesione all’Asse, firmata a Vienna dal Governo Jugoslavo in persona del Presidente Dragisa Cvektovic[4], Belgrado si rese responsabile di un atto dalle conseguenze militarmente scontate, anche se non aveva messo in conto la possibilità di una rapida ascesa delle forze comuniste di Tito a danno della Monarchia e della sua classe politica e militare che si era lasciata irretire dalle promesse britanniche formulate da Winston Churchill.

Non a caso, il Primo Ministro di Sua Maestà Britannica ebbe ad affermare solennemente, il 27 marzo 1941, che il Regno Unito faceva causa comune con la Jugoslavia, compiendo «tutti gli sforzi per il raggiungimento della vittoria». Nella sostanza delle cose, si trattava di una vera dichiarazione di guerra (confermata dalla contestuale mobilitazione generale delle forze armate slave) che azzerava le precedenti opzioni strategiche suffragate dall’impegno diplomatico dell’Asse in favore di Belgrado, rivolte a garantire l’espansione jugoslava nella vagheggiata direzione di Salonicco, ma sostituite dalla più allettante promessa inglese di Venezia Giulia e Dalmazia, con le città di Trieste, Fiume, Pola e Zara.

In quell’occasione Sir Winston non aveva visto giusto, perché la defenestrazione del reggente Paolo e l’assunzione del trono da parte di Pietro, il cosiddetto «Re fanciullo» di Belgrado diventato maggiorenne per decreto, non avrebbero giovato alla conclamata «causa comune» ma a quella del blocco comunista. Il Primo Ministro Inglese si sarebbe accorto del suo grave errore soltanto a guerra praticamente finita, quando era troppo tardi per portarvi rimedio.

Dal punto di vista militare, la guerra dell’Asse con la Jugoslavia ebbe una durata di pochi giorni, anche se furono proprio le forze slave ad assumere le prime iniziative belliche in direzione di Zara, senza dire di altri scontri con gli Italiani ai confini settentrionali dell’Albania. Nondimeno, l’attacco concentrico dell’Asse permise di concludere le operazioni in meno di due settimane (cosa che non avrebbe impedito alle forze partigiane monarchiche di Draza Mihajlovic, ma soprattutto a quelle comuniste di Tito, di organizzarsi e di tornare presto all’attacco).

In conclusione, si può affermare – alla luce di elementi di giudizio dalla palmare evidenza – che la guerra del 1941 ebbe origine dal comportamento della Jugoslavia e dal colpo di Stato di fine marzo, messo a punto con la collaborazione e l’avallo del Regno Unito. Il conflitto mondiale in cui l’Italia era entrata dopo dieci mesi di attesa era in atto da oltre un anno e mezzo, ma ciò non elide il fatto nuovo costituito dal subitaneo voltafaccia della Jugoslavia e dalle sue conseguenze strategiche, se non altro per la distrazione di significative forze dell’Asse dalle altre zone di operazioni, sia nell’immediato, sia a più lungo termine per il crescente impegno che si rese necessario nei confronti della resistenza partigiana.

Il colpo di Stato, in tutta sintesi, fu tradimento jugoslavo della cooperazione con l’Italia in atto da circa un quinquennio: un fatto innovativo determinante, che avrebbe avuto conseguenze di lungo termine. È ben vero che la correttezza storiografica impone di prescindere sempre da ogni supposizione dubitativa e soprattutto avversativa; nondimeno, è chiaro ed evidente che, in mancanza del colpo di Stato e del subitaneo cambiamento di campo da parte jugoslava, il futuro del popolo istriano, fiumano e dalmata sarebbe stato assai diverso: verosimilmente, senza la tragedia di Esodo e foibe, per lo meno nelle allucinanti dimensioni avvenute e accertate. Se non altro per questo, è lecito affermare che le conseguenze del «cambiamento» intervenuto a Belgrado nel marzo 1941, sebbene silenziate o diversamente motivate da parecchi storici[5], sono sempre in essere, e lo saranno ancora.


Note

1 Milan Stojadinovic (1888-1961) dopo la laurea in Giurisprudenza a Belgrado e il perfezionamento in Germania, Francia e Regno Unito, fu più volte deputato al Parlamento Jugoslavo, e ripetutamente Ministro delle Finanze. Nel 1935, dopo essere stato tra i fondatori dell’Unione Radicale, fu Capo del Governo e Ministro degli Esteri fino al 1939: in tale ambito, ebbe un ruolo decisivo nella stipula del patto italo-jugoslavo del 1937 ma non ebbe la possibilità di portare a compimento il Concordato col Vaticano, a causa dell’opposizione ortodossa. Dopo l’occupazione italiana dell’Albania, che aveva avallato, fu visto con sospetto, sostituito con Dragisa Cvektovic e deportato a Mauritius dove rimase sino al termine della Seconda Guerra Mondiale, quando avrebbe optato per l’esilio, dapprima a Rio de Janeiro e poi a Buenos Aires. Nel 1954 ebbe incontri col vecchio nemico Ante Pavelic per un possibile colpo di Stato congiunto in Jugoslavia: idea che non ebbe seguito.

2 Dusan Simovic (1888-1961), ufficiale serbo nelle Guerre Balcaniche e poi nella Grande Guerra, dopo il conflitto fu fondatore e Comandante dell’Aeronautica Jugoslava fino al 1938. Assunse un ruolo decisivo nel colpo di Stato del 27 marzo 1941 culminato nell’arresto del Presidente Cvektovic, mentre il reggente Paolo Karageorgevic veniva costretto all’esilio per lasciare il trono al giovanissimo Pietro II di Jugoslavia. Nondimeno, il 6 aprile – giorno dell’entrata in guerra contro le forze dell’Asse – andò in esilio a Londra unitamente al nuovo Governo da lui presieduto e allo stesso Pietro II. Dimessosi nel 1942, dopo la guerra fece ritorno a Belgrado accettando l’ascesa di Tito e dedicandosi agli studi storici.

3 Nell’ambito dell’amplissima bibliografia in materia, un testo ufficiale molto documentato sulle efferatezze compiute a danno degli Italiani è il Treatment of the Italians by the Yugoslavs after September 8th 1943 (Presidenza del Consiglio, Roma 1946, 126 pagine). Predisposto dal Governo in vista della Conferenza di pace in programma a Parigi ma non utilizzato in detta circostanza, è stato oggetto di traduzione e ripubblicazione a cura dell’Associazione Nazionale Dalmata (2011), e presentato a Roma da parte del Senatore Ajmone Finestra e della Dottoressa Mila Mihajlovic, giornalista serba di RAI International. Per quanto riguarda l’eccidio di Malga Bala, compiuto da partigiani slavi il 25 marzo 1944, le cui vittime sono state onorate dalla Repubblica con la Medaglia d’Oro al Merito Civile, confronta Antonio Russo, Planina Bala, Storia di 12 Carabinieri barbaramente assassinati perché Italiani, Centro Culturale d’Informazione Sociale, Tarvisio 2002, 274 pagine.

4 Dragisa Cvektovic (1893-1969) era salito al potere dopo le dimissioni di Stojadinovic, rendendosi protagonista dell’ulteriore avvicinamento all’Asse che avrebbe provocato la rivolta degli ufficiali serbi filo britannici, autori materiali del colpo di Stato con arresto del premier, sua sostituzione con Simovic e conferimento del trono al «Re fanciullo». In seguito Cvektovic riuscì a riparare all’estero, restando in esilio per il resto della sua vita.

5 Le interpretazioni storiografiche sul colpo di Stato del 27 marzo 1941 e sugli effetti politico-militari che ne conseguirono, non sono sempre improntate al massimo dell’obiettività. La maggior parte degli storici propende – senza entrare nei necessari dettagli – per la tesi dell’aggressione alla Jugoslavia da parte dell’Asse, quantunque «necessitata» dalla sua nuova alleanza col Regno Unito e dalle conseguenti esigenze strategiche (un esempio probante è quello di Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Società Editrice Il Mulino, Bologna 2007, pagina 209). Del resto, le stesse fonti giuliano-dalmate sono sostanzialmente allineate alla semplicistica tesi dell’aggressione italiana: basti dire che nella ponderosa opera di P. Flaminio Rocchi la questione viene liquidata in due sole righe (confronta L’Esodo dei 350.000 Giuliani e Dalmati, quarta edizione, Difesa Adriatica 1998, 718 pagine). Tra le fonti interpretative più equilibrate, è da ricordare quella di Vincenzo Maria De Luca, La memoria non condivisa: Venezia Giulia contesa (1914-1941), Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2007, pagina 107, dove l’invasione della Jugoslavia da parte dell’Asse è definita «risposta prevedibile» al colpo di Stato che aveva determinato il cambiamento di campo. Ciò, senza dimenticare che «per una parte significativa dell’opinione pubblica» regionale «il conflitto suscitò più adesione che rassegnazione» e quindi un sostanziale consenso (Raoul Pupo, Il lungo Esodo, Edizioni Rizzoli Storica, Milano 2005, pagine 62-63) confermato dalle puntuali informazioni della Questura di Trieste circa l’impressione mutuata dalla «prova di malafede» della Jugoslavia (Ibidem, pagina 276).

(marzo 2020)

Tag: Carlo Cesare Montani, guerra del 1941, il voltafaccia della Jugoslavia contro l’Italia e l’Asse, Milan Stojadinovic, Galeazzo Ciano, Francesco Giuseppe, Josef Radetzky, guerra italo-jugoslava, Vladimir Gortan, Quattro di Basovizza, Cesare Beccaria, invasione della Jugoslavia, Woodrow Wilson, Dusan Simovic, Maresciallo Tito, Edvard Kardelj, Milovan Gilas, Winston Churchill, campagna di Jugoslavia, Dragisa Cvektovic, Ante Pavelic, Paolo Karageorgevic, Pietro II di Jugoslavia, Ajmone Finestra, Mila Mihajlovic, Antonio Russo, Marina Cattaruzza, P. Flaminio Rocchi, Vincenzo Maria De Luca, Raoul Pupo, guerra jugoslava 1941.