Guerra italiana al Terzo Reich
La dichiarazione del 13 ottobre 1943

Quasi sotto silenzio, sono passati 75 anni da quel lontano 13 ottobre 1943 quando il cosiddetto Regno del Sud, per iniziativa del Governo di Pietro Badoglio, decise di scendere in campo contro la Germania, tramite una frettolosa dichiarazione di guerra fortunosamente consegnata all’Ambasciata di Madrid. Erano passate poche settimane dalla rescissione del Patto d’Acciaio con il Terzo Reich e dall’armistizio «breve» con gli Alleati, firmato a Cassibile il 3 settembre, ma reso noto cinque giorni dopo, durante i quali lo stesso Badoglio aveva rassicurato l’Ambasciatore Tedesco Rudolph Rahn circa la fedeltà incondizionata dell’Italia alle forze dell’Asse. Da parte tedesca non giunsero manifestazioni ufficiali di reazione per non disattendere la linea assunta da Berlino, che non intendeva riconoscere il nuovo Governo Italiano installato a Brindisi con una giurisdizione effettiva limitata a pochi territori pugliesi.

La questione dell’impegno militare italiano a fianco dei nuovi Alleati venne affrontata in occasione dell’armistizio «lungo» firmato a Malta il 29 settembre dal Comandante Supremo Dwight Eisenhower e dallo stesso Badoglio, anche per l’insistenza italiana circa l’assunzione della qualifica di cobelligerante nel tentativo di mitigare le condizioni che venivano imposte dai vincitori, ma destinato a fallire. Nel frattempo, a seguito della liberazione di Benito Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso a opera di Otto Skorzeny, era già sorta la Repubblica Sociale Italiana, con giurisdizione sull’Italia Centro-Settentrionale.

In queste condizioni, la dichiarazione di guerra del 13 ottobre fu un atto militarmente e politicamente velleitario, perché il contributo dell’esercito badogliano alle operazioni belliche fino alla conclusione del 29 aprile 1945 ebbe carattere sostanzialmente marginale, riducendosi all’impegno nelle battaglie di Mignano Montelungo, dove ebbe il battesimo del fuoco, di Monte Zurrone e della Linea Gotica, in posizione sempre subordinata e inferiore, dal punto di vista degli effetti strategici, a quelli della stessa lotta partigiana. Nondimeno, all’indomani stesso della dichiarazione, Badoglio si sarebbe rivolto in termini entusiastici ad Eisenhower comunicandogli la notizia «con vera gioia» e affermando che con detta decisione ogni legame col «funesto passato» veniva disciolto, onde marciare assieme ai nuovi Alleati «sino all’immancabile vittoria». Ecco un ulteriore episodio significativo di una retorica tipicamente italiana.

Anni dopo, il popolare Ike, in una conversazione con il proprio Aiutante di campo, avrebbe affermato che l’onore militare dell’Italia fu parzialmente salvato dalla Repubblica Sociale: ebbene, non si deve escludere che fosse giunto a tale conclusione anche per la vicenda del 13 ottobre. Sta di fatto che gli Alleati manifestarono sempre la massima prudenza nell’impiego degli Italiani, destinandone una parte largamente maggioritaria a operazioni di supporto e di retrovia, se non anche a lavori pesanti di carattere civile, come quelli portuali: la mancanza di fiducia, tra l’altro, era motivata dallo scarso entusiasmo delle truppe e dall’alta renitenza alla leva che il Governo Badoglio fu costretto a registrare all’atto delle sue chiamate alle armi, non senza sommosse popolari di forte impatto come quelle che si ebbero in Sicilia.

Nonostante questi limiti operativi di carattere oggettivo, il Corpo Italiano di Liberazione, che dal gennaio 1944 venne costituito ufficialmente e posto sotto il comando del Generale Umberto Utili, avrebbe raggiunto un organico nell’ordine dei 25.000 uomini come da successive autorizzazioni degli Alleati, e un cospicuo numero di caduti, ben dimostrato dal fatto che nel solo episodio di Montelungo si immolarono quasi 1.000 Italiani: tutte vittime troppo spesso dimenticate, in specie a favore di quelle partigiane, visto che tra le «bande» e il predetto Corpo non corsero mai rapporti ottimali, in primo luogo per le ricorrenti divergenze politiche.

A 75 anni dalla dichiarazione di guerra alla Germania di Hitler e dopo i puntuali approfondimenti delle sue motivazioni sopraggiunti in sede storiografica (basti pensare alle pertinenti valutazioni di Claudio Pavone) non è inutile rammentare agli immemori, per non dire degli ignari, una pagina del grande Conflitto Mondiale che finì per arricchirsi di qualche aspetto surreale: per dirne una, la mancanza di un trattato di pace alla fine della guerra italo-tedesca, spiegabile con la resa incondizionata del Reich (e delle altre forze dell’Asse) e con la vanificazione assoluta della sua sovranità, tanto da ridurre il territorio tedesco a una giustapposizione di occupazioni militari. Lo stesso si può dire circa il rischio che, con quella dichiarazione, potesse essere innescata una guerra fratricida fra due soggetti statuali italiani come il Regno Sabaudo di Vittorio Emanuele III e la Repubblica Sociale, in aggiunta alla terribile lotta partigiana; rischio minimizzato proprio dalla scarsa presenza del Corpo di Liberazione nelle operazioni militari, oculatamente ridotte a talune iniziative contro i soli Tedeschi.

È stato detto che la dichiarazione del 13 ottobre, come sarebbe stato riconosciuto dallo stesso Eisenhower, ebbe, fra le altre, una motivazione paradossalmente umanitaria: quella di conferire uno «status» di prigionieri ai militari italiani deportati in Germania, che diversamente avrebbero potuto essere assimilati ai partigiani e in quanto tali suscettibili di fucilazione: cosa che peraltro non avvenne – nonostante la mancanza di un ricevimento formale della dichiarazione da parte tedesca – da una parte per la ricostituzione delle unità combattenti destinate al fronte italiano, avvenuta proprio in Germania in collaborazione con la Wehrmacht, e dall’altra, per il regime di internamento a cui furono sottoposti gli altri, comunque assai pesante per durezza dei lavori, fame e malattie, tanto da provocare un alto numero di vittime.

Oggi, lungi da polemiche ormai anacronistiche, si potrebbe ribadire che l’atto italiano del 13 ottobre fu politicamente velleitario e militarmente ininfluente, sebbene motivato dalla consapevolezza di una sovranità puramente teorica in quanto subordinata al potere e al volere degli Alleati, e dal tentativo di ridurne gli effetti peggiori. L’insuccesso era scontato: da una parte, per l’ulteriore sfida agli occupanti Tedeschi, tradotta in aspre manifestazioni di reazione, anche a carattere terroristico, e dall’altra, per il pragmatismo degli Alleati stessi, propensi a considerare realisticamente quella dichiarazione come un episodio trascurabile del grande Conflitto Mondiale, e nello stesso tempo, come un’ulteriore dimostrazione della scarsa affidabilità italiana.

La storia non fornisce lezioni perché in caso contrario non si commetterebbero pervicacemente gli errori del passato, ma è sempre in grado di proporre spunti di riflessione non effimera: nel caso di specie, sull’opportunità di evitare decisioni intempestive, e soprattutto, sulla necessità di programmare le scelte politiche alla luce di valutazioni realistiche circa i possibili effetti, a cominciare da quelli in termini di costi e ricavi, e prima ancora, di ethos: tutti contesti in cui il bilancio della guerra, in specie se perduta, ma come Giovanni Papini aveva ricordato all’epoca del Primo Conflitto Mondiale, anche se vittoriosa, è sempre negativo.

(novembre 2018)

Tag: Carlo Cesare Montani, Pietro Badoglio, Rudolph Rahn, Dwight «Ike» Eisenhower, Benito Mussolini, Otto Skorzeny, Umberto Utili, Adolph Hitler, Claudio Pavone, Vittorio Emanuele III, Giovanni Papini, guerra italiana al terzo Reich, 13 ottobre 1943, dichiarazione di guerra alla Germania.